il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2025
Intervista ad Angelo Barbagallo
Il cinema quando non è neanche cinema, ma è un incrocio di vita. “Da ragazzo abitavo in un quartiere di Roma Sud. E vicino casa mia le rotaie si dividevano e prendevano due direzioni: o verso Cinecittà o verso l’ippodromo di Capannelle. Per questo nel mio quartiere vivevano molti cavallari e altrettanti cinematografari”.
E lei?
Io stavo nel mezzo.
(Angelo Barbagallo è tra i più bravi e premiati produttori di cinema. Ha vinto quattro David, all’inizio in società con Nanni Moretti. Ha portato nella settima arte la politica, la denuncia, la risata, il cinismo, il racconto epico, il come eravamo e il come siamo, senza cadere nella trappola del
radical chic a suo agio in una minoranza incompresa. Molte delle sue pellicole sono diventate oggetto di discussione collettiva e seduto al centro di un tavolo enorme, guarda con celato amore locandine come quelle di
Fortapàsc, Viva la libertà, La stranezza o Astolfo)
Insomma, lei nel mezzo tra due direzioni.
Sono perito elettrotecnico perché mio padre stava all’Enel e in quegli anni l’aspetto importante era lavorare, diventare autosufficienti e il percorso era quello di seguire le orme di papà. Aspettavamo il concorso.
Nel frattempo?
Mi sono diplomato.
Con quanto?
37; (sorride) nel mio quartiere c’erano un sacco di amici che erano figli di persone che lavoravano nel cinema; uno di loro, nel 1979, entra nel bar di quartiere e pone la domanda chiave: “Non è che qualcuno ha una macchina con quattro sportelli e vole veni’ a lavora’?”. Mio padre ne aveva appena acquistata una: “Provo, se me la dà…”
E… ?
Papà da uomo generoso ripose “sì” e diventai l’autista di Michel Piccoli in un film meraviglioso, Salto nel vuoto, di Marco Bellocchio; oltre a Michel c’erano Michele Placido e Anouk Aimée.
Li conosceva di fama?
Non ero un cinephile; mi piaceva andare al cinema, ma non capitava troppo spesso: con i miei amici non avevamo una lira, magari utilizzavamo i biglietti gratis che davano alla polizia e uno degli amici era figlio di un poliziotto; una volta i biglietti erano per Sussurri e grida di Ingmar Bergman, ma non eravamo culturalmente attrezzati: alla fine della proiezione gli amici mi volevano ammazzare. Ma non sapevo argomentare perché mi era piaciuto.
Quindi c’era qualcosa…
Quando ho iniziato a frequentare il mondo del cinema c’era una curiosità non supportata da un bagaglio culturale.
Cosa amava al tempo?
Giocare a bigliardo.
Unica passione.
Detta così è drammatica.
La politica?
Sempre stato di sinistra, mai con l’estrema e a quel tempo risultare un moderato di sinistra era terribile, ti gonfiavano di botte tutti; (ci pensa) ho un rimpianto: in tutte le assemblee di scuola, ogni volta, mentre ascoltavo gli altri parlare, pensavo “ora potrei intervenire e dire questo, questo e questo…”. Mai avuto il coraggio.
I suoi ragionamenti di allora erano giusti?
Avevo più ragione di molti di loro.
Giocava ai cavalli?
Sì, con i compagni di classe.
Alla Febbre da cavallo?
Non così; (sorride) mio padre ancora abita nel quartiere e l’altro giorno mi fa: “Lo sai che ho incontrato il tizio che faceva l’allibratore?”. L’allibratore era uno dei personaggi che gravitavano nella mia zona, una zona varia, dove convivevano differenti livelli di società, compresi personaggi legati alla Banda della Magliana.
Giocava a soldi?
Ho smesso da quando ho iniziato a lavorare.
Entra nel mondo del cinema, e…?
È stata una fortuna clamorosa, la meraviglia del set di Salto nel vuoto l’ho rincorsa tutta la vita. E avevo solo vent’anni.
Che fortuna?
Il produttore esecutivo era Enzo Porcelli, persona straordinaria, e soprattutto ho conosciuto Marco Bellocchio, uomo che mi ha cambiato la vita: non ero colto, non avevo grande esperienza, non ero un appassionato di cinema, eppure gli ho suscitato simpatia; (cambia tono e posizione sulla sedia) da ragazzo cresciuto a Roma Sud, la mia città arrivava al massimo a Piazza del Popolo; oltre era tutto sconosciuto.
Per i Parioli serviva il passaporto…
Il primo giorno di lavoro vado a prendere Bellocchio e lo scenografo per poi accompagnarli nei sopralluoghi. Mi presento con lo stradario. Salgono in macchina e mi dicono: “Andiamo a Piazza Euclide” (piazza storica dei Parioli). Resto immobile. E penso: “E mo’ che cazzo faccio?”. Non l’avevo mai sentita nominare. “Che fai?”. “Non so dov’è…” Iniziarono a ridere. Da lì siamo diventati amici. E da lì non ho mai più smesso di lavorare.
Viva la sincerità.
Con me Marco è sempre stato buono, mentre altri erano terrorizzati; mi ha coinvolto nel film successivo e sono diventato direttore di produzione.
Oltre alla simpatia ci sarà stato qualche suo merito.
Ero gentile, attento, entusiasta. E poi amavo le foto, così sapevo cos’era la pellicola, quale era il processo, E questo mi ha dato un grande vantaggio.
Il senso di inadeguatezza?
(Immediato) È passato; (subito dopo) per modo di dire: certe fragilità te le porti dietro, però la scuola della strada mi ha insegnato a confrontarmi con tutti: ho imparato il francese parlando con Piccoli.
Non male.
Un giorno ho chiesto a Michel: “Stavo pensando di proseguire con questo lavoro. Che ne pensi?”. E lui: “Certo!”. Da lì siamo diventati amici.
Con il cinema ha scoperto un mondo incredibile.
Mi sono trovato a frequentare persone fuori scala.
Tipo?
Chiacchieravo con Anouk Aimée, con Michele (Placido); ho conosciuto Remo Remotti…
Com’era Remotti?
Un genio, un pazzo meraviglioso; (sorride) la sera, alla fine del lavoro, andavamo tutti insieme a vedere il girato e dopo c’era la cena di gruppo; anche lì nascevano delle serate straordinarie, con dinamiche a volte neanche facili da decodificare. Ed ero tanto felice.
Cinema nel cinema.
Una mattina mi arriva un’enorme botta di fortuna: Anouk era senza autista e doveva andare a trovare Fellini. Lo chiedono a me. Partiamo. Arriviamo a Cinecittà e ci indicano lo Studio 5 dove Fellini stava girando La città delle donne. Io dico ad Anouk: “Ti aspetto al bar”. “No, vieni con me”. Ci aprono la porta del Teatro e assisto a una delle scene: centinaia di donne pattinavano, nell’aria un forte odore d’incenso, utilizzato al tempo per creare il fumo.
E lei?
Stordito. Poi arriva Fellini, vedo Mastroianni, ed era il momento della pausa pranzo, organizzata sopra il Teatro dove la cuoca personale di Fellini cucinava. Anouk, di nuovo, mi fa cenno di seguirla. E mi siedo a tavola con tutti loro, compresa una signora prosperosa…
Felliniana.
Fellini era seduto tra la signora e Anouk e ogni tanto dava a entrambe dei pizzicotti sul culo: era un gioco infantile in perfetto stile Amarcord.
Era cosciente di dov’era?
Ho in testa ogni fotogramma; (sorride) ero il più giovane di tutti, e per tanto tempo lo sono stato.
Quando si è reso conto di non esserlo più?
Forse dopo la separazione da Nanni (Moretti).
Quando diventa produttore?
Grazie a Nanni: è stato lui a coinvolgermi in Notte italiana di Carlo (Mazzacurati). Lì nacque la Sacher film.
In quel periodo era diventato un cinephile?
Ci nasci, non lo diventi; però il cinema lo conosco bene, anzi è la cosa che conosco meglio.
Chi è un cinephile?
Nanni è un conoscitore di cinema straordinario.
Mazzacurati?
Anche.
Quando parla di Mazzacurati abbassa la voce.
(Si morde il labbro) È un dolore tropo forte.
Com’era?
Il più grande raccontatore di storie mai incontrato. Ti rapiva. Poi era curioso, colto, un maestro in qualunque campo. Un giorno ci ha portato alla Cappella degli Scrovegni ed è stato qualcosa di incredibile; ma poteva parlare di musica, di coltivazioni, di tutto, senza esibirsi. Un leader naturale.
Il suo film che ama di più.
Ho prodotto Notte italiana e La sedia della felicità; per anni ho amato tantissimo Un’altra vita, dove ha raccontato Roma come nessun altro, poi l’anno scorso ho rivisto Il toro e lo trovo pazzesco.
Poetico.
Lui lo era; ed era anche spiritoso, un grandissimo bugiardo, un bugiardo compulsivo e forse era una necessità che nasceva dal desiderio di raccontare belle storie.
Chi è il produttore?
Mi sono sempre sentito appagato nel momento in cui sono riuscito a mettere il regista nelle condizioni migliori per realizzare il film; ovvio, senza rovinarmi economicamente.
Ha mai rischiato il collasso economico?
Sì, ma non dirò quando; questo è un lavoro che si porta appresso la precarietà.
Racconta Daniele Luchetti: “Il set del Portaborse era la vita più deliziosa che si potesse immaginare”.
È un film politico. E da giovani ci siamo ritrovati a girare una pellicola “contro” con la consapevolezza di avere ragione; eppure ci siamo esposti, abbiamo rischiato. È stato bello.
Ha avuto paura?
Ricordo la sera della prima: sold out al cinema, noi euforici; la mattina dopo dovevamo andare a Firenze e alla stazione Termini mi trovo con Nanni (Moretti), Silvio (Orlando) e Daniele (Luchetti). Saliamo in treno e leggiamo su Repubblica un pezzo di Barbara Palombelli che aveva visto il film insieme a Giulio Di Donato (leader socialista). Il titolo era: “Gliela faremo pagare”. Io e Silvio ce la siamo fatta sotto.
E per Il caimano?
Nessun timore, e poi quando c’è Nanni lui diventa lo scudo. Ha questa forza.
Uno dei registi con cui ha lavorato: Roberto Andò.
Con lui ho girato sette film, ed è un altro mondo, un intellettuale raffinato; (pausa) ci vogliamo bene, ci stimiamo e rispettiamo pur nelle differenze.
Gianni Di Gregorio.
Lo conosco dalla fine degli anni Settanta. Unico. L’uomo più mite mai incontrato, identico a come appare nei film. Simpatico, spiritoso e solo per colpa della sua mitezza ha esordito a sessant’anni; poi è pieno di fragilità, come lo era da ragazzo; ha rischiato di restare nell’ombra, mentre Pranzo di Ferragosto è stato venduto in tutto il mondo.
Tra i suoi film quale ama particolarmente?
Fortapàsc perché ho amato lavorare con Marco (Risi) e Andrea (Purgatori); poi ho avuto la fortuna di conoscere Paolo, fratello di Giancarlo Siani, e sono entrato in contatto con il mondo di Libera; ecco, grazie a questi film conosci realtà nuove e straordinarie; (pausa) poi penso a La meglio gioventù.
Con La meglio gioventù era consapevole del capolavoro?
Lo giudicavo solo bello; a un certo punto Marco (Tullio Giordana), Sandro (Petraglia) e Stefano (Rulli) mi consigliano di parlare con Thierry Frémaux (direttore al Festival di Cannes) e mandargli le casette. Era novembre. Dopo qualche tempo mi chiama Frémaux: “Non so in quale sezione, ma lo prendiamo”. Io stupito. Passa altro tempo, lo risento, e mi spiega che lo mette a Un Certain Regard.
E lei?
Sempre più stupito; quel film ha cambiato la vita a tutti quelli che ci hanno lavorato; (sorride) una domenica invito a pranzo gli attori, ignari di Cannes, come per una sorta di terapia collettiva per esorcizzare la non messa in onda del film sulla Rai. Mi ero messo d’accordo con Frémaux, di passaggio a Roma, di fargli una sorpresa. Così suona il citofono, sale, lo vedono e gli raccontiamo di Cannes. I loro visi felici sono ancora nei miei occhi.
Nella sua stanza delle riunioni non ci sono locandine dei film con Moretti.
Ci sono le pellicole della seconda parte della mia vita.
Caro Diario cos’è per lei?
La meraviglia, la giovinezza, la libertà, la genialità. L’esperienza più felice. Perché come Nanni c’è solo lui.
Suo figlio è regista.
(Ride) E che devo dire? Sono molto orgoglioso, una soddisfazione enorme; e pure mia figlia lavora nel cinema.
Lei chi è?
Un ragazzo fortunato. Molto fortunato.