il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2025
Tra i leoni, la cocaina e Freud
Elegante, persino affettato, baffetti, cravatta e british humour: se non la prova recitata, ognuno di noi ricorda la silhouette, il sorriso, l’allure di David Niven, nato a Londra nel 1910, morto in Svizzera nel 1983, e in mezzo doviziosamente pasciuto a Hollywood. Che gli mise in mano un Oscar, nel ’58, per Tavole separate di David Mann, e in carnet un tot di successi, ineffabili come lui, da Scala al Paradiso (’46) a Il giro del mondo in ottanta giorni (’56), da I cannoni di Navarone (’61) a La pantera rosa (’63).
Nel 1971 diede alla stampa la sua autobiografia, The Moon’s Ballon, un best-seller da cinque milioni di copie che ora viene editato per la prima volta in Italia con titolo fiabesco-tarantiniano: C’era una volta Hollywood. Niven ci è, la star, e ci fa, il reporter, mettendo su carta vizi privati e ondivaghe virtù del Paese di Bengodi che Hollywood fu tra il 1935 e il 1960, allorché “la più grande forma d’intrattenimento di massa fino ad allora inventata” procurava a divi e divine 20.000 lettere di ammiratori alla settimana e fama planetaria. Nel milieu Niven si muove, se non ci sguazza, con l’agio del pari grado e l’acume del cronista, trattando i Bogart e i Cooper, i Chaplin e i Lubitsch per quello che sono, leggende dai piedi d’argilla e/o i talami affollati. Di Cary Grant, che credeva ogni storia d’amore fosse la ragione della sua stessa vita, conserva un “consiglio esaltante: ‘Il trucco – diceva – è rilassarsi. Se riesci a rilassarti veramente puoi fare l’amore per sempre’”. Altro che Sting e il sesso tantrico, la ricetta di Mr. Notorious era “‘restare nel solco’ e riprovare con un’altra donna di aspetto fisico simile alla precedente”. Quando, dopo averla dirozzata a Beverly Hills ed essersene innamorato, Sophia Loren annunciò improvvisamente il matrimonio con il suo produttore Carlo Ponti: “Cary non lasciò che l’erba gli crescesse sotto i piedi” e partì con una carovana di zingari “assieme a un’edizione più giovane e più voluttuosa di Sophia”, una giocatrice di basket jugoslava di nome Juba.
Le idiosincrasie dietro la macchina da presa non sono da meno: John Ford masticava “l’orlo di un sudicio fazzoletto bianco”; il Michael Curtiz di Casablanca “si aggirava in calzoni e stivali da equitazione con in mano uno scacciamosche”; Henry Hathaway negava la sedia agli attori, Van Dyke tracannava gin da bicchieri di carta e “Bill Seiter usava una verga per colpire i sederi più delicati”. No, il #MeToo non l’avevano ancora inventato. Un tipino fino come John Huston s’era trasferito nella San Fernando Valley in una struttura rivoluzionaria tutta vetro e supporti in sequoia, “una bizzarra gabbia divisa con una moglie estremamente bella e una scimmia molto brutta”. Evelyn si divertiva a raccontare l’epilogo di quella fortunosa e forzata convivenza: “John, tesoro, mi dispiace. Una di noi due deve andarsene… o la scimmia o io”. E il regista, dopo una lunga pausa: “Tu, tesoro”.
Il battito animale evoca Il ritorno di Tarzan, per il cui lancio il pioniere degli agenti stampa, Harry Reichenbach, prenota una camera nell’hotel newyorchese antistante il cinema della première, e chiede quindici chili di carne cruda: “Un grosso leone, con un tovagliolo, era seduto al tavolo, il cameriere cacciò un urlo stridente, i titoli dei giornali sbocciarono”. Le giornaliste di gossip oliano il meccanismo promozionale, con ampie licenze creative. L’inarrivabile Louella Parsons resuscita pure i morti, scrivendo che Freud, “uno dei più grandi psicoanalisti viventi”, sarebbe stato impiegato quale consulente per il film di Bette Davis Tramonto: “Questo poneva – sogghigna Niven – un difficile problema logistico perché Sigmund era morto da diversi mesi”.
Parole al vento, malignità sul set: “A Gable piacciono solo le donne più vecchie”. Con i soldi Clark è attento se non taccagno, generosissimo invece col whisky, e dalle riprese a Capri di “quella stupidaggine de La baia di Napoli” con Sophia Loren riporta in America quindici chili presi tra pasta e vino rosso. Se lo stesso Niven predilige il whisky, quel folletto di Errol Flynn preferisce le droghe, dall’erba a “un pizzico di cocaina sulla punta del pene come afrodisiaco”. Chi manca ancora? La bellissima Greta Garbo, ai cui piedi, disperati, si attaccavano gli invidiosi: “‘Sono grandi’, esultavano”. Niven studia da feticista, li dichiara “ben modellati e lunghi in proporzione alla sua altezza”, stigmatizza però “l’abitudine di chiuderli in enormi mocassini marroni che sembravano mezzi da sbarco”. Infine, chiese alla Divina perché avesse rinunciato al cinema: “Avevo fatto abbastanza smorfie”. Sicché Niven addebitò alla svedese solitaria la definizione che Churchill aveva coniato per centosettanta milioni di russi: “Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”.