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 2025  marzo 08 Sabato calendario

Gene Hackman, l’Alzheimer e la solitudine: «La settimana più lunga e disperata. È morto perché incapace di alimentarsi e chiedere aiuto?»

Si sarebbe potuto salvare, almeno lui? Se n’è andato per il cuore ballerino o perché rimasto solo, in balia dell’Alzheimer, incapace di alimentarsi e di chiedere aiuto? È morto per cause naturali, come dicono, ovvero per mancanza di cure?
Adesso sappiamo che la settimana più lunga nella vita di  Gene Hackman è cominciata quando sua moglie Betsy Arakawa ha esalato l’ultimo respiro nel bagno di casa, una villa da 4 milioni di dollari in fondo a una strada chiusa dentro il residence chiamato Santa Fe Summit, nello Stato del New Mexico, dove i corpi senza vita dell’attore e della pianista sono stati ritrovati il 26 febbraio 2025. Lui 95 anni, lei 65. 
Venerdì 7 marzo le autorità hanno comunicato l’esito delle autopsie: «I decessi sono avvenuti per cause naturali». Titolo del New York Times: «Gene Hackman è morto una settimana dopo la moglie».
Cause naturali
Anche un uomo schivo come lui, una settimana così solitaria forse non l’aveva mai passata in quasi un secolo di vita. In effetti poche persone, forse nessuna, rimangono o dovrebbero rimanere per tanto tempo così isolate da tutto. Cause naturali, il caso è chiuso: con un certo, inconfessato sollievo per chi vede il mondo sempre pieno di violenze, auto-procurate o altrui, il giallo che per dieci giorni ha appassionato mezzo mondo si è risolto.
Non sono stati uccisi.
Non hanno scelto di morire.
Il bastone e gli occhiali da sole
«Cause naturali», ma distinte. Arakawa colpita da un virus respiratorio trasmesso dai topi. Mentre Hackman, secondo l’autopsia, soffriva di una grave patologia cardiaca ed era affetto dalla malattia di Alzheimer «in fase avanzata». Tanto avanzata da far dire all’anatomopatologa Heather Jarrell che l’attore «potrebbe non essersi reso conto della morte della moglie». Non abbastanza avanzata da costringerlo a letto: Hackman è stato trovato sul pavimento, in una stanzetta vicina alla cucina, con accanto un bastone da passeggio e un paio di occhiali da sole.
Già le indiscrezioni di alcuni giorni fa avevano evidenziato come il suo pacemaker avesse smesso di funzionare il 17 febbraio. La moglie è morta una settimana prima, sostengono le autorità, intorno all’11 febbraio: quel giorno ci sono prove che la donna era stata in farmacia e a fare alcune compere, prima di rincasare verso sera.
Da allora nessun movimento, nessun segnale o richiesta di aiuto: l’allarme è stato lanciato il 26 febbraio da un paio di lavoratori arrivati per una manutenzione, insospettiti dal silenzio e dalla porta d’ingresso trovata socchiusa.
La porta d’ingresso
Una settimana da solo, con la moglie caregiver morta in bagno e l’Alzheimer che gli impediva di trovare una via di uscita: telefonare a qualcuno, resistere, rifocillarsi (l’autopsia ha evidenziato che non c’erano resti di cibo nello stomaco). Trovare la porta d’ingresso e chiedere aiuto. O magari arrivare anche ad aprirla, senza poi avere il coraggio di varcarla.
Il disorientamento che porta con sé la demenza, la paura di un ambiente familiare diventato ignoto, l’incapacità di rendersi conto delle situazioni nelle fasi avanzate della malattia: sono gli scherzi bastardi con i quali hanno a che fare milioni di caregiver in Italia e nel mondo.
In questa storia, l’Alzheimer non ha avuto un ruolo da comprimario, ma centrale. È già tanto, vien da pensare, che Hackman abbia resistito così a lungo, una settimana, giorno e notte, nella casa dove era stato felice con Betsy e dove Betsy per tanto tempo deve averlo curato, all’insaputa (o nella dimenticanza) di tutti gli altri.
Com’è possibile che le due figlie e il figlio, attraverso l’avvocato, abbiano escluso categoricamente che avesse l’Alzheimer? L’hanno fatto per proteggere lui (ma non è mica vergognoso soffrire di una forma di demenza!) o giustificare la loro assenza?
Non sappiamo se sia stata fatta un’autopsia anche a livello dell’encefalo. In questo caso, l’analisi dell’ippocampo, lo scrigno della memoria che si fa più minuto nel corso della malattia, può dare risposte adeguate. È possibile che in casa avesse delle cartelle cliniche riguardanti il suo stato di salute? In ogni caso, secondo le autorità, la diagnosi è certa: «Alzheimer in fase avanzata». E siccome in questa storia l’Alzheimer è centrale, abbiamo chiesto aiuto al professor Marco Trabucchi, uno degli studiosi più illuminati nel mondo della cura delle persone con demenza. Ecco le sue riflessioni.
Betsy unica caregiver
«Apparentemente si è comportata come la tipica caregiver. Dopo la malattia del proprio caro gli altri componenti della famiglia si sono progressivamente allontanati, pur continuando a dichiarare verbalmente la loro vicinanza e il loro interesse (la solitudine del caregiver). Inoltre, Betsy non voleva aiuti da parte di amici o di personale a pagamento (come appare chiaro nella storia), potendo così esprimere l’unicità del suo legame con Gene, da non condividere con altri. Una domanda senza risposta: Betsy sapeva di essere ammalata e a rischio di morte? Se fortunatamente non lo era, non ha vissuto l’angoscia di alcuni caregiver che, quando si ammalano, sono disperati all’idea di privare il proprio caro della loro protezione».
Gene e la combinazione di più fattori
«Ha vissuto sette giorni da solo, senza badare a sé stesso e al cane. Nessuna alimentazione e certamente nessun farmaco tra quelli che doveva assumere. È morto così per la combinazione di più fattori: disagio complessivo (come e dove dormiva, come erano le sue condizioni igieniche, cosa ha fatto nel periodo di solitudine, tenendo conto che era certamente una persona biologicamente fragile), nessuna alimentazione (invece non è chiaro dalle notizie come sia possibile che non avesse segni di disidratazione). Quindi la crisi cardiaca è stata un cofattore in una condizione clinicamente già gravemente compromessa. Inoltre, chi può affermare che Gene non abbia vissuto sette giorni di disperazione perché la moglie non rispondeva e lui non aveva capito che era morta… Sette giorni sono un tempo lunghissimo, che desta angoscia anche nel medico!».
La solitudine
«Anche quella voluta, come sembra nel caso di Gene e Betsy, è sempre fonte di sofferenza. In che condizioni è stata trovata la casa dei coniugi? Per la privacy non lo sapremo, però non si deve dimenticare che i servizi di home care all’inizio sono rifiutati, spesso con grandi proteste, ma nel tempo – e non tanto lungo – l’atmosfera si rasserena e l’aiuto esterno diventa gradito e apprezzato, oltre che utilissimo. Ma ci vuole qualcuno che «inizi le operazioni», famigliare o servizi sociali. Probabilmente gli operatori rifiutavano l’idea che personaggi famosi avessero bisogno di aiuto, senza capire che il dolore e la sofferenza spesso si annidano anche nei luoghi apparentemente meno probabili».
Incubi e sogni
La settimana più lunga nella vita di Gene Hackman, gigante del cinema e hombre vertical nato a San Bernadino in California nel 1930, rimane piena di vuoti, punti interrogativi.
La morte «per cause naturali» non può essere accolta con sollievo. Tenendo conto delle esperienze di persone malate come lui, possiamo immaginare che l’attore di Mississippi Burning e di 100 altri film durante quei sette giorni abbia fatto chilometri in casa, o che sia rimasto seduto su una poltrona andando avanti e indietro seguendo il calendario degli anni che l’Alzheimer stravolge, riesumando un passato lontano come fosse nuovo di zecca: avrà forse aspettato l’impossibile arrivo del padre, Eugene, che lasciò la famiglia quando lui aveva tredici anni. O l’abbraccio della madre, Anna, morta nel 1962 nell’incendio dell’abitazione che lei stessa aveva involontariamente appiccato con una sigaretta. Avrà mescolato incubi e sogni, vivi e morti.
E di tanto in tanto, vogliamo credere senza disperazione, sarà andato nella stanza da bagno, a sincerarsi che la sua Betsy dormisse ancora.