Corriere della Sera, 12 marzo 2025
Marco Amelia: «Dopo il Milan ero disgustato dal calcio, poi mi chiamò Mourinho. Ho guadagnato tanto, i soldi li ho condivisi con famiglia e amici»
Marco Amelia è stato portiere uomo squadra nelle big e simbolo in piazze calde (Livorno su tutte), ha anche segnato un gol iconico in Coppa Uefa e – dopo una carriera all’insegna dei grandi maestri, da Capello a Mourinho, da Lippi ad Allegri – cresce da allenatore: da dicembre è in Lega Pro sulla panchina del Sondrio. «L’obiettivo è la salvezza, non facile dopo il doppio salto che ha portato la squadra in Serie C. E abbiamo tanti giovani da far crescere».
Amelia, com’è lavorare con i giovani?
«Mi piace molto, ai giovani bisogna dare input che poi possono elaborare nel futuro. Per loro c’è una sorta di selezione naturale. E grazie alla spinta dei giovani, i più esperti possono alzare il livello. Il miglior risultato per un allenatore è vedere crescere i talenti, come accaduto a Nicolò Cavuoti, ora di proprietà del Cagliari e in prestito alla Feralpisalò».
Però bisogna anche portare a casa risultati…
«L’equilibrio è proprio la parte più difficile: i ragazzi vanno inseriti nel momento giusto».
Che allenatore è Marco Amelia?
«Un allenatore che non pensa ai moduli, ma ai giocatori che ha a disposizione. E che ama gestire il carattere, oltre alla parte fisico-atletica. Cerco di essere un gestore che trasmette idee: ogni partita è diversa e può cambiare al suo interno. Sono anche molto attento agli aspetti societari, mi ritengo da questo punto di vista molto aziendalista. Cerco di coinvolgere tutte le figure che compongono la società: tutti possono influire sul risultato finale».
Possiamo definirlo un approccio alla Massimiliano Allegri, tecnico con cui ha vinto uno scudetto al Milan nel 2010/11?
«Direi di sì, anche lui ha questa filosofia. E di anno in anno è migliorato, nonostante le difficoltà. Quando ha avuto società forti alle spalle, come Milan e la prima Juve, ha vinto tantissimo, mentre quando è ritornato in bianconero c’era una situazione complicatissima e aveva impegni multipli. Ma è un livornese che sa cosa fare, ci si dimentica troppo facilmente che ha portato la Juve a giocare due finali di Champions League».
E al suo primo anno in una big, in quel Milan e con Amelia in rosa, Allegri ha vinto lo scudetto.
«Era un Milan fatto di grandi campioni, con aria fresca e pensiero libero. Quando la società ha acquistato Ibrahimovic e Robinho, abbiamo capito di poter battere l’Inter post-Triplete: il 3-0 nel derby di ritorno è stato decisivo».
Che compagno era Ibra?
«All’interno dello spogliatoio portava la mentalità per cui non esiste altro se non la vittoria».
Secondo o terzo portiere in grandi squadre, protagonista e amatissimo in contesti come Livorno e Palermo: la sua carriera ha viaggiato su questo doppio binario.
«Sono uscito dalle giovanili della Roma e sono partito dalla serie C: sono arrivato in alto con la gavetta, mi sono conquistato la A sul campo. Palermo e Genoa mi hanno portato al Milan. In ogni contesto ho cercato di fare la mia parte in forma diretta e di avere un impatto anche senza giocare sempre: la mia regola è sempre stata ragionare di gruppo. E mi ritengo fortunato ad aver disputato una decina di partite in Nazionale pur avendo sempre davanti Buffon».
Ha preso parte alla spedizione azzurra ai trionfali Mondiali del 2006 in Germania.
«Per me è stata una grande soddisfazione arrivarci da portiere del Livorno e non di una big. Il Mondiale ti carica in maniera naturale e sono orgoglioso del fatto che Marcello Lippi ha detto che io e Angelo Peruzzi siamo stati tra i più importanti in rosa: ero partecipe in tutto, come Buffon. Ho dato serenità e fiducia a tutti».
Però in passato ha dichiarato che il calcio l’aveva disgustata…
«È vero, avevo bisogno di staccare un po’ quando l’ho lasciato la prima volta: dopo il Milan ho ricevuto proposte che non mi piacevano, ero un po’ saturo e volevo aiutare la squadra del mio paese, Frascati. Ho contribuito a realizzare strutture e a far crescere la Lupa Castelli Romani, con cui ho anche giocato in Lega Pro».
Poi, improvvisamente, la chiamata di José Mourinho per andare al Chelsea, nell’ottobre 2015.
«Ricordo che ero a casa, il mercato era già chiuso ed ero svincolato: stavo per firmare con una squadra di serie B. Ma dopo l’infortunio di Courtois, il Chelsea stava cercando un portiere di riserva: quando ho ricevuto la chiamata di Mourinho, ho capito subito. Avevo 33 anni, è stata un’opportunità enorme. E, lavorandoci insieme, ho compreso la grandezza di Mourinho: cura dei dettagli, gestione totale dell’ambiente, comunicazione interna ed esterna, capacità di portare il giocatore a dare il massimo. Per lui avrei spostato le montagne, pur non avendo mai giocato».
Ma il calcio le ha tolto qualcosa?
«No, mi ha solo dato, pur essendo un mondo difficile che ti toglie energie e che ti costringe a conquistarti ogni traguardo. È un ambiente meritocratico, ma anche molto concorrenziale».
In questo mondo ci possono essere amicizie vere?
«Nel calcio in pochissimi casi si può parlare di amicizia eterna, che per me significa frequentarsi sempre e anche condividere tanti spazi. Piuttosto, esiste la stima che dura nel tempo, figlia di periodi di qualità condivisi all’interno dello spogliatoio».
Da portiere ha vissuto momenti di pressione estrema?
«Sono uno molto freddo e ragionevole davanti alle situazioni critiche: sono sempre riuscito a tranquillizzare e a tranquillizzarmi. Molto merito va alla formazione avuta con Fabio Capello alla Roma: regole, rispetto».
Tra tutti questi grand allenatori con cui ha lavorato, chi è stato il migliore?
«Direi proprio Capello, perché mi ha dato la prima impronta: avevo 16 anni, sono stato tre anni con lui ed è stato un periodo fondamentale per la mia crescita. Mi parlava tantissimo, mi ha insegnato dettagli come la cura del risposo e l’alimentazione: sono cambiato come persona, anche grazie a lui sono diventato adulto. E ho vinto il mio primo scudetto».
E Gasperini?
«L’ho avuto un solo anno al Genoa, ma già allora otteneva grandi risultati e mi era chiaro come vedesse il calcio in modo diverso: era un precursore nella parte fisico/atletica e nel far pressare alto le sue squadre. Trasmetteva un’identità chiara. Mi è dispiaciuto molto come sono andate le cose all’Inter, ora deve essere di esempio per tutti e penso possa vincere lo scudetto».
Gasperini chiama Preziosi, Preziosi chiama altri patron passionali con cui lei ha avuto a che fare: Spinelli, Berlusconi, Zamparini.
«Ho avuto un ottimo rapporto con tutti. L’unico con cui ho avuto una discussione è stato Spinelli per una questione che riguardava la squadra: aveva un modo di fare per cui talvolta bisognava battagliare, ma c’era grande rispetto. In generale, con tutti i miei “capi” non ho mai avuto timore di parlare. Mi spiace solo come si è interrotto il rapporto con il Palermo: Zamparini mi ha ceduto per questioni di bilancio, l’ho saputo dopo. Quel Palermo era una squadra formidabile, con un centro sportivo come quello di Zingonia avrebbe potuto sognare un percorso come quello attuale dell’Atalanta».
Lei ha anche segnato un gol iconico, con il Livorno in Coppa Uefa contro il Partizan Belgrado nel 2006.
«Un gol figlio della pazzia e della voglia di vincere, o meglio: di non perdere. Sapevo quanti sacrifici avesse fatto il Livorno per arrivare fino a lì, siamo partiti dalla serie C. In quella partita stavamo perdendo 1-0, con quel risultato non saremmo passati, mancavano quattro minuti al 90’ ed eravamo momentaneamente in 10: servivano rinforzi su una punizione laterale e mi sono buttato in area. Abbiamo così superato un girone tosto, peccato essere poi usciti con l’Espanyol che si è spinto fino in finale, perdendo ai rigori: potevamo sognare, ma abbiamo giocato in casa senza pubblico dopo l’omicidio Raciti. Le partite in casa a Livorno con i tifosi erano qualcosa di speciale: c’era voglia di andare a mille».
Si è arricchito con il calcio?
«Ho sicuramente guadagnato tanto, ma non ho mai dato particolare importanza ai soldi: li ho condivisi con famiglia e amici stretti, ho viaggiato tanto, li ho restituiti al calcio aiutando la squadra del mio paese».
Visto che siamo partiti parlando di giovani: cosa si ricorda dell’Europeo Under 21 vinto nel 2004 in Germania?
«Che eravamo giovani ma avevamo addosso una pressione incredibile, perché dovevamo anche conquistare un posto per le Olimpiadi di Atene. Dovevamo fare bene, pur non essendo sulla carta i favoriti. Ma sia dal Coni sia dalla Figc arrivava una pressione forte. Siamo stati straordinari, avevamo una squadra di futuri campioni: Gilardino, Barzagli, Bonera».
Il ruolo del portiere è cambiato, si gioca tanto con i piedi.
«Si gioca troppo con i piedi… È un’esagerazione, penso che anche gli appassionati non amino questa evoluzione: chi guarda vuole vedere i giocatori di qualità gestire la palla, così facendo rischiamo di perdere i giocatori alla Pirlo».