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 2025  marzo 19 Mercoledì calendario

Intervista a Lina Sotis

Del salotto (e delle sue regole) è da decenni il riferimento. Per questo, varcare la soglia di quello di Lina Sotis, a Brera, fa un certo effetto. «Sono una borghesona, di quelle un po’ solide», si schermisce mentre siede su uno dei divani. Alle sue spalle, centinaia di libri riempiono una parete. Tutti Adelphi, dalle tinte pastello. «Me li regalò negli anni Roberto», spiega. «Roberto», ovviamente, è Calasso, che di Adelphi è stato per decenni il nume, oltre che uno degli uomini della sua vita. La donna per lei più importante, invece, Sotis non l’ha mai conosciuta. «Sono nata a Roma da una mamma morta», racconta. «Durante il parto perse troppo sangue. Era il tempo della guerra, e una cosa che oggi si sarebbe curata facilmente divenne incurabile».
Poco dopo, suo padre Gino, un noto avvocato, si risposò con Maria Bassino, la prima penalista d’Italia.
«Lesbica dichiarata: fu lei che mi insegnò a vivere modernamente. Papà, che nel Ventennio aveva fatto ottenere dalla Sacra Rota l’annullamento del matrimonio per Claretta Petacci, l’amante di Mussolini, intanto aveva ricominciato a lavorare con tutt’altro genere di clienti».
Ad esempio?
«Registi come Vittorio De Sica, artisti come Renato Guttuso. Signori che stavano sempre da lui perché volevano che diventasse l’avvocato annullatore dei loro matrimoni».
Presto rimase orfana anche di suo padre. Intanto, era già finita in collegio.
«Mi insegnavano a camminare dritta, a fare le riverenze, insomma a diventare una brava ragazza stupida».

Ci andava anche d’estate?
«Dalle Orsoline, a Cortina. Una volta alla settimana, sotto lo sguardo delle suore, arrivavano i ragazzi. Noi signorine eravamo fondamentalmente snob, un po’ educatine, qualcuna pure carina. Per questo i giovinotti venivano a trovarci volentieri».
Conobbe così il suo primo marito, Gian Marco Moratti. Le piacque subito?
«Mi piacque da morire che piacevo tanto a lui. Quando tornavo a Roma, mi chiamava al telefono tutte le sere. Persi la testa».
E rimase incinta a 18 anni.
«Su una macchina, una Lancia Flavia, in viale Pinturicchio, a Roma».
Si ricorda addirittura il luogo esatto?
«Certo: non era una cosa che si faceva con facilità, allora».
Vi sposaste a Milano.
«Indossavo un vestito di Forquet. L’unica frase che pronunciò mia zia, Lidia Storoni Mazzolani, quando mi vide fu: “Insopportabili quei brillanti di mattina, anche se veri”. Me li aveva regalati mia suocera».
Come venne accolta in casa Moratti?
«Benissimo. Erano freschi freschi di danaro. Mia suocera, che ho sempre chiamato mamma, quando vide questa stronzetta che camminava dritta e baciava le mani, disse: “Sembri una delle mie amiche contesse”. Furono tutti meravigliosi».
Anche suo cognato Massimo?
«Era due anni più piccolo di me, imitava benissimo Celentano. Ancora oggi, a Pasqua, mi manda l’uovo. Ci vogliamo bene, la mia famiglia è rimasta quella».
Ma è vero che le chiesero di vestirsi solo di nerazzurro?
«Erano i tempi della “Grande Inter”, e poi per fortuna l’azzurro mi stava bene. Quando battezzammo mio figlio Angelo, come secondo nome volevo mettergli “Pinturicchio”, in ricordo della via dove fu concepito, invece gli misero “dello scudetto"».
Dello scudetto?
«Sa, Angelo nacque poco dopo la vittoria del campionato: eravamo tutti un po’ invasati».
Il matrimonio con Moratti finì per un suo tradimento: con un milanista, peraltro.
«Feci una scemenza, ma lei non sa quanto fosse noiosa la vita della miliardaria: ci si poteva comprare solo vestiti.
E io non sapevo che Gian Marco mi faceva fotografare quando uscivo».
Era da poco nata Francesca, la vostra secondogenita.
«Un giorno mio marito mi chiamò e mi disse: “Andiamo a Roma, porta tutti i gioielli perché avremo molti incontri”. Arrivati, mi fece trovare due avvocati. Mi mostrarono le foto e mi vietarono di tornare a Milano».
E lei?
«Oltre ai gioielli, resi a Gian Marco l’anello di fidanzamento dicendogli: “Non mi vuoi bene. Altrimenti, avresti avuto il coraggio di chiedermi “Lina, perché mi fai le corna?”, non mi avresti fatto scattare le foto».
Quanto tempo rimase lontano da Milano?
«Tre anni, per le adultere la legge così prevedeva. Poi tornai, ma come Lina Sotis: mai sopportato quelle che continuano a portare il nome dell’ex».
Chi la aiutò?
«Più di tutti Gioia Falck. Appena seppe che quando ero autorizzata a tornare a Milano dormivo in albergo, disse: “Lina dorme qui, vedrà i suoi figli a casa Falck"».
Nessun aiuto dal suo ex marito?
«Quando, a 34 anni, scoprii di avere un tumore al cervello, furono lui e mio suocero, che io continuavo a chiamare papà, a organizzare tutto per farmi operare da un luminare. Mi fecero venire a prendere con il loro aereo. Mi salvai, Gian Marco venne a trovarmi coi bambini. Fu meraviglioso».
Tornata a Milano, intanto, aveva già iniziato a lavorare nei giornali.
«Per Vogue, ma nella pubblicità. I più bravi a vendere eravamo io e Urbano Cairo, allora in Fininvest. Fino a quando andai ad Amica, grazie alla sua proprietaria, Giulia Maria Crespi».
Il suo salotto è stato uno dei più ambiti del dopoguerra.
«Sì, e peraltro era anche il più vario, ci trovavi la nobiltà milanese e il ’68».
Un salotto divertente invece?
«Uno più recente: dell’imprenditore e finanziere Francesco Micheli. Si poteva incontrare di tutto, da Roberto D’Agostino al nuovo ricco. Una buona regola è mischiare, sempre».
Non ha citato un altro salotto: quello dell’architetta Gae Aulenti.
«Beh, lì entravano solo geni ormai quasi consacrati. Gae è stata una mia grande amica, terribilmente sensibile e anche terribilmente dura. Fu lei a farmi comprare questo appartamento, accanto al suo».
Con lei frequentò anche casa Craxi.
«Soprattutto negli anni ’70, quando non era così famoso. Fu proprio Gae ad arredargli l’appartamento. Bettino era simpatico, anche se gli piacevano un po’ troppo le donne: si fece tutte le mie amiche».
Sui salotti e le buone maniere lei ha fatto scuola: sia con Bagatelle, la rubrica del Corriere, sia con un libro, Bon Ton, che negli anni ’80 fu un successo.
«Del tutto inaspettato. Qui però bisogna parlare d’amore».
Prego.
«Tutto ciò fu possibile perché incontrai Roberto Calasso.
Fu lui che mi insegnò l’importanza della brevità nella scrittura. E fu lui che si inventò quei due titoli».
Quando lo conobbe, negli anni ’70, era sposato?
«Sposatissimo. E infatti mi riempì di libri di Sartre, in modo che imparassi che si può condividere un uomo».

Vive a Milano ormai da sessant’anni. Com’è cambiata la città?
«Un tempo essere milanesi significava camminare diritti, essere gentili e seri. Adesso vedi questi uomini che ti vengono addosso perché stanno sempre chini sul telefono».
E il modo di stare in società?
«Oggi?».
Sì.
«Oggi francamente non lo so, perché non esiste più una società»