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 2025  marzo 19 Mercoledì calendario

Ignazio Moser e il rapporto col papà Francesco: «Al mio matrimonio con Cecilia l’ho visto piangere: rarissimo. L’ho sempre idolatrato»

Ignazio Moser, 32 anni, è figlio del grande Francesco Moser: l’ex ciclista, per molti «lo sceriffo», per lui è «Checco». «Lo chiamo così quando voglio attirare la sua attenzione. Lui, invece, non mi chiama mai». Un rapporto al maschile, fatto di salite e discese, di sconfitte e successi, proprio come in sella alla bici che li ha uniti e separati. «Oggi è più facile che qualcuno sappia chi è Ignazio Moser e questo a papà dà molto fastidio. Quando gli chiedono i selfie e gli dicono “ma lei è il papà di Ignazio?” non gli piace, egoriferito com’è».
Che rapporto ha con suo padre?
«Nonostante il tempo passi, per me e per lui ancora di più, il nostro è un rapporto ringiovanito. Il Covid ha avuto un ruolo positivo fondamentale nel farmi ritrovare mio papà. Ho fatto due mesi e mezzo al maso con lui ed è stata un’esperienza completamente nuova: non avevo mai vissuto prima la sua presenza per così tanto tempo. Tra ciclismo, politica e impresa, è sempre stato molto impegnato. Il nostro rapporto si è veramente rinnovato e da lì in poi è cambiato anche il nostro modo di parlare. Prima facevo fatica a chiamare mio papà per chiedergli “come stai?” o “cosa fai?”. Adesso invece è diventata una routine. Qualcosa che per noi non è mai stato scontato».
Cosa non aveva accettato del suo lavoro, del suo successo?
«Papà è sempre stato un innovatore, nello sport e nella vita. Nonostante sia un uomo all’antica che parla solo in dialetto, in realtà è stato sempre molto curioso, attento al nuovo. Per quanto lo spaventasse, è stato in famiglia quello meno contrario alla mia dipartita. Pur non sapendo cosa stessi facendo, ha apprezzato il mio voler buttare il cuore oltre l’ostacolo. Fino al giorno prima ero in vendemmia in azienda, sono salito su un treno da Trento a Roma per entrare nella casa del “Grande Fratello Vip” e sono uscito che avevo orde di ragazzine che mi inseguivano».
Il ciclismo e le aspettative atletiche su di lei sono state un peso o vi hanno unito?
«Conservo un tema di quando avevo otto anni in cui si chiedeva “cosa vuoi fare da grande?”. Io ho scritto: il campione di ciclismo. Non il ciclista. Ho sempre idolatrato mio papà, una figura quasi mistica, e da lui è nata la mia passione per il ciclismo. Ho avuto la sfortuna di essere molto portato, perché l’effetto è come quello del ludopatico che vince le prime scommesse: vincevo sempre le corse e si era montata attorno a me l’aspettativa di avere un nuovo Moser. Quando ho capito che non potevo essere un campione è stato un po’ come lasciare una fidanzata che ami, però lei non ti ama. Una storia triste ma a lieto fine».
La sua carriera ciclistica è finita nel 2014. Come ripensa a quella decisione?
«Mi ricordo il giorno in cui ho detto a papà e alla mia famiglia che volevo smettere di correre: l’ho fatto a pranzo, durante la vendemmia del 2014. Avevo iniziato l’anno vincendo le prime tre gare di fila, sembrava l’anno della mia consacrazione e invece ho avuto una caduta: uno scooter mi ha preso in pieno a un incrocio. Lì è venuta fuori la mia debolezza di spirito e ho scoperto che il talento e la testa hanno la stessa importanza per diventare dei campioni. Del talento, su 50, avevo magari 35; però di testa avevo 10. In quel pranzo ho detto: penso che la mia carriera ciclistica finisca qua. Lui aveva già capito tutto. So di averlo ferito».
Ci sono stati momenti nei quali gli ha letto nello sguardo l’orgoglio di essere suo padre?
«Sono sempre stato quello di famiglia che ha combinato più guai, però anche quello che in qualche modo lo ha reso orgoglioso. Caratterialmente ho sempre rifiutato l’autorità di mio papà; questo gli ha sempre dato molto fastidio e allo stesso tempo lo ha reso orgoglioso. Ma un momento che ha segnato le nostre vite è stato il mio matrimonio. L’ho visto piangere per me: una cosa molto rara. Non c’è stato un abbraccio, ma una stretta di mano delle sue».
Si sono rincorse le voci di un possibile piccolo Moser in arrivo...
«La mia paternità dovrà ancora aspettare. È cosa pubblica che Cecilia e io ci stiamo provando da anni, è qualcosa che desideriamo tanto. Purtroppo stiamo facendo fatica a raggiungere il risultato: è un tema per noi molto delicato. Ma è nostra intenzione generare il primo erede della dinastia Moser, perché mia sorella ha tre figli ma i miei nipoti hanno il cognome di mio cognato».
Che nonno è Francesco Moser?
«Irriconoscibile. I miei nipoti, Anna, Pietro e Chiara, il fulcro della nostra famiglia, sono una cura per il cuore burbero di mio papà. Con loro si sforza di essere affettuoso, non gli riesce sempre in maniera spontanea e fa tenerezza. Mio padre non ha mai ricevuto affetto perché mio nonno era nato nel 1898, ha vissuto a cavallo di due guerre mondiali e ha avuto 12 figli. Mia moglie Cecilia mi aiuta molto nel rapporto con lui perché è più diretta di me. All’alba dei 33 anni, ho capito che mio padre prova affetto, ma fa fatica a mostrare le emozioni».
Da bambino, com’era essere figlio di Francesco Moser?
«Sono cresciuto a Palù, e ringrazierò per sempre della vita che ho avuto qui: la mia infanzia è stata protetta da un paese di 550 anime. Non ho mai percepito la grandezza della fama di mio padre fino alle medie, a Trento. Prima era famoso come poteva esserlo l’idraulico del paese».
La infastidiva essere «il figlio di Moser»?
«Ho sempre visto il bicchiere mezzo pieno, ho un po’ approfittato della situazione. Sono entrato al “Grande Fratello Vip”perché sono figlio di mio papà, non giriamoci intorno: la mia carriera era stata mediocre. Ma nella vita le cose o le subisci o ne approfitti. Oggi è lui ad essere mio papà e quando gli chiedono le foto, magari le ragazze giovani, per me è una soddisfazione impagabile».
Quali aspetti di suo padre apprezza meno?
«Il caratteraccio. Ho cercato di essere un po’ più sensibile e più empatico di lui. Però “volevo essere un duro” come mio papà, perché è sempre stato tosto nella vita. In tutto quello che ha fatto, è sempre stato un duro e questo glielo invidio».
La cosa più preziosa che le ha insegnato?
«A essere sempre la versione migliore di me stesso. Da piccolo avevo tutte le videocassette Disney, ma anche “L’uomo del sogno”: un video-riassunto della sua carriera. Lui mi ha insegnato a non mollare mai e ho sempre voluto essere come mio papà. Anche oggi».