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 2025  marzo 14 Venerdì calendario

Intervista a Yvonne Sciò

Aveva una testa piena di riccioli biondi attaccata alla cornetta del telefono e ripeteva, con aria sognante: «Mi ami, ma quanto mi ami?». Chiunque sia stato senziente nel decennio a cavallo fra gli anni 80 e 90 ricorda quello spot della Sip e quindi Yvonne Sciò. Quindici anni all’epoca, 55 oggi.
La sua casa di Roma è tappezzata di foto in bianco e nero: c’è lei bambina ritratta da Slim Aarons, il fotografo del jet set americano; c’è lei con i fratelli Taviani nella Masseria delle allodole («facevo una contessa e anche se non mi trovo mai brava, lì fu bravissima»); c’è la ritrattista di Hollywood Roxanne Lowitt, sulla quale Yvonne ha fatto un documentario nel 2015 («mi affascinava che le sue foto parlassero pur non usando parole»). Appese alla parete, anche una lettera affettuosa che le ha scritto la figlia sedicenne e un paio di scarpe, pronte per una presentazione di Womeness, il documentario sul femminismo che Yvonne ha appena diretto e prodotto e che è in onda su SkyArte. Ovunque, ci sono tracce che raccontano dove è stata negli anni in cui molti l’hanno forse persa dal radar.
Yvonne, come è iniziato tutto?
«A cinque anni, posavo per Vogue Bambino, facevo campagne, sfilate. Sono cresciuta così: mamma americana giornalista di moda, io in collegio dalle suore a Roma, che entravo e uscivo per lavorare. Poi, è arrivato lo spot Sip e le suore hanno detto a mamma che mi avrebbero bocciata perché non potevo andare avanti in quel modo. E mia madre: ma è una donna, dev’essere indipendente».
Le piaceva lavorare?
«Non ho mai visto la bella bambina, ero timida, introversa. E, quando facevo la modella, ero sempre la più piccola fra tante stanghe. Per fotografarmi, Helmut Newton mi mise su una pila di elenchi del telefono. Aveva preparato catene, fruste... Io, educata dalle suore, mi chiusi in bagno, in preda al panico».

Ha odiato o amato la ragazzina dello spot a cui tutti facevano il verso?
«Odiata perché? Pensi che volevo fare il remake con mia figlia, ma non mi ha dato retta nessuno.
Vabbè, lei non l’avrebbe fatto. Però è molto protettiva. Fosse per lei, a tutti quelli che sui social mi scrivono “sei resuscitata dopo Non è la Rai”, dovrei rispondere che non ero morta, ma ho fatto 57 film, tre documentari diretti e prodotti da me e venduti in 94 Paesi».
«Non è la Rai» lo fece per soli tre mesi.
«Lei sembra l’unica che lo sa. In realtà, mi sono pentita di aver rifiutato un contratto lungo: avrei guadagnato tanto, ma a quell’età credi negli ideali, i soldi non ti interessano e io avevo paura di chiudermi in una gabbia. Forse è per questo bisogno di libertà che non ho avuto una carriera lineare, ma nella vita non puoi far finta di essere qualcun altro. Dopo, ho fatto una tournée con Mario Monicelli, un film di Nanni Loy con Marcello Mastroianni, ma decisi di trasferirmi a Los Angeles. L’idea che lì nessuno mi conoscesse mi spronava ancora di più ad arrivare. Non mi importava essere popolare, volevo essere brava. Troppe volte mi è stato detto che, se ero bella, non potevo essere brava».
Come sono stati gli anni americani?
«Facevo provini nei quali partivamo in 400 e poi diventavamo 50. Ho fatto teatro a New York con John Buffalo, il figlio di Norman Mailer, e il video di She’s So High di Tal Bachman, un successo enorme, anche se mi hanno dato due spicci. Ho fatto film e serie che qui non ha visto nessuno, magari piccoli ruoli, ma ne vado fiera. La mia mentore è Fran Drescher, che ha scritto, diretto e interpretato la serie La tata, venduta in tutti i Paesi: faceva la parrucchiera nel Queens, mi ha sempre detto: devi fare tu, non aspettarti qualcosa dagli altri. Questa è la lezione che mi ha spinto a dirigere e produrmi da sola i miei documentari. Io alle sei del mattino già rispondo alle mail. L’altro giorno, ho presentato Womeness a Los Angeles con la Ceo dell’associazione per i diritti delle donne di Geena Davis».
«Da grande» vuole fare la regista?
«A me piace raccontare storie con le immagini. Il mio bisnonno era un attore di film muti, fece il primo Titanic, ho l’imprinting della fantasia, del sogno. Dentro una stanza, so istintivamente qual è l’inquadratura, cosa voglio girare. Quando, per Womeness, per l’intervista a Setsuko Klossowski De Rola, la vedova di Balthus, avevamo solo un’ora, io – “motore, azione”— ero istantaneamente pronta. Pure il gatto nero mi ha smosso poco».
Che gatto?
«Dico a Setsuko: entri, ti giri, mi guardi. Lo fa e sento: miao, miao. Un gatto nero. Da superstiziosa, sudo freddo. E Setsuko: “È Balthus che è venuto a trovarci. È lui in un’altra forma”. Si è messa a piangere. Una piccola magia».
Ha scelto cinque donne per parlare di femminile e femminismo. Perché loro?
«Ho cercato donne che hanno rotto le catene negli anni 70 in contesti diversi, cercavo contrasti... Emma Bonino che è stata arrestata per le sue battaglie, la poetessa Bianca Menna che si faceva chiamare con un nome maschile per avere più attenzione, la cantante Sussan Deyhim che viveva l’inizio della repressione in Iran, Dacia Maraini che, da ragazzina, ammiravo da lontano e Setsuko, che non era femminista e che conosco da anni, che ha vissuto all’ombra del marito. Quando lui morì andai a trovarla in Svizzera, le chiesi: non ti senti spaesata senza di lui? E lei: no cara, ora, posso vivere la mia vita, uscire, andare a ballare».
In principio, c’era un fidanzatino a cui lei diceva «mi ami ma quanto mi ami»?
«Stavo con le suore, non potevo uscire né telefonare. Non ci pensavo proprio. Dopo, prendevo buche stratosferiche perché arrossivo, guardavo fisso a terra».

Perché respinse Brad Pitt?
«Perché era Brad Pitt: troppo bello, mi metteva soggezione. La prima volta, a una festa a Los Angeles, lui, dall’altro lato della sala, viene diritto verso di me. Mi guarda e dice: “You look so beautiful”. Io muta, con la mascella aperta. Ogni volta che l’ho visto, mi ha chiesto il numero.
Voleva prendere lezioni di italiano e gli consigliai di chiedere al nostro Istituto di Cultura. Pensi che genio...».
Nel 2005, denunciò Naomi Campbell per averla aggredita. Cos’era successo?
«Non l’ho capito. Forse, quella sera era di cattivo umore. È alta due metri, muscolosa, io sono piccolina, me la sono ritrovata addosso, c’era sangue dappertutto. Eravamo amiche da anni, l’avevo raggiunta a Roma dove stava girando uno spot, ma lì disse che volevo rubarglielo: una follia. Le ho fatto causa soltanto perché volevo che si scusasse, ma non si è scusata».
In Spagna, lei ha avuto copertine, è stata in tanti show tv.
«Ero la protagonista di Torrente, un film di grande successo. Mi proposero di trasferirmi, ma ero incinta, il mio ex marito era geloso, rinunciai».
Quello col produttore Stefano Dammicco è stato un matrimonio lampo.
«Il giorno in cui sono salita in auto con mia figlia di quattro mesi è stato durissimo. Tutti mi dicevano: dove vai da sola?
Invece, ho preso un appartamentino, non ho mai avuto un aiuto, ho cresciuto mia figlia da sola e ho sempre lavorato su progetti per cui lei potesse dire: wow che figa che è mamma! Voglio dimostrarle che nessuno può dirci: non sei capace».