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 2025  marzo 19 Mercoledì calendario

Disegni, autopsie, proiettili: su cosa si basa il nuovo processo alle Brigate rosse. «Oggi sono un’associazione di pensionati con le stesse idee di allora»

Scrive Guido Salvini rendendo una preziosa testimonianza nel libro appena uscito «Hazet 36» dell’esperto Pino Casamassima ed edito da Solferino: «Le Brigate Rosse sono scomparse come organizzazione armata ma esistono ancora come, viene da dire, associazione di pensionati che mantengono stretti rapporti tra loro e hanno le stesse idee di un tempo». Salvini, già giudice istruttore e gip, coordinatore di plurime inchieste nell’eversione di destra come di sinistra, è avvocato di parte civile nel processo in Corte d’Assise di Alessandria sul cold case della cascina Spiotta: la sparatoria del 5 giugno 1975 tra un commando delle Br e i carabinieri causò l’uccisione della brigatista Mara Cagol e dell’appuntato Giovanni D’Alfonso.
Con quel virgolettato il giudice Salvini intende riferirsi agli elementi dell’inchiesta condotta dai carabinieri del Ros di Torino con l’obiettivo d’accertare l’assassino di D’Alfonso, che era padre di tre figli: «Come emerge dalle intercettazioni man mano che la Procura di Torino convoca gli indagati e i testimoni, i vecchi militanti si incontrano a gruppetti e concordano la linea da seguire. Ogni riunione è volta a prevenire qualsiasi cedimento o passo falso di qualcuno dei convocati e a mettere a punto le versioni false da fornire (…)».
Gli identikit
Di passi falsi ne ha compiuti Lauro Azzolini, 81 anni, fra i dirigenti delle Brigate Rosse, originario degli Appennini di Reggio Emilia, ex ergastolano poi in semilibertà in una cooperativa, legata all’associazione imprenditorial-cattolica Compagnia delle opere, che aiuta i disabili. Martedì 11 marzo 2025, a sorpresa, nella seconda udienza del processo, Azzolini ha parlato e reso ammissioni spontanee collocandosi su quella scena del crimine insieme a Cagol. Loro due e nessun altro, quando al contrario più d’un inquirente ipotizza che i brigatisti presenti alla cascina Spiotta, in località Arzello, frazione del paese di Melazzo, nelle ampie campagne alessandrine, fossero di più, forse almeno dieci.
Del resto come già resocontato dal Corriere nel corso di queste settimane i carabinieri hanno raccolto le testimonianze di abitanti e lavoratori connessi in quel periodo del 1975 con la cascina Spiotta. Qualcuno ha riconosciuto il medesimo Azzolini, difeso dall’avvocato Davide Steccanella, protagonista di un’accesa invettiva a inizio processo e che non muta idea sullo scenario complessivo: «Delle 6 persone presenti alla Spiotta, l’unica che a distanza di mezzo secolo è ancora fra noi, e che può riferire qualcosa, è l’ottantenne Azzolini. Eppure l’accusa ha citato più di cento testimoni. L’ennesimo paradosso di questo processo».
Dopodiché altri testimoni, sempre negli immediati dintorni della cascina,  hanno riconosciuto Renato Curcio (83 anni, da Monterotondo, in provincia di Roma, terra di pagine storiche della Resistenza), uno dei fondatori delle Br e all’epoca marito di Cagol; altri ancora Pietro Bassi detto «il biondo», lodigiano di Casalpusterlengo, scomparso a 71 anni per un malore nella sua abitazione della periferia milanese del Giambellino e comunque nel 1975 già in carcere in quanto arrestato l’anno prima, sicché semmai potrebbe esser stato uno dei tanti che hanno gravitato sulla cascina.
Ecco, la cascina: una struttura non improvvisata bensì da tempo inserita nel circuito dei luoghi sicuri – o presunti tali – dei terroristi. Vi erano custoditi armi, munizioni, mappe, elenchi, documenti vari, radio per intercettare le comunicazioni delle pattuglie di poliziotti e carabinieri; e fu alla Spiotta, che dal punto di vista geografica garantiva una posizione isolata e (nei piani) di feconda visuale sulla valle consentendo di individuare estranei in avvicinamento, che il commando delle Br trasferì e nascose l’imprenditore del vino Vittorio Vallarino Gancia rapito il giorno prima, il 4 giugno 1975.
I disegni, le impronte
Avevamo prima parlato dei passi falsi di Azzolini: per decenni restò misterioso il terrorista, che c’era sulla scena del crimine e vergò sia un testo di sintesi dei fatti accaduti sia dei disegni che ugualmente contribuivano a capire cose potesse esser successo. Disegni che sembrano quelli dei bambini e che hanno la firma di Azzolini: a smascherarlo, il faticoso ma fruttuoso lavoro dei carabinieri del Ris che hanno isolato un totale di 11 impronte. Appunto riconducibili ad Azzolini. Che comunque s’era già tradito, di recente, nell’ambito delle indagini del Ros di Torino, come ci ricorda di nuovo Salvini: «Quando, durante un incontro, un interlocutore più giovane, non militante delle Brigate Rosse, preso da curiosità gli chiede se fosse presente alla cascina Spiotta, Azzolini abbassa per qualche momento la guardia. Gli racconta che certo, lui c’era, che aveva sparato, mimando anche con la voce il susseguirsi dei colpi, ed era riuscito a sganciarsi e a fuggire lasciando Mara, secondo lui colpita dai carabinieri quando ormai si era arresa».
I tre proiettili
L’onesta cronistoria obbliga ovviamente ad analizzare nei dettagli anche l’omicidio di Cagol, che era originaria di Trento, figlia di una famiglia borghese, e aveva 30 anni.
Lo facciamo servendoci dell’autopsia.
Ebbene, come scritto dal medico legale al termine dell’esame, «la donna fu colpita da tre pallottole da arma da fuoco. Di queste tre pallottole il colpo mortale è risultato quello che è entrato alla regione mediale del cavo ascellare sinistro (…) La ferita ha leso organi interni del torace essenziali per la vita ed ha prodotto l’immediata morte del soggetto (…) È stata inoltre rilevata ferita da arma da fuoco all’avambraccio (…) Infine si è rilevata una contusione rotondeggiante sulla linea scapolare».
Questi due ultimi colpi raggiunsero Cagol mentre cercava di fuggire all’interno di una macchina, una 128, ed era seduta. La restante ferita, quella mortale all’avambraccio, è da collocare a quand’era uscita dalla vettura e aveva le mani alzate.
Al proposito, nel suo intervento in aula in Corte d’Assise, così ha detto Azzolini: «Ci eravamo arresi. Mara, che era ferita, mi disse di tentare ancora la fuga e, al suo cenno, ne tirai una. Raggiunsi il bosco e mi accorsi che lei non era più con me…».
D’accordo: ma chi uccise l’appuntato D’Alfonso?
Salvini: «Ci sono molti dettagli sulla morte della Cagol ma su ciò che è successo prima, su chi ha sparato a D’Alfonso, si sorvola».
Sul tema dell’assassinio il medico legale incaricato dell’autopsia sul cadavere dell’appuntato ebbe a scrivere: «Dev’essere osservato come, trattandosi, così sembrerebbe, di due colpi esplosi da una pistola automatica (le munizioni 7,65 trovano impiego in una sola pistola mitragliatrice di fabbricazione cecoslovacca) che hanno attinto il D’Alfonso dalla stessa direzione e con notevole precisione di bersaglio essi o siano stati esplosi da un tiratore eccezionale o da distanza ravvicinata».