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 2025  marzo 12 Mercoledì calendario

Intervista ad Adriano Giannini

Se alla sua vita si dovesse dare il titolo di un film, sarebbe Travolti da un insolito destino, mitica pellicola di suo padre con Mariangela Melato ma anche criticatissimo remake da lui interpretato con Madonna. È senza affanno ma con molta autoironia, che Adriano, figlio di Giancarlo Giannini e Livia Giampalmo, parla delle tante svolte che hanno disseminato la sua carriera. «Il senso della mia vita? Un’eterna grande fuga accettata». Il tutto accompagnato da una quasi inevitabile «sindrome dell’impostore», mai tragicamente vissuta, anzi trattata come parte del gioco. Operatore, attore, doppiatore, insegnante di recitazione, ora anche scrittore, è domani in sala il thriller Gioco pericoloso che lo vede al fianco di Elodie e Eduardo Scarpetta (produzione Groenlandia e Vision Distribution, regia di Lucio Pellegrini). Soprattutto arriva in libreria il suo esordio letterario: la fiaba per l’infanzia Piro (Valentina Edizioni) a fine mese alla Bologna Children’s Book Fair. Sarà per quella faccia un po’ così, ma da lui ti immagineresti un thriller e invece è una romantica (ed ecologica) storia d’amore tra girasoli.
Perché una storia così inusuale?
«L’idea risale a molti anni fa: era estate e, diretto in Toscana, sono passato vicino a un campo di girasoli: tutti rivolti nella stessa direzione. “Ma questi non si sono mai visti – mi sono detto -. E se accadesse?”. Uno spunto dopo l’altro, la storia è andata sviluppandosi come il romanzo d’amore tra un Romeo e una Giulietta vegetali, un Orfeo ed Euridice con radici, dove lui fa di tutto per contrastare la natura e rigirarsi verso di lei, casualmente vista durante una torsione causata da una forte tempesta. Un particolare dopo l’altro, sono passati anni prima che la completassi, la scrivessi e – sempre per caso – trovassi un editore».
Piro in Ara vede sé stesso e se ne innamora. È questa la sua idea dell’amore?
«Non penso che amore sia specchiarsi nell’altro, tutt’altro. Amore è empatia, desiderio di ascolto e cura per qualcuno verso cui siamo disposti ad abbassare ogni filtro. Sappiamo quanto spesso per paura e egoismo questo non avvenga: guardiamo ma non “vediamo”».
È la perfetta fiaba della buonanotte, ma lei non ha figli cui leggerla.
«No. Non ho esercitato la funzione genitoriale neppure verso i figli di mia moglie, ai tempi adolescenti e ora ormai indipendenti (dal 2019 è sposato con Gaia Trussardi, ndr). Un pubblico infantile, tuttavia, Piro l’ha avuto: i bambini dei miei amici. E ne sono stati affascinati».
Merito anche del narratore ?
«Mettere enfasi e fantasia è importante: predispone i bambini all’ascolto. A me viene naturale, ma direi che accade a qualunque genitore. Ricordo mio padre e mia madre che modulavano la voce e coloravano i passaggi della storia. Che era spesso sempre la stessa: “Mi racconti quella?” per la trentesima volta. I miei preferiti Rodari o Calvino, quasi mai Grimm o Perrault».
Ha 55 anni: non le capita di desiderarlo, un figlio?
«Non oggi. Anni fa, un po’. Penso di avere riversato questo desiderio nell’insegnamento, un’attività scoperta in tempi abbastanza recenti e che mi coinvolge profondamente: amo stare con i giovani, trasmettere idee, lavorare sull’empatia e la fiducia».
In Gioco pericoloso è uno scrittore con il blocco della pagina bianca. Mai avuto?
«No, anche perché ho un alibi: non sono uno scrittore. Ho solo scritto una favola».
Per un attore esiste un corrispettivo?
«Il giorno che fatichi a entrare in parte. Ma poi supplisci con il mestiere e fai il tuo lavoro comunque. Poi ci sono, rare ma sempre possibili, le amnesie. Ricordo sul set di Ocean’s Twelve, con il gotha di Hollywood, Brad Pitt, Matt Damon, George Clooney, Julia Roberts. La mia prima scena era con Bruce Willis: il regista Soderbergh mi cambia all’ultimo tutte le battute; passo una notte in bianco per impararle e perfezionare la dizione. La giornata passa nell’attesa. Sono sempre più nervoso. Finalmente tocca a noi, e nella testa ho il vuoto. Bofonchio qualcosa sottovoce in un angloqualcosa inesistente. Willis, gran professionista, non fa una piega e risponde con la sua battuta. Anche il regista non capisce, pensa a problemi del fonico. Ma intanto è finito l’orario (gli americani sono rigorosissimi in questo): il ciak l’ho portato a casa. Domani è un altro giorno e si rifà»
Come ci si sente?
«Ti esplode la sindrome dell’impostore. Sempre un po’ latente quando come me hai alle spalle tanti cambi di percorso. Anche ora con la scrittura».
Cominciò da operatore.
«Finito il liceo, non sapevo che fare della mia vita. Penso a un anno sabbatico negli Usa per imparare l’inglese. Là mi manterrò come cameriere, ma mi serve una base per il viaggio. Così chiedo a mia madre, allora regista, se mi trova un lavoretto. Manca un aiuto operatore e in una giornata di infarinatura imparo i basilari. Invece di essere cacciato con ignominia, vengo considerato bravino e subito dopo preso per un altro film, e via così. L’anno sabbatico è saltato e quello è stato il mio lavoro per una decina d’anni, una bella gavetta, che ancora condiziona il mio atteggiamento sui set».
Poi divenne l’attore.
«A un certo punto ho capito che mi interessava altro, ed era la regia. Mi ero iscritto a una scuola di teatro: un regista non è solo tecnica di ripresa. Anche in questo caso, un primo film – Alla rivoluzione sulla due cavalli – tira l’altro. Poi, sul set di un film ungherese sconosciuto, Dolina, girato nel 2007 in Transilvania, a un’ora dalla città più vicina, immersi nei boschi, tra lupi e orsi che ogni notte devastavano le scenografie, sentii un coinvolgimento unico. Ecco: essere al servizio di una storia, nel rispetto della visione del regista, questo è il senso che dò al mio lavoro».
Somiglianze con papà Giancarlo e mamma Livia?
«Anche se tutti mi ripetono quanto assomigli a mio padre, trovo di aver preso da entrambi, fisicamente e nel carattere: da lui alcuni aspetti nevrotico-creativi e una certa inquietudine che si trasforma in creatività; da lei la sensibilità e dai miei nonni liguri ex partigiani il senso della giustizia: schierarmi a favore dei più deboli, combattere le ingiustizie, anche piccole, mi viene istintivo. Una fusione che mi fa dire di avere migliorato la specie».
Leggenda vuole che però detestasse essere paragonato a suo padre e abbia per questo tirato un piatto di pasta in faccia a un giornalista.
«(ride) Sfatiamo una volta per tutte: avevo 4 anni! E non sopportavo quegli sconosciuti pressanti che mi chiedevano di papà. Questo poi mi aveva anche fatto ganascino».
Nessun trauma quindi sul set del remake di Travolti da un insolito destino ?
«Un po’ da psicanalisi, in realtà, lo fu
, visti i tanti cortocircuiti col passato. Fu uno scherzo del destino paradossale e non voluto. Feci il provino senza sapere di che si trattasse e Guy Ritchie mi scelse senza badare al mio nome. Lui e Madonna mi volevano, ma non la Sony che cercava una celebrità. Volevano allontanarsi il più possibile dall’originale, eppure le location erano le stesse. Addirittura la proprietaria del mio albergo si ricordava di quando andavo a trovare mio padre. Feci finta di niente... In promozione venivo trattato da star, ma vivevo in un appartamentino scalcinato. Si immagini a che livelli viaggiasse la mia sindrome dell’impostore...».
E ora?
«L’impostore sta costruendo altre favole. E a buon punto è anche la sceneggiatura del mio esordio alla regia. Intanto sto girando un film ruspante, povero e avventuroso (come piacciono a me): Separazioni per la regia di Stefano Chiantini. E spero sempre venga dato l’ok alla seconda stagione di due serie che ho molto amato, Acab e Bang Bang Baby».