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 2025  marzo 19 Mercoledì calendario

Intervista a Dan Peterson

Dan Peterson e l’Olimpia Milano hanno la stessa età. «Nati entrambi il 9 gennaio 1936. Era destino che ci incontrassimo». Dal 1978 al 1987 sono stati una cosa sola: «Ho sempre considerato Milano la New York d’Europa. E l’ho scelta come casa. È la mia città ormai, più di Evanston, Illinois, dove non torno dal 2018».
Coach Peterson, il suo ultimo libro,La mia Olimpia, scritto con Umberto Zapelloni, è una raccolta di personaggi e storie strepitosi.
Quella a cui più legato?«Non ho dubbi: la rimonta sull’Aris Salonicco nei quarti di Coppa dei Campioni 1986-87. Venivamo dal -31 in Grecia. Quella sera sentimmo una spinta incredibile del Forum.
Vincemmo 83-49. E alla fine avremmo sollevato la Coppa. 
Bob McAdoo mi racconta che quella è stata la serata più incredibile della sua carriera. E lui ha lasciato strati di pelle sul campo da basket».
Il suo quintetto ideale?«D’Antoni, McAdoo, Premier, Meneghin. Per il quinto scelgo Gianelli. Ma avrei potuto dire anche Carroll, Carr, Pittis. Chi toglierebbe la palla a D’Antoni oggi? Chi marcherebbe Meneghin? Quanti punti segnerebbe McAdoo? Se solo esistesse la macchina del tempo...».
Qual era il segreto di Milano?
«Uno staff formidabile e un presidente come Gianmario Gabetti, che ebbe il coraggio di prendere l’Olimpia e di non mollarla dopo il crollo a causa della neve del Palazzetto di San Siro, nel 1985. Non ci siamo mai sentiti soli.
Mi sono sempre ritenuto in debito con lui alla milionesima potenza».
È vero che Berlusconi nel 1987 la voleva al Milan?
«Berlusconi voleva per il Milan qualcosa di rivoluzionario, una persona fuori dal calcio, un motivatore. Chiese informazioni a Bruno Bogarelli, che era anche mio manager. E lui gli disse: “Peterson potrebbe dirigere anche un night”. Per dire che avrei potuto fare qualunque cosa. Dissi: “Finita la mia stagione, a bocce ferme, si può fare tutto”. Poi presero Arrigo Sacchi».
Ci rimase male?
«A Galliani ancora oggi dico, scherzando, “avete sbagliato tutto”. E a Sacchi, che non è famoso per il suo senso dell’umorismo: “Arrigo, che fortuna che hai avuto”. E lui: “Non smetterò mai di ringraziarti”».
Un coach di basket che allena calciatori: è realistico?
«Mi sarei circondato di persone con grande esperienza di campo nel calcio. Avrei costruito un gruppo dilavoro, per le questioni tecniche mi sarei affidato a persone competenti. Un coach group, con me alla testa come motivatore. È possibile, sì».
Ha smesso a 51 anni: rimpianti?
«Grande errore. Avevo vinto tre scudetti di fila. Avevo tv e pubblicità, non avrei voluto sentire da nessuno: “Peterson perde perché ha mille altre cose oltre al basket”.
Tornassi indietro non lo rifarei».
Tornò in panchina per Armani nel 2011, a 75 anni. Un record.
«Una parentesi bellissima per la quale ringrazierò sempre Giorgio. Fu come ritrovare la strada di casa. Ne parlo anche nel libro, nato dalla stessa esigenza di Orwell: si scrive per essere storici di sé stessi».
È mai stato vicino alla Nazionale?
«Sempre nel 1987. Ero negli Usa. In maniera goffa, fui chiamato da Ceccotti, vicepresidente federale: “Possiamo darti solo 150 milioni”.
“Accetto” gli risposi. “Ma devi lasciare tutto il resto”. Gli dissi: “Mi hai chiamato per farmi dire no”. E gli consigliai di riprendere Sandro Gamba. La scelta migliore».
L’Nba ha annunciato di voler investire nel basket europeo. È un progetto fattibile?
«Se fatto bene, è potenzialmente rivoluzionario».
E il basket italiano come si risolleva?
«Con almeno due italiani fissi in campo. E un esempio per tutti deve essere Armani, l’italiano più conosciuto al mondo che investe tanto nel basket e al Forum non manca mai nelle occasioni importanti. Deve essere lui la prua della nave del movimento italiano».
Che idea ha dell’America oggi?
«Trump ha avuto la fortuna di stare fuori 4 anni per studiare gli errori del primo mandato. Ma avrà grossi problemi. Deve essere un buon ascoltatore. Lasciamolo lavorare, lo valuteremo come un coach, a fine mandato».
Ma non era democratico lei?
«La mia famiglia era democratica, io non sono mai stato iscritto a nessun partito. Il presidente che ho amato di più è stato Truman: piccolo grande uomo con grandi principi e un grande coraggio. Ha creato il Piano Marshall e l’Onu.
Roosevelt, a sua volta, aveva delle capacità politiche immense. Era stato colpito dalla poliomelite: ma in Senato nel 1941, alzandosi in piedi con dolore fece un discorso memorabile. Iniziava con Yesterday,lo ricordo a memoria».
Come visse l’assassinio di Kennedy?
«Ero a casa, guardai negli occhi mio padre, era tenente di polizia. Mi disse “vedrai che dietro questo omicidio c’è la mano di Lyndon Johnson”. Era l’unico a poterne trarre vantaggio».