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 2025  marzo 09 Domenica calendario

Intervista ad Angela Finocchiaro

Da più di trent’anni vive nella campagna toscana, ma per Milano dice di provare ancora «un amore sconsiderato». Angela Finocchiaro ci torna spesso, e non solo perché ci è nata e cresciuta. «Qui vivono mia figlia, mia madre e tutti i medici che non ho mollato mai», spiega mentre si siede nella redazione milanese de La Stampa. Ha da poco presentato un film (AmicheMai di Maurizio Nichetti) e sta per ripartire per iniziarne uno nuovo. Sarà – se i conti tornano – il sessantesimo, oltre al teatro, alle serie e ai programmi tv. Eppure, stando a ciò che racconta, quello dell’attrice non era certo un destino segnato.
Nessuna vocazione?
«Zero totale. Quando ero al liceo mi annoiavo da morire: avevo bisogno di qualcosa che mi coinvolgesse e andavo a cercarlo senza capire bene dove. Mi iscrissi così al corso serale dell’Accademia dei Filodrammatici, poi scoprii la scuola di mimo di “Quelli di Grock” con Maurizio Nichetti».
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Maria Francesca Rivano
Come andò?
«Feci un’interpretazione drammatica, ma in molti ridevano. Nichetti si avvicinò e mi disse: “Non ridono perché hai fatto male, ma perché hai i tempi comici”».
Fino ad allora non aveva mai pensato di poter far ridere?
«No. Anche se, da piccola, papà diceva che avevo la faccia di gomma perché cambiavo espressione continuamente».
Intanto si era iscritta a Medicina.
«La scelsi con la consapevolezza con cui avrei potuto scegliere un ferramenta. E infatti dopo un po’ la abbandonai».
I suoi genitori come la presero?
«Si stavano separando, erano occupati a pensare ad altro. Si distrassero e ne approfittai».
Pochi mesi dopo iniziò a recitare con Il Teatro del Sole di Carlo Formigoni.
«Lavoravamo ogni giorno, costruendo spettacoli nelle scuole con il metodo dell’improvvisazione. Tutti facevano tutto: si guidavano i furgoni, si caricava il materiale, si mettevano le luci e soprattutto si prendeva la stessa paga».
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Il debutto al cinema fu con Ratataplan, nel 1979, proprio con Nichetti.
«Vivevo in una casa di ringhiera all’angolo di Porta Romana: il bagno era fuori, la doccia in cucina. Quando Nichetti la vide, disse: “Perfetta, alcune scene le giriamo qui”».
Il film costò 100 milioni e incassò 6 miliardi.
«Lo scoprii con un telegramma di mio padre, mentre ero in viaggio in Colombia: “È un successo pazzesco, lo presenteranno anche a Venezia”».
E lei tornò?
«No. Partecipai a quella felicità, ma non ricordo di averla capita fino in fondo».
Con Nichetti siete tornati al cinema dopo più di 40 anni. È cambiato?
«Cambiato? Ma se è sempre lo stesso! Ha una chiacchiera incredibile, divide il capello in quattro. E controlla tutto, come faceva alla fine degli Anni 70 mentre giravamo Rataplan».
Che ricordo ha di quella Milano?
«Arrivavano spettacoli internazionali meravigliosi, si andava al Franco Parenti e all’Elfo, inciampavi nei centri sociali, nel teatro di strada».
Erano anche anni in cui si sparava tanto.
«Un periodaccio, certo, ma va detto che Milano ha vissuto a lungo di quella spinta culturale».
L’attore che stimava di più?
«Paolo Rossi, forse: una perla con un carisma fuori dall’ordinario. Ma in realtà tutto quel gruppo: Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando».
Con Orlando ha recitato anche a teatro.
«Uno che non parla mai a caso, con un’intelligenza sottile e un grande sense of humour. Al teatro scherzava sempre: “Vedi come si fa? Faccio lavorare tanto te, così poi basta che io dica una battuta e scatta l’applauso”».
Si è mai sentita discriminata?
«Sono stata fortunata. Certo, a volte è stato difficile, ma ho sempre pensato più a ciò che volevo fare che a concentrarmi su ciò che non funzionava».
A fine Anni ’80, con la Tv delle ragazze condotta da Serena Dandini, mandaste in onda una comicità per la prima volta solo femminile.
«Già col Teatro del Sole avevamo iniziato a prenderci in giro. Poi arrivò la Rai3 di Guglielmi: ogni pezzo aveva costumi, scenografie. Una televisione d’altri tempi».
Ha detto: «Se sei una donna come minimo sei femminista».
«Mi sembrerebbe strano il contrario: come fa una donna a non difendere altre donne e a non comprenderne i problemi?».

La tanto citata rivalità femminile è uno stereotipo?
«Non lo so. Ma francamente: chi se ne frega».
Sul set ha lavorato con molti grandi attori, in primis Sordi e Mastroianni.
«Marcello poteva chiacchierare per ore con una semplicità incredibile. Poi, quando dicevano “motore”, si girava ed era subito nella parte. Con lui mi sentivo implodere».
Era intimidita?
«Non dal lavoro sul set ma dalla quotidianità: se facevamo una scena in macchina, e dovevamo stare insieme prima che si girasse, non sapevo cosa dire».
E con Sordi?
«Mi faceva ridere così tanto da farmi colare il trucco da tutte le parti. Aveva una comicità spietata, se non ti sopportava poteva toglierti la pelle dalla faccia».

Meglio il cinema o il teatro?
«Tutti e due, sono ingorda. Anche se adesso col teatro comincio un po’ a patire quello che una volta era una grande libertà: la tournée. Ma restano due lavori belli perché corali».
Ha recitato anche nella Bestia nel cuore di Comencini e in Mio fratello è figlio unico di Luchetti.
«E con entrambi ho vinto un David perché erano film drammatici».
Con quel genere è più facile ottenere riconoscimenti?
«Sì. Quando sei in uscita con una commedia, la prima domanda che ti fanno è: “Vi siete divertiti tanto, eh?”. Mai capito perché se fai un film drammatico hai lavorato, mentre se fai una commedia sembra che vai in gita».

Cos’è l’umorismo?
«Per me prima di tutto una forma di conoscenza: se uno mi fa vedere una cosa con quel tono, la capisco. E poi è qualcosa che mi lega alle persone. Crea un’intimità, costruisce una relazione».

Ma come è cambiata la comicità?
«Oggi c’è più suscettibilità. Anche io a volte, prima di dire una battuta, mi sottopongo a una forma di autocensura. Poi però mi dico: “Ma sei proprio una cretina!”».

Le attrici comiche sono più di un tempo, ma sono ancora meno degli uomini.
«È vero, ma odio lamentarmi. In AmicheMai di Nichetti le protagoniste siamo io e Serra Yilmaz. Una cosa che spesso dicono nel presentarlo è “un film al femminile”. Ma ora, dico: quando vedo un film con protagonisti uomini, mica parlo di “un film al maschile”, no?».