La Stampa, 19 marzo 2025
"No allarmi, il mercato dei libri sta bene e starebbe meglio con meno novità" Giovanni Francesio
È uno di quei molti momenti dell’anno in cui si parla di crisi dell’editoria. Se ne parla perché i dati di vendita dei primi mesi del 2025 sono in calo e, anche se più timidamente, praticamente inter nos, se ne parla perché lunedì hanno scioperato i dipendenti delle librerie Feltrinelli, circa 1200 lavoratori, perché l’azienda ha rifiutato di aumentare i buoni pasto degli addetti alla vendita di 1,50 euro e perché i neoassunti hanno condizioni contrattuali sempre più sfavorevoli.
Quanto e come l’editoria libraria sia realmente in crisi è difficile da stabilire: se ne parla da sempre, spesso in modo generico e ripetuto, abitudinario, come se la crisi fosse costitutiva, genetica. E dipende tanto anche dai libri, che sono «Prodotti speciali, manufatti imparagonabili. A volte penso che siano dotati di una loro volontà, ed è per questo che mi dispiace quando, invece, vengono trattati come fossero mozzarelle», dice alla Stampa Giovanni Francesio, direttore editoriale di Neri Pozza da quasi due anni, dopo essere stato a lungo responsabile della letteratura italiana in Mondadori, e prima ancora direttore di Frassinelli, Sperling&Kupfer, Piemme. Sembra Richard Gere in Pretty Woman: come lui, è l’uomo del rilancio, gli piace stare dove c’è da aggiustare.
Francesio, ci sono editori nel panico.
«Non è una novità».
Esagerano?
«Prendiamo i numeri. Nel 2019, il mercato del libro ha fatto un miliardo e trenta milioni di euro di fatturato. La flessione rispetto ad allora è poca. Durante il covid c’è stata un’esplosione che nessuno si aspettava, ma era difficile che si stabilizzasse, e infatti non è successo, ma quanto è stato guadagnato da quella esplosione non è andato perduto. Ora non brilliamo, senza dubbio, ma la crisi è un’altra cosa».
L’iperproduzione non è una risposta alla crisi? 85mila libri pubblicati solo nel 2024.
«L’iperproduzione è un errore di metodo. In Italia la maggior parte degli editori, soprattutto i più grandi, rincorrono le novità anziché valorizzare il catalogo. Questo accorcia la vita dei libri ed è un controsenso, perché i libri non invecchiano, sono eterni. Da quando sono a Neri Pozza non faccio acquisizioni: lavoro sui libri che abbiamo già pubblicato».
E le frutta?
«Le faccio un esempio pratico. Ogni anno, Shantaram di Gregory David Robert, un romanzo di vent’anni fa, vende almeno ventimila copie, senza che facciamo, grazie solo al passaparola e alla sua forza. Si immagina cosa accadrebbe se lo pubblicizzassimo? Si immagina se, anziché puntare tutto sulle novità alla ricerca di un best seller, gli editori che hanno cataloghi magnifici come Adelphi, Einaudi, Mondadori, gli si dedicassero di più?».
Immagino che darebbe problemi occupazionali.
«Giusto. Quello che non si dice mai quando si incrimina l’iperproduzione è che fare meno libri significa dare meno lavoro ad autori, traduttori, editor, uffici stampa, eccetera. Ma cambiare si può e si deve. Si iperproduce anche perché è comodo, anche per pigrizia».
I piccoli editori riducono ma soffrono, alcuni chiudono.
«In un sistema economico capitalista, purtroppo, i piccoli soffrono sempre. Però, in editoria i piccoli riescono a fare cose che in altri settori non riuscirebbero: penso a Elliott che vince lo Strega o a Laurana che fa un caso editoriale con Ferrovie del Messico».
Basta vendere bene un libro per tenere in piedi una casa editrice?
«Certo che no, ma vincere lo Strega per un piccolo editore, visto cosa comporta in termini di vendita, può fare la differenza. Questo non vuol dire che fare l’editore significhi fare best seller: la stagione dei mega seller, tra il 2005 e il 2010, quando uscirono decine di libri che andarono benissimo, non possiamo replicarla. La caccia al best seller era ed è di corto respiro, causa molte rese».
Cioè?
«Per mandare un libro in classifica, ne stampi almeno 15 mila copie. Se però il libro, per motivi imprevedibili, non vende, avrai migliaia di copie che restano invendute. In Italia c’è il 30 per cento di resi: è un numero enorme».
Mi dica qualcosa di quei “motivi imprevedibili”.
«Le dico che vendere libri è complicatissimo ed è esposto alla casualità molto più di quello che si pensa».
La sua regola è nota.
«Non ne ho nessuna».
Sì, invece. È noto il suo "per vendere libri ci vuole culo”.
«Appunto. Per questo sconsiglio sempre di fare questo lavoro terribilmente incerto e certamente mal pagato».
Non si può intervenire neanche su questo?
«Dai libri si guadagna poco perché non c’è pubblicità e perché, soprattutto in Italia, i prezzi di copertina sono bassi, specie se pensa che a un libro lavorano decine di persone. Ma provi a dire che il prezzo va aumentato, non è competitivo: si scatena l’inferno».