Avvenire, 7 marzo 2025
Attilio Bartoli Langeli: «La mano di Francesco ha scritto parole divine»
Attilio Bartoli Langeli, Roma 1944, è stato ordinario di Paleografia e diplomatica presso l’Università degli studi di Perugia. Ha studiato a lungo con Armando Petrucci il difficile rapporto tra scrittura e lettura nel mondo medievale, divenendo in seguito il maggiore esperto degli scritti autografi di Francesco d’Assisi. È oggi coordinatore della Scuola nazionale per l’edizione delle fonti documentarie dell’Istituto storico per il Medioevo e membro del Comité international de Paléographie.
L’idea di un Francesco spiritualmente alto, ma ingenuo e ignorante pervade l’immaginario collettivo. Per molto tempo si è sostenuto addirittura che Francesco non sapesse scrivere, o che scrivesse solo in volgare, perché tutti conoscevano il Cantico di frate Sole e quasi nessuno gli altri suoi scritti, circa una trentina. Di Francesco ci restano anche due lettere di suo pugno, caso rarissimo per il Medioevo, epoca in cui neppure Dante ha lasciato autografi. Cosa ci dicono questi autografi?
«Dimostrano che Francesco scriveva; e scriveva in latino. Non sono testi lunghi, sono due letterine, una chartula, ossia un foglietto, conservata nella basilica inferiore di Assisi e una lettera oggi esposta nella cattedrale di Spoleto. Si sono conservati perché li ha custoditi gelosamente frate Leone, che fin da quando Francesco era vivente ebbe la sensazione netta di avere a che fare con un santo. Dobbiamo immaginare che tutti gli altri, che hanno ricevuto lettere da Francesco, le abbiano lette e poi buttate oppure che, nel tempo, esse siano andate perdute. Nelle fonti è indicato in più punti che Francesco inviò lettere, biglietti e preghiere, sappiamo ad esempio che scrisse più volte a Chiara, al papa Onorio III e al cardinale Ugolino, futuro papa Gregorio IX».
Dobbiamo quindi immaginare un Francesco che scriveva abitualmente?
«Il caso della chartula, scritta alla Verna, ci dice proprio questo. Anche lì, sull’altura della Verna, negli ultimi giorni di settembre, in una stagione piovosa e ventosa, lui e i suoi compagni si erano portati dietro carta e penna. Subito dopo la stigmatizzazione, Francesco sente l’esigenza di scrivere delle lodi al Signore, quindi dobbiamo supporre che il gesto di scrivere fosse per lui consueto, anche – ripeto – in situazioni disagiate come questa: con le mani piagate, doloranti, Francesco si mette a scrivere».
Si potrebbe obiettare che scrivere non significhi avere cultura. I frati che, lui ancora vivente, entrarono nel suo ordine, muniti di laurea e di dottorato, gli rimproverarono di avere un bagaglio culturale modesto rispetto al loro. Avevano ragione?
«Un conto è il bagaglio culturale che si possiede e che può essere più o meno nutrito, un altro è ciò che l’intelligenza riesce a fare di quel bagaglio. Tema questo attuale perché tutti ci chiediamo cosa l’Intelligenza artificiale, riuscirà a fare dei dati che le mettiamo a disposizione, che sono sconfinati. È evidente quindi che bagaglio culturale e capacità intellettuali non coincidano necessariamente. Francesco ha una cultura nutrita di parola divina, di parola della Scrittura. Quello è il serbatoio lessicale e concettuale di Francesco e non può essere altrimenti, ma ciò che è eccezionale in Francesco sono le parole, le frasi, i concetti – di un livello altissimo! – che egli riesce a tirare fuori da lì».
Eppure questo stereotipo è il più duro a morire, ed è ripetuto ancora oggi da qualche studioso e pellicola cinematografica. Dunque, Francesco era un uomo ingenuo e ignorante?
«Altro che ingenuo, altro che ignorante! A leggere tutti i suoi testi, e non solo quelli autografi, c’è dietro il suo pensiero una cultura biblica e cristiana di altissimo livello. La sua è una scrittura densa, mai banale, di grande spessore. Una cultura che egli si è certamente fatto da adulto, dopo aver maturato il proposito di rispondere alla chiamata religiosa, leggendo e meditando di continuo la Bibbia. Un grande filologo della prima metà del secolo scorso, Erich Auerbach, ha insistito sulla profondità degli scritti di Francesco, in particolare sulla Lettera a un ministro, uno scritto breve ma profondo, che è stato spesso banalizzato sia dai trascrittori del passato che dai filologi moderni. Francesco dice a questo ministro di non darsi pena per i suoi frati, le parole esatte sono “non preoccuparti che diventino cristiani migliori”. Ebbene diversi editori hanno tolto quel “non” perché appariva loro sconveniente che il reggitore di un ordine religioso dicesse a un ministro di “non” preoccuparsi! Un qualunque sacerdote avrebbe detto: “Preoccupati che essi diventino cristiani migliori”. Invece qui Francesco dice proprio l’esatto contrario: “non preoccuparti!”, nel senso che questo non è il tuo mestiere, perché – sottinteso – ognuno deve trovare la via migliore per seguire le orme di Cristo. Auerbach ha definito questo testo uno dei vertici della letteratura cristiana, e, in effetti, è un testo fatto di brevi frasi una più bella dell’altra, di un’altezza spirituale e concettuale davvero suprema. E, tuttavia, ancor oggi, in qualche edizione recente quel “non” è sparito».
Il numero impressionante di abbonamenti ad Audible, e più in generale il successo dei podcast, dà quasi l’impressione che ci stiamo allontanando da una civiltà della lettura, proprio come accadeva nel Medioevo, in cui i laici che si avvicinavano alla cultura lo facevano sempre da un punto di vista orale, dell’ascolto. Anche lei ha questa impressione? E cosa succede ad una società che si allontana da una cultura scritta?
«La cultura, in ogni caso, è sempre scritta, nel senso che chi ascolta, chi legge, ascolta o legge un testo che è stato scritto in precedenza. In ogni caso, senza essere esperto della modernità, dico che ogni epoca inventa le risorse e i mezzi, i “media” appunto, per comunicare. Nell’età di Francesco il “medium” era la parola detta, che non era in latino. Francesco, e come lui chiunque parlasse a un pubblico, predicava in volgare perché nessuno parlava più il latino correntemente. Oggi abbiamo quest’altro sistema culturale, che ormai impronta gran parte delle nostre modalità di comunicazione, di diffusione del pensiero, di apprendimento e così via, e ci sono, naturalmente, dei ritorni di modalità che possono assomigliarsi. Credo che l’universo medievale sia un universo a forte valenza comunicativa perché s’inventò una cultura a prevalenza orale, proprio per il fatto che la maggioranza della popolazione era analfabeta e la cultura scritta, in latino, era di pochi, e poteva funzionare solo al loro livello. Se ci pensiamo bene, oggi non è che non si scrive più, non si scrive più a mano. Attraverso la tastiera, però, si scrive molto più di prima, siamo cioè all’interno di un sistema ad alta tonalità comunicativa, sia a livello interpersonale sia a livello generale. Tutti oggi scrivono di più rispetto al passato».
Qual è il modo migliore per festeggiare il centenario di Francesco nel 2026?
«Ci avviciniamo al centenario per eccellenza, quello della morte di Francesco. Il primo centenario di rilievo è stato il centenario della nascita del 1891, che si celebrò per impulso di papa Leone XIII, poi si arrivò a quello della morte, del 1926, celebratissimo: era il centenario de “Il più santo degli italiani e il più italiano dei santi”, frase questa sulla cui paternità ancora si discute, forse la disse Gioberti, forse D’Annunzio o forse davvero Mussolini... Poi è venuto il centenario del 1991, di nuovo della nascita, che è stato molto importante dal punto di vista storiografico. Ora stiamo facendo indigestione di centenari, il 2023 è stato quello della Regola, il 2024 delle stimmate, il 2025 del Cantico. Quello che si prepara, l’ottavo centenario della morte, sarà fitto di iniziative e attualizzazioni: il Francesco ecologo, il Francesco animalista, il Francesco pacifista... In realtà, il modo migliore per diffondere e celebrare Francesco è “leggere, leggere, leggere” i suoi scritti. Solo così si può capire davvero chi era, attraverso le sue parole, che possiamo definire come divine: divina verba scripta!».