Corriere della Sera, 19 marzo 2025
Intervista a Paolo Ruffini
Ha come icona del suo profilo WhatsApp Topo Gigio.
«Considero la sua ideatrice, Maria Perego, un genio avanguardista, al pari di Fellini. Parteciperò al musical su Topo Gigio e poi, da piccolo, mi dicevano che mi assomigliasse. Sarà per lo sguardo... o per il sex appeal...».
Paolo Ruffini si diverte da sempre ad andare dove non ti aspetti. Attore, conduttore, regista, sceneggiatore, produttore teatrale, comico, scrittore. Quando pensi di vederlo su una strada è il momento in cui sceglie quella opposta.
Perché?
«Sono il terzo di tre figli e mi ritengo molto fortunato: osservando i miei fratelli ho potuto prendere le misure. Ero vivace, quello intelligente ma che non si applica, per usare i termini di certa orrenda pedagogia. Mi avevano mandato dalle suore per mettermi in riga ma quella riga lì è diventata il riferimento della mia vita: devo andarci sempre sopra».
Viva la libertà?
«Diciamo che ho fatto il liceo classico molto a modo mio. Avevo una predisposizione per l’organizzazione delle occupazioni scolastiche: ero il producer delle autogestioni ma anche delle feste. Vedevo la scuola come un villaggio turistico (dove poi, fatalità, qualche anno dopo, è andato a lavorare, ndr.). Al liceo classico di Livorno mi hanno dedicato un bagno, quello dove passavo intere mattinate: non mi sono mai fatto nemmeno una canna ma ci cucinavo, con un fornelletto».
Era solo indisciplinato o nascondeva altro?
«La mia era una forma estrema di anticonformismo. Facevo anche tanti scherzi, ma non ero cattivo. Il mio talento era, e rimane, solo quello di saper dialogare con tutti, senza fare distinzioni. Alle elementari il mio migliore amico era sordomuto. La mia ricerca nel sociale credo sia partita dalla sensazione di sentirmi sempre in posti non miei eppure mai fuoriposto. Ora, nei miei progetti di lavoro, parlo con i bambini (nel video podcast Il Babysitter, ndr.), che per me sono solo persone basse. O con gli anziani, che sono persone molto cresciute. Mi interesso a loro senza pregiudizi».
Come è arrivato il cinema nella sua vita?
«I miei amici avevano la passione per il calcio, per la musica, io per il cinema. È stato la mia salvezza. Decisi di studiare regia e per anni vedevo quattro film al giorno. Mi drogavo di cinema».
Tra i suoi film come attore ci sono molti cinepanettoni. Da cinefilo come la vive?
«Se domani venisse Aurelio de Laurentiis e me ne proponesse un altro lo farei subito. A me manca tantissimo la volgarità, l’adoravo. Volgarità intesa come la parola del volgo, che non è la parolaccia. Boldi è l’attore italiano che ha recitato più volte nudo, ma è talmente puro che anche i bambini lo vedevano come gatto Silvestro. Tutto questo mi manca da morire, come Fantozzi che dice che sua moglie è orrenda e la figlia una scimmia. O la Wertmüller che ci mostrava una Melato menata continuamente... ma quella era la lotta di classe. Oggi, se io facessi un film su un serial killer che ammazza le persone con i bermuda, dovrei giustificarmi e dire che non ce l’ho con chi indossa i bermuda».
È in libreria con «Benito, presente!», in cui scrive di un Mussolini bambino.
«Il termine “presente” è un tempo, un verbo e anche un’affermazione. La presenza dovrebbe essere lo spauracchio di un periodo storico ma non sono tra quelli che dicono c’è il pericolo di un ritorno del fascismo. Allo stesso tempo mi fa orrore che delle menti giovani parlino ancora oggi dei presunti aspetti positivi di quegli anni».
Non la spaventa Trump?
«Mi fa più paura Musk, uno stra-miliardario che elude anche la politica. Lo trovo molto più pericoloso perché col denaro puoi comprare chiunque. Mussolini ai tempi di TikTok avrebbe vinto ancora di più, per questo per me il contrario di guerra non è pace ma cultura».
Quindi Mussolini, bambino, poteva essere redento?
«Sono partito dall’idea alla base della psichiatria pediatrica, secondo cui se non riceviamo un abbraccio o una carezza in tenera età o muoriamo o impazziamo. Hanno inventato l’intelligenza artificiale ma non inventeranno mai la sensibilità artificiale. E quindi, potendo tornare indietro nel tempo, di fronte a un Mussolini di 7 anni, cosa bisognerebbe fare? Lo ammazziamo o lo educhiamo?».
Non si rischia di empatizzare con il dittatore?
«C’è un momento in cui si empatizza con lui, ma la cosa interessante è capire se poi ti senti in colpa per questo. Il tema non è la politica ma l’educazione. Essere antifascisti vuole dire non essere come loro. Io sono un liberale vero e un garantista totale. Ho lavorato anche con tanti ex detenuti, che hanno pagato quello che dovevano pagare, trovandosi però spesso di fronte a un accanimento crudele e ingiustificato».
Lavora spesso anche con i bambini. Eppure non ha figli. Come mai?
«Non li ho, ma li ho noleggiati. Lavorando con loro ho fatto esperienza sul campo. Amo i bambini perché hanno fede: credono in Babbo Natale, in Dio, negli unicorni. Noi adulti anche se vediamo che qualcuno spara a Trump pensiamo: eh, bisogna capire se è vero... Non non crediamo più alla realtà, i bambini credono anche nella fantasia».
Non desidera diventare padre quindi?
«Un po’ dico che per il momento è andata così, poi un uomo ha orologi biologici diversi. Avere un figlio non deve essere un dovere, se no è come aderire alla famosa riga».
Lei è stato anche sposato per anni, ma lo ha reso noto dopo che vi siete separati.
«Non so neanche come sia uscita, ma è una cosa molto naturale. Continuiamo a lavorare assieme, siamo in ottimi rapporti e so che sembra anomalo ma penso sia più normale continuare a voler bene a qualcuno a cui hai tenuto anche quando si vorrebbe che, finito un rapporto, tu lo debba odiare».
A teatro le date del suo spettacolo di «Din don Down» sono andate sold out.
«Sono felice, sono storie di persone bellissime, pure, che non inizierebbero mai una guerra. Hanno un innato spirito pacifista e nemmeno loro aderiscono ai codici».
Sente di essere stato riconosciuto nel suo lavoro?
«Mi ferisce quando qualche critico non giudica realmente il mio operato. Una volta scrissero di un mio film che era “per deficienti”. Ecco, andrebbe lasciato stare il pubblico, anche perché conosco una marea di intellettuali che vedono cose basse. Poi per tirarcela stiamo tutti a dire che al cinema non vediamo altro se non un tizio che va a pulire bagni pubblici in Giappone. Come l’indie nella musica, che è diventato pop, oggi il cinema d’essai è diventato pop. E film come Il Ciclone sono film d’autore. Il problema sono tutti quelli che si sentono chissà chi».
Chi è stato un esempio per lei tra le persone famose con cui ha lavorato?
«De Sica, che sapeva anche le mie battute sul set: mi ha insegnato quanto bisogna essere seri per fare gli scemi. E Gigi Proietti, con cui ho lavorato in Estate ai Caraibi: gli ho visto mettere la stessa attenzione e cura che riservava a progetti più blasonati».
Se dovesse definire lei la sua professione, cosa direbbe?
«Sono qualcuno che aiuta le persone a non pensare ai loro problemi per un paio d’ore. Non riesco proprio a trovare un’etichetta, sarà sempre per via di quella mia allergia alla forma. Di certo, se mi danno del giullare, per me è un complimento».