Corriere della Sera, 12 marzo 2025
Democratici Usa: c’è chi pensa all’esilio (di cosa si parla queste sere a New York)
Dov’è finita l’opposizione a Donald Trump? In parte è viva e vegeta come nella miglior tradizione della democrazia americana: i contropoteri sono all’opera, la magistratura (Corte suprema inclusa) gli ha bocciato diversi provvedimenti; molti media denunciano e condannano tutto ciò che fa questa Amministrazione; il federalismo consente a Stati governati dalla sinistra di remare nella direzione opposta alla sua (su immigrazione, cambiamento climatico e altro ancora).
È meno visibile, e decisamente inefficace, l’opposizione intesa come partito: i democratici passano più tempo a litigare fra loro, non hanno digerito la sconfitta del novembre scorso, non hanno una chiara strategia per riconquistare consensi.
Forse anche perché una parte di loro sono occupati da tutt’altri pensieri. Primo: è il momento di decretare che l’America è diventata una dittatura fascista? Secondo: bisogna fare le valigie ed emigrare altrove?
Questo è il tenore della conversazione quotidiana in alcune parti del paese. Minoritarie, certo, ma influenti e visibili. Intellettuali, artisti, giornalisti e scrittori, gente di spettacolo: l’élite che spesso domina la sfera del discorso pubblico, scrive sui giornali, fa televisione e cinema. Ne so qualcosa: sono ambienti che frequento da sempre, anche per contiguità professionale, a New York e in California, i due Stati sulla East e West Coast dove ho vissuto e vivo, le due roccaforti storiche della sinistra americana.
Dopo una serie di cene con personaggi noti della scena letteraria e mediatica newyorchese, tra il Village e Soho, nell’Upper West Side o a Tribeca, posso raccontarvi la conversazione dominante. In una di queste cene la padrona di casa, una giovane donna che appartiene alla Jewish community, un’ebrea di sinistra e quindi anti-Netanyahu oltre che anti-Trump, mi ha dato questa sua sintesi efficace: «Tra amici abbiamo stabilito i tre criteri-chiave che ci diranno quando abbiamo smesso definitivamente di essere una democrazia, e siamo entrati in un regime fascista. Primo: quando cominceranno ad arrestare i giornalisti. Secondo: quando se la prenderanno con noi ebrei. Terzo: quando si capirà che quelle del 5 novembre sono state le ultime elezioni».
Ho provato a sollevare qualche dubbio e muovere delle obiezioni. Sulla museruola al giornalismo, per esempio. La stampa anti-trumpiana mi sembra più vivace che mai, il New York Times e la Cnn non hanno modificato di una virgola la loro linea politica. Forse, semmai, l’assenza di autocritica è il loro punto debole: uno tra i più celebri anchormen della Cnn, Jake Tapper, ha appena pubblicato un libro che è già un best-seller, dove racconta i retroscena della congiura omertosa con cui la sua rete tv e altri media progressisti nascosero al pubblico il declino psicofisico di Joe Biden (dopo l’inganno la beffa: quel libro non è un’autocritica, i diritti d’autore andranno a premiare uno dei colpevoli).
Un’altra obiezione che suggerisco alla padrona di casa riguarda l’antisemitismo. Fenomeno reale, gravissimo, in ascesa: però almeno in America le aggressioni contro gli ebrei sono venute dall’estrema sinistra, dagli attivisti pro-Hamas mobilitati durante le occupazioni dei campus universitari.
Ma l’atmosfera delle cene newyorchesi è questa: cupa, pessimista, allarmata. Sicché, dopo «i tre segnali che il fascismo è arrivato», l’altro tema di conversazione più frequente è l’auto-esilio. Molti di questi intellettuali che incontro nelle serate newyorchesi parlano di lasciare il loro paese e trasferirsi all’estero (definitivamente, o almeno fino al «ritorno della democrazia»). Alcuni hanno già dei piani precisi, date e luoghi.
Fra le destinazioni favorite di questo esodo c’è proprio il nostro paese. Non perché amino il governo Meloni, anzi quello sarebbe una controindicazione. Il fatto è che molti dei miei interlocutori hanno già il rifugio pronto: case di villeggiatura in Toscana o in Umbria, in Liguria o sul Lago di Como. L’altra destinazione favorita è la Francia: Parigi, Provenza e Costa Azzura. Stesso discorso: sanno bene che un giorno o l’altro pure la Francia potrebbe avere un governo di destra, però hanno già casa da quelle parti.
I miei amici letterati forse non si rendono conto che i discorsi sull’autoesilio confermano i peggiori pregiudizi contro le élite. L’operaio metalmeccanico del Michigan che ha votato per Trump, se mai venisse a conoscenza di quel che si dice nelle cene al Village, troverebbe la conferma che la sinistra ormai rappresenta soprattutto i privilegiati, quelli che si possono permettere il lusso di avere case di villeggiatura in Europa.
L’ex-immigrato latinoamericano o indiano, che ha votato Trump per difendere valori tradizionali e perché disapprova l’immigrazione illegale, si sentirebbe ancora più distante dalle élite del Village. Il reduce che ha indossato la divisa militare riconoscerebbe in questi discorsi la vena anti-patriottica, anti-americana, di chi è pronto ad abbandonare il proprio paese se non si sente rappresentato dal governo di turno.
A me invece tutto questo sa di déjà vu: sentii fare gli stessi discorsi nel dicembre 2000 quando vivevo a San Francisco e ci fu l’elezione «rubata dalla Corte suprema» (Bush-Gore), poi nella primavera 2003 quando Bush invase l’Iraq. Molti amici californiani vent’anni fa parlavano di lasciare l’America. Pochissimi lo hanno fatto davvero. Qualcuno si è trasferito in Florida, per pagare meno tasse in un paradiso fiscale governato dai repubblicani.
L’unica variante: allora era più in voga il Canada come destinazione, oggi forse sconsigliabile visti i propositi annessionistici di Trump…
Per darvi un quadro veritiero dell’atmosfera che respiro oggi a New York, però, devo aggiungere che c’è un vento di sfiducia e di pessimismo anche a destra. In un certo mondo conservatore e liberal-repubblicano, o ex-repubblicano ma anti-trumpiano, gli eventi degli ultimi giorni (Ucraina, dazi) hanno creato sconforto.
Una testimonianza emblematica ve la riporto qui sotto, è quella di Bret Stephens, editorialista del New York Times, per l’appunto un conservatore non trumpiano. Disgustato e preoccupato. Eccovi quanto scrive:
«Era una convinzione comune – non solo tra i responsabili politici e gli economisti, ma anche tra gli studenti delle scuole superiori con una conoscenza della storia – che i dazi doganali fossero una pessima idea. L’espressione “beggar thy neighbor” (impoverire il vicino) aveva un significato per la gente comune, così come i nomi del senatore Reed Smoot e del deputato Willis Hawley. Gli americani capivano a quanto il loro dazio del 1930, insieme ad altre misure protezionistiche e isolazioniste, avesse contribuito a trasformare una crisi economica globale in un’altra guerra mondiale. Tredici presidenti consecutivi avevano quasi giurato di non ripetere quegli errori. Fino a Donald Trump. Fino a lui, nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato così ignorante delle lezioni della storia. Fino a lui, nessun presidente è mai stato così incompetente nell’attuare le proprie idee. È una conclusione a cui sembrano essere giunti i mercati azionari, crollati dopo la tripla batosta di Trump: primo, le minacce di dazi contro i nostri principali partner commerciali, con un conseguente aumento dei costi; secondo, la ripetuta concessione di proroghe mensili su alcuni di quei dazi, creando uno scenario completamente imprevedibile; infine, la sua ammissione implicita, fatta alla Fox News, che gli Stati Uniti potrebbero entrare in recessione quest’anno, e che è un prezzo che è disposto a pagare per fare quella che chiama una “grande cosa”. In breve, un presidente capriccioso, erratico e sconsiderato è pronto a mettere a rischio sia l’economia statunitense che quella globale pur di sostenere il proprio punto di vista ideologico. Questo non finirà bene, soprattutto in un’amministrazione priva di freni, circondata da una squadra di complici e yes-man. Cos’altro non finirà bene, almeno per l’amministrazione? Facciamo una lista. Il Dipartimento per l’Efficienza del Governo non finirà bene. Non è né un dipartimento né efficiente – e “efficienza governativa” è un ossimoro. Un’agenzia delle entrate svuotata non abbasserà le tasse: ritarderà solo i rimborsi. Licenziare migliaia di dipendenti federali non renderà la forza lavoro più produttiva. Significherà un decennio di contenziosi e miliardi di dollari in spese legali. Eliminare sprechi di spesa pubblica ad alta visibilità non inciderà sulla spesa federale. Servirà solo a mascherare i veri motori intoccabili del nostro debito da 36 trilioni di dollari: sanità, pensioni, difesa. Le minacce ai nostri alleati non finiranno bene. Potrebbe sembrare divertente, in un certo senso, prendere in giro Justin Trudeau chiamandolo “governatore” del “grande stato del Canada”. È grottesco, orribile e idiota inventare pretesti fasulli per intraprendere una guerra commerciale incessante contro il nostro vicino più amichevole – soprattutto perché ha improvvisamente rafforzato le fortune politiche del successore di Trudeau, Mark Carney, a scapito del leader conservatore Pierre Poilievre. È ragionevole cercare di spingere le aziende cinesi fuori dal Canale di Panama. Ma minacciare di annullare un trattato ratificato dal Senato per riprendersi il Canale con la forza significa seminare una sfiducia permanente nei confronti degli Stati Uniti. È intrigante contemplare l’acquisto legale e volontario della Groenlandia. È invece putiniano minacciare, in un discorso al Congresso, di prendere la Groenlandia “in un modo o nell’altro”, minacciando così l’alleato NATO che ne detiene la sovranità. L’avvicinamento all’estrema destra europea non finirà bene. Non da ultimo perché partiti come l’AfD in Germania o il Rassemblement National in Francia sono nemici dichiarati di tutto ciò che è americano: la nostra cultura volgare, il fast food disgustoso, il capitalismo predatorio e le pretese imperiali. Forse il più grande risultato del XX secolo è stata la distruzione, sia fisica che spirituale, del militarismo tedesco e della minaccia che rappresentava per i numerosi vicini della Germania. Ma un’America che si allontana dalla NATO mentre rafforza quei partiti anti-americani non porterà maggiore sicurezza a nessuno, nemmeno a noi stessi. Porterà a una Germania nuovamente guidata da fascisti e pronta a riarmarsi con armi nucleari. I negoziati sull’Ucraina non finiranno bene. Se l’amministrazione Trump volesse porre fine alla guerra in modo duraturo, farebbe tutto il possibile per sostenere pubblicamente Kiev, una consegna più rapida di armi, negoziati su una garanzia di sicurezza statunitense a lungo termine e l’ingresso nell’Unione Europea. Dovrebbe anche opporsi con forza a Mosca, ad esempio sequestrando i beni congelati della Russia per finanziare gli acquisti militari dell’Ucraina. Poi, con questa leva, potrebbe spingere Zelensky ad accettare un accordo che preveda la perdita di territorio ucraino. Quello che il team Trump ha ottenuto è l’opposto: una Russia che vede ancora meno motivi per negoziare, un’Europa che si sente sempre più indipendente dagli Stati Uniti, una Cina convinta che l’America alla fine cederà e un’Ucraina, ancora una volta tradita, che avrà sempre meno fiducia nelle garanzie internazionali sulla sua sicurezza. E c’è altro ancora: l’arresto di domenica e la minacciata deportazione di Mahmoud Khalil, un titolare di green card e attivista pro-palestinese alla Columbia University, potrebbero persino spingere i libertari pro-Israele a difendere i suoi diritti, facendone un martire per l’estrema sinistra. Ma lo schema è chiaro. Ignorando la versione politica della Terza Legge del moto di Newton – secondo cui a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria – l’amministrazione si troverà ora a raccogliere esattamente ciò che dovrebbe evitare. I critici di Trump sono sempre rapidi nel vedere il lato sinistro delle sue azioni e dichiarazioni. Un pericolo ancora più grande potrebbe risiedere nel carattere caotico della sua gestione politica. La democrazia può morire nell’opacità. Può morire nel dispotismo. Con Trump, rischia semplicemente di morire per stupidità».