Corriere della Sera, 9 marzo 2025
Intervista a Guido Crosetto
«Non c’è nulla dell’evoluzione della crisi ucraina, da quando è stato rieletto Trump, che non avessi detto da mesi e di cui non avessi già ragionato con Giorgia Meloni. Così come non mi ha stupito la posizione della nuova Casa Bianca nel rapporto con Zelensky e con la Russia. Certo, i modi, quelli possono aver sorpreso anche me», dice Guido Crosetto a un certo punto di una lunghissima intervista in cui, tra presente e passato, ricordi personali e politici, traccia di sé il ritratto di una persona che tutto sembrerebbe meno uno a cui piace Donald Trump o che lo voterebbe. Glielo si chiede: ministro, se fosse stato cittadino americano, avrebbe votato per Trump? Risposta: «Voto in Italia».
Approfittando della volontà di predire il futuro prossimo che si riconosce, l’altra domanda secca è se prima o poi ci saranno dei soldati italiani a presidiare il confine ucraino. «Questo dibattito è surreale e prematuro allo stesso tempo. Perché la tregua sarà figlia di condizioni che dovranno essere accettate da tutti e quindi anche dai russi. Questa è la preoccupazione dell’Unione europea, che non è prevista a quel tavolo. Per rispondere alla domanda, su quel confine per me può esserci solo l’Onu o una missione internazionale di peace-keeping che unisca quasi tutto il mondo, come in Libano. E l’Italia ha sempre partecipato alle missioni Onu».
Tutto questo è il domani. Poi c’è l’oggi. Ma è da ieri che parte questo lungo racconto personale di Crosetto, in parte condensato nelle centosettanta pagine di autobiografia, Storie di un ragazzo di provincia, in uscita per Piemme.
Ministro, quali sono i ricordi d’infanzia che l’hanno segnata di più?
«Le mosche. E quella puzza di letame che saturava l’aria del posto in cui sono cresciuto. Marene, provincia di Cuneo, il tipico comune agricolo che va avanti a mais, grano e allevamenti. E la frase che mi disse mio padre quando un giorno, seduto sul sedile dietro della sua auto, mi lamentai ad alta voce dicendo “che puzza!”: “Rispettala, perché è questa puzza che ti dà da mangiare!”. Il rispetto per qualsiasi lavoro onesto l’ho imparato quel giorno. Così come ho imparato quanto nella vita contino l’essere cortese con gli altri e il non arrendersi».
Non si arrese alla diagnosi infernale contenuta su un referto medico di suo padre. Pentito?
«Un giorno tornai a casa e trovai mia mamma che mi aspettava all’ingresso. Un bacio, un abbraccio, poi mi trascinò in salone. Sul tavolo c’erano delle radiografie di un torace e un referto. “Che vuol dire, secondo te?”, mi chiese. Iniziò da lì una sorta di corsa disperata, fatta di quella disperazione che va oltre i limiti del razionale e propria di quelli che una speranza la cercano persino nei posti in cui solitamente neanche si avvicinerebbero. C’è un turco che dice di avere una macchina miracolosa? Prendi tuo padre e vai dal turco. Senti dire che c’è uno che con le mani guarisce qualsiasi cosa? Prendi tuo padre e lo trascini là. Lo operarono, dodici ore di intervento, dopo sembrava quasi sul punto di riprendersi. Poi spuntarono delle complicazioni. Un’infermiera, mossa a compassione, mi confessò quasi in lacrime che per la fretta di aprirlo e chiuderlo si erano dimenticati dentro una garza, che aveva fatto infezione».
Suo padre morì sapendo?
«Si chiuse nel silenzio più inscalfibile. Non domandò mai nulla. Quando poi successe, c’ero io accanto a lui: un respiro, un altro respiro, un altro respiro ancora, poi silenzio, silenzio, silenzio. Lo toccai, lo guardai, iniziai a piangere e a urlare “mamma, mamma!”. Come un bambino».
Prese lei il suo posto nell’azienda di famiglia di macchine agricole?
«No. Mio zio ci liquidò. Il Codice civile glielo consentiva e lui lo fece. Fummo costretti a ripartire da zero. Avevamo di che mangiare, certo. Ma fu molto difficile».
Della Democrazia cristiana avrebbe scalato i vertici del movimento giovanile.
«Sono arrivato fino a fare il segretario regionale del Piemonte e a un posto nell’esecutivo nazionale. Nella seconda metà degli anni Ottanta ho avuto la possibilità di lavorare con De Mita, Bodrato, Donat-Cattin e, soprattutto, Giovanni Goria».
È vero che gli faceva da portaborse?
«No, è falso. Ho collaborato con Gianni a titolo gratuito e ho imparato da lui l’importanza del fiuto per capire i mutamenti dell’economia: la famosa “nasometria”, di cui Goria parlava sempre».
Chi ricorda di quel periodo?
«Enrico Letta, Dario Franceschini, Lapo Pistelli, Simone Guerrini, consigliere politico del capo dello Stato, e Renato Negro, uno dei miei migliori amici, oggi amministratore delegato di una multinazionale importante».
Pentito poi di essere ritornato nel 1990 a Marene a fare il sindaco?
«No. Anche perché grazie a quella esperienza ho capito che cosa fosse il senso delle istituzioni. Mi bastarono pochi giorni e un incontro col Balari, uno dei vecchi del paese».
Cioè?
«Un giorno, ero stato eletto da meno di una settimana, entro nel bar a comprare le sigarette e mi trovo là il Balari, che conoscevo da sempre. Seduto al tavolino, con un bottiglione di Barbera da cui aveva appena riempito un bicchiere, le Nazionali senza filtro, vestito con gilet, giacca, cravatta e il cappello, che i vecchi del paese indossavano anche col caldo. Mi vide entrare nel bar, come aveva fatto altre mille volte prima, già da quand’ero bambino, e fece una cosa che mi lasciò di sasso: si alzò in piedi e si tolse il cappello. Lo guardai senza capire, poi realizzai: ai suoi occhi avevo smesso di essere Guido, il figlio di Giovanni, perché ero diventato il signor sindaco».
Che cosa fece da sindaco?
«Una mattina, ad aspettarmi in municipio, c’era un agricoltore che conoscevo da sempre. “Guido, posso parlarti?”. Lo faccio accomodare nella mia stanza e lui prende a raccontarmi della figlia di cinque anni, che mentre stava giocando nella loro cascina si era allontanata di qualche decina di metri fino a imbattersi in una prostituta impegnata con un cliente. La bambina, che aveva visto la scena, era rimasta talmente traumatizzata che aveva smesso di parlare. Prendo di petto la questione: nel giro di quattro giorni e grazie a un’ordinanza molto complicata, la prima del genere in tutt’Italia, le prostitute sparirono da Marene. Secondo voi, ci ringraziò qualcuno? Al contrario, un giorno, entrando al bar, un cliente, che evidentemente era cliente non solo del bar, mi disse “grazie, hai tolto l’unica cosa buona che c’era a Marene”. Altra lezione: non è possibile, in politica, fare una cosa che vada bene a tutti».
Dopo la fine della Dc venne folgorato dalla discesa in campo di Berlusconi?
«Al contrario. Quando vidi il lancio di Forza Italia con le spillette, le bandierine e la canzoncina provai nei confronti di Berlusconi quasi disgusto. Per uno con la mia formazione, quell’approccio era quasi un oltraggio, un insulto alla sacralità dell’impegno per la cosa pubblica. Infatti ne rimasi lontano, nonostante i tanti inviti a entrare da parte di persone anche vicine al Cavaliere. Però fui subito sicuro che era una rivoluzione e che avrebbe avuto successo. Anni dopo, grazie a Roberto Rosso, la stessa persona che mi aveva convinto ad avvicinarmi da ragazzo alla Dc, venni eletto a Montecitorio con Forza Italia. Ma dovetti affrontare a muso duro le minacce di Claudio Scajola».
Come andò?
«Votai un emendamento dell’opposizione in dissenso dal gruppo e Claudio, che col tempo avrei imparato ad apprezzare, si alzò dai banchi del governo e venne verso di me, urlando: “Ehi, ragazzino, non ti abbiamo portato qui perché tu votassi quello che ti pare. Schiaccia il bottone che ti dice di schiacciare il capogruppo e non rompere i coglioni!"».
La sua risposta?
«Quella di uno di due metri, io, rispetto a uno alto forse meno di un metro e settanta, Scajola: “Se è così, signor ministro, avete sbagliato a candidarmi”. Mi guadagnai il rispetto di tanti e anche la fama, in quel contesto tutt’altro che apprezzata, di uno che ragionava con la sua testa».
Si fece dei nemici?
«Sandro Bondi mi odiava e io lo ricambiavo, disprezzandolo. Con Denis Verdini, di cui però oggi sono amico, ho combattuto ferocemente per la sua gestione del partito. E ho combattuto anche contro Giulio Tremonti, che in quel periodo stava un gradino sotto Dio ma si sentiva al suo stesso livello e trattava i parlamentari come i nobili del Medioevo trattavano i popolani: facendo finta di accorgersi che esistevano, ma rimanendone alla larga per non sporcarsi le mani».
È vero che stava morendo per un emendamento?
«Litigai alle tre di notte alla Camera con l’allora viceministro dell’Economia Giuseppe Vegas, di Forza Italia, perché aveva dato parere negativo a un emendamento che riconosceva il rischio chimico per l’esposizione al cloro, nitro e ammine all’Acna di Cengio. La lite fu talmente furibonda che collassai per terra e mi portarono di corsa al pronto soccorso del San Giacomo, vicino Montecitorio. Il giorno dopo, ad accogliermi fuori dall’ospedale c’era la sottosegretaria Armosino, mia amica, che mi abbracciò e mi promise: “Tranquillo, domani do io il parere e cambio quello di Vegas”».
Le amicizie: Edoardo Agnelli.
«Lo conobbi a una festa a Torino. Diventammo amici e, in alcune giornate, condivisi le idee, la cultura e anche le inquietudini di quel ragazzo così colto, educato, cortese e così introverso da essere l’opposto del padre, l’Avvocato. Non sono in possesso di una verità alternativa ma non ho mai creduto al fatto che Edoardo si sia suicidato. E non sono il solo».
Pietro Ferrero.
«Per capire di chi stiamo parlando. Un giorno c’è una tappa del Giro d’Italia che parte da Alba. Alla partenza c’è una sorta di zona vip dove accedono, insieme ai corridori, varie personalità tra cui il sottoscritto. Oltre la transenna, in mezzo a centinaia di persone comuni, scorgo Pietro col collo all’insù, che cercava di vedere quello che succedeva da questa parte. “Pietro, che fai là? Vieni di qua”, gli dico. Attenzione: stiamo parlando dell’uomo che faceva lo sponsor principale del Giro, eh? Eppure, se ne stava mischiato alla folla, quasi vergognandosi di superare la transenna: “No, no, non ti preoccupare Guido, sono solo uscito un secondo dall’ufficio e non ho il pass per entrare…”. Il pass per entrare, capito? Detto da quello che pagava tutta la baracca! La sua morte mi addolora ancora. Abbracciando il padre Michele, nel giorno dei funerali, scoppiai in un pianto irrefrenabile».
Sergio Marchionne.
«Lo conobbi davanti a una bistecca quando venne a Torino. Condividevamo la passione segreta per il poker online, l’unica distrazione dal lavoro che Sergio si concedeva. Mai visto uno lavorare così tanto. La sua scomparsa è stata una grave perdita per il Paese».
Silvio Berlusconi.
«La seconda volta che lo vidi mi disse tre cose: “Sei troppo alto, tagliati i capelli più corti ché li stai perdendo, mettiti a dieta”. Negli anni seguenti, la prima cosa che mi diceva, quando entravo da lui, era “Guido, siediti!”».
Lei lo faceva sentire più basso?
«Una volta organizzai un evento con dodicimila persone al Palasport di Torino. Dovevamo salire sul palco insieme. Dietro le quinte si guardò i piedi, guardò me e mi fece: “Guido, se non ti offendi, entro io da solo».
Era tra i grilli parlanti che, ad Arcore, tenevano a distanza?
«Il cerchio magico berlusconiano che via via ha cambiato pelle e facce mi ha spesso tenuto lontano da Arcore e da Silvio. Ma una cosa la devo ricordare. Nell’ottobre del 2011, con lo spread alle stelle, Francesca Pascale chiese di incontrarmi in un ristorante del centro di Roma e mi raggiunse, nascosta da occhialoni neri, con Maria Rosaria Rossi. Neanche il tempo di sederci e Francesca mi pregò di insistere su Silvio perché lasciasse Palazzo Chigi: “Guido, tu che gli vuoi bene, digli di farsi da parte. Altrimenti lo ammazzeranno”. Capii quel giorno che, al contrario di quanto pensassero in tanti, Francesca gli voleva davvero bene».
La foto che segna l’inizio di Fratelli d’Italia: lei e Giorgia Meloni. È vero che non voleva essere presa in braccio?
«Non ne sapeva nulla. Non era previsto. La presi e scattarono la foto».
Crosetto e Meloni
E che avete litigato più volte fino a sfiorare la rottura?
«È vero che io e Giorgia discutiamo, a volte duramente, difendendo ognuno le sue posizioni e spesso rimanendo ciascuno con la propria idea anche dopo la fine della lite. La rottura è una sciocchezza. Nulla scalfisce il nostro rapporto, nemmeno i tanti corvi che ci provano. Sono stato il primo a scommettere sul fatto che sarebbe diventata presidente del Consiglio. Ma non ora, tredici anni fa: una con quell’abnegazione per il lavoro, con quella meticolosità nello studio, con quella severità nei confronti di sé stessa, non poteva che arrivare a un livello di eccellenza in qualsiasi campo avesse deciso di impegnarsi. Mai avuto mezzo dubbio che prima o poi sarebbe arrivata a Palazzo Chigi».
Uno come lei, antifascista, si è mai sentito di troppo dentro Fratelli d’Italia?
«Mai. Io quel partito l’ho fondato. A qualcuno magari potrò stare sulle scatole, qualcuno magari si augura che prima o poi me ne vada; ma non me l’hanno mai detto in faccia. Sono sempre alto due metri!».
Una bella differenza di centimetri, anche con la presidente del Consiglio.
«Quando mi abbraccia, Giorgia mi abbraccia la pancia. Ma lo sa come mi ha sempre presentato davanti ai capi di Stato? “Questo è il mio ministro della Difesa. Non so se di difesa ci capisce qualcosa ma è senz’altro un’arma di deterrenza”. Questa frase è rimasta impressa a tutti, da Biden a Macron. Infatti, tutte le volte che mi vedono mi sorridono e vengono a salutarmi. Senza questa presentazione, lo dico con malcelata ironia, sarei stato un ministro della Difesa come un altro, dimenticabilissimo».
Crosetto e Meloni
Lei fa il ministro della Difesa dopo essere stato alla guida della Confindustria delle armi. Non ha un po’ ragione chi l’ha accusata di conflitto d’interessi?
«Qualcuno pensa che un giocatore dell’Inter che ha giocato nel Milan sia in conflitto d’interessi durante il derby e possa favorire la sua ex squadra? Il conflitto, casomai, esisterebbe se avessi continuato a fare le due cose insieme. Il “non conflitto” me lo sono fatto certificare formalmente e non da uno qualunque, ma dall’autority delegata al tema. La mia competenza in materia semmai è un vantaggio per il governo. Senza dire che solo io conosco i “segreti” della vecchia squadra».
Le fa paura il futuro?
«Mi fa paura il modo stupido in cui a volte lo affrontiamo. Mi fa paura quando, in un momento come questo, il tema della difesa comune europea viene liquidato strumentalmente utilizzando, come ha fatto Giuseppe Conte, una parola come “riarmo”, che è oggettivamente una parola brutta, respingente, usata per spaventare. Io parlo di difesa. Ma se qualcuno pensa che non dobbiamo difendere la nostra nazione, bene, che lo dica. Questo sarà il secolo delle grandi superpotenze: se non lo sei, se non ti prepari e se non ti leghi ad altri “piccoli” come te, saranno guai».
Le fanno ancora paura anche i magistrati?
«Rispetto la maggior parte di loro ma guardo i dati. I numeri sugli indennizzi per ingiusta detenzione dal 1992 a oggi dimostrano che in Italia, ogni giorno, dieci persone innocenti vengono arrestate e messe in prigione. Un amico, che ha letto le righe del mio libro dedicate ai giudici, mi ha pregato di toglierle con un’avvertenza: “Guido, tu lo sai che alcuni di loro sono cattivi e privi di scrupolo”. Le ho lasciate perché penso che chiunque detenga un potere debba essere libero di esercitarlo ma solo dentro i limiti della Costituzione. Mi fa paura quando un potere diventa onnipotente. Alcuni magistrati, pochi ma potentissimi, interpretano il loro mestiere come se fosse senza limiti. Alcuni di essi hanno invaso lo spazio altrui per produrre conseguenze politiche».
Come?
«Nel libro lo scrivo: Berlusconi, Craxi e Renzi sono stati i politici più perseguitati dalla magistratura. Come vedete non difendo solo i miei, come fanno alcuni. E aspetto sempre il giorno in cui qualcuno si prenderà la briga di confrontare i redditi dichiarati nei diversi decenni da esponenti della classe dirigente di questo Paese con il patrimonio, mobiliare e immobiliare, accumulato. Comincino pure dal mio».
Sta dicendo che qualcuno si è arricchito mentre la magistratura si voltava dall’altra parte?
«Anche durante la fase di Tangentopoli qualcuno non è stato mai neanche sfiorato dalle inchieste».
Si riferisce ai post-comunisti?
«Non solo a loro».
Erano giudici i genitori della sua prima moglie, Kamila, pallavolista ceca.
«Sì, ma giudici anticomunisti in un paese comunista».
Come vi conosceste?
«In una palestra a Savigliano. Veniva dalla Cecoslovacchia, che all’epoca stava fuori dall’Unione europea. Quando ci mettemmo insieme la cosa diede scandalo, soprattutto perché venivo da una famiglia in vista. “Che fai, sposi un’extracomunitaria?”: a molti benpensanti sembrava sospetto che una ragazza così bella volesse sposare un cesso come me. La sposai senza remore. E i fatti, nonostante la separazione e poi il divorzio, hanno dimostrato che facevo bene a non averne».
Tra le dediche del libro c’è sua moglie Gaia, «il mio amore, lo scoglio a cui aggrapparsi».
«Me ne innamorai appena la vidi. Mi sembrava impossibile che uno come me potesse piacerle».
Si sussurrò che lei, Crosetto, abbandonò il berlusconismo perché Gaia piaceva a Berlusconi. Falso?
«Sciocchezze. Quando io e Giorgia Meloni andammo da Silvio a dirgli che ce ne andavamo dal Pdl, lei la liquidò con un arrivederci mentre a me chiese di restare».
Ma che si fosse invaghito di sua moglie?
«Che Berlusconi a piacesse mia moglie l’ha detto mille volte lui stesso, persino a me. Per un certo periodo, io e lei ci separammo. Un giorno andai da Silvio e lui mi fece: “Guido, so che vi siete lasciati. Ma ti dispiacerebbe se…?”».
E lei?
«“Provaci!”, lo gelai. Replicò con uno dei suoi sorrisi: “Volevo solo vedere se eri ancora innamorato”».