Il Messaggero, 8 marzo 2025
Intervista a Kasia Smutniak
uando cadde il Muro di Berlino, Kasia Smutniak aveva 10 anni: «E all’improvviso scoprii i jeans, il sapore della Coca-Cola, i videoclip di Mtv, il Braccobaldo show e l’orso Yoghi». Kasia ha un padre «che è nato in una casa modesta al confine con l’Ucraina, da bambino sperava di guidare un aereo, sollevarsi in cielo e volare. Partendo da una condizione modesta si è laureato, ha realizzato il suo sogno ed è diventato generale dell’aviazione polacca». Kasia giocava tra i campi di grano e i carri armati abbandonati e in un mondo diviso in blocchi, si sentiva libera anche da ragazza. È rimasta tale perché non esiste confine più importante di quello che definiamo con noi stessi.
Cosa ha significato nascere in Polonia?
«Sono cresciuta a due passi dalle caserme. Ogni mattina mio padre mi portava a vedere l’alzabandiera. Certe esperienze fanno parte di me. Nella mia famiglia le parole più importanti erano responsabilità e disciplina».
Cosa è rimasto oggi di quel tempo?
«Anche se da ragazza tendi a superare le barriere, a fuggire lontano e a fare tutto il contrario di quello che ciò che ti consigliano i tuoi genitori, quelle parole hanno avuto e hanno ancora un’importanza profonda».
Quanto profonda?
«Profondissima. Il valore della responsabilità, crescendo, mi è sempre più chiaro. È una parola larga, responsabilità. Abbraccia il mondo, l’ambiente in cui viviamo e naturalmente noi stessi e le nostre azioni. Quanto alla disciplina, credo che averla sia l’unica maniera di evolversi davvero e di raggiungere il tuo obiettivo nella vita, qualunque esso sia».
La disciplina insegna a non accampare scuse?
«Mio padre domandava: “Hai fatto la spesa? Hai raggiunto l’obiettivo?”. Trovavo delle giustificazioni: “Non è passato l’autobus” e lui, con la massima calma, ribatteva: “quindi l’obiettivo non l’hai raggiunto”. La sua era una logica lineare e senza possibilità di equivoco. Con il tempo ho capito che alla fine la sintesi della vita è tutta lì, in quella domanda: “L’hai fatto o non l’hai fatto?”».
Lei ha fatto molte cose.
«Ho smesso di trovare delle scuse per non farle, questo sì. Mi è capitato quando mi sono trovata a girare Mur, il mio documentario, e in molte altre circostanze».
Quando si cresce davvero si cresce soltanto e principalmente da soli?
«Non credo. Amo l’incontro con gli altri, non vado pazza per fare le cose da sola e mi piace sia condividere che confrontarmi. Poi è chiaro che non dobbiamo mai dipendere da nessuno e nella costante tensione a dovercela cavare per conto nostro, in un certo senso, siamo soli per tutta la vita».
È una consapevolezza dolorosa?
«È una consapevolezza che dà forza, che mi è spesso servita nei momenti difficili e che forse è l’unico insegnamento che posso davvero tramandare ai miei figli: non aspettatevi che gli altri vengano ad aiutarvi, a salvarvi o a consolarvi. È una verità che restituisce sicurezza e ti suggerisce una cosa fondamentale: al centro della tua storia devi esserci tu».
A lei le storie sono sempre piaciute.
«Anche quelle inventate. Avevo un pappagallo. L’avevo chiamato Yul Brinner perché mi piaceva l’idea che quell’attore straordinario, quando concedeva un’intervista, colorasse la propria biografia e raccontasse a ogni giornalista una storia diversa. Si divertiva a riscrivere la sua vita un po’ come accade nel mio mestiere».