Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  marzo 07 Venerdì calendario

Nella casa dove è nato Maradona: un posto in cui è difficile (se non impossibile) entrare

Forse Diego Armando Maradona non è morto. O forse è risorto, è difficile distinguere. Del resto è stato un calciatore, un rivoluzionario, un profeta, un filosofo, un uomo del popolo, probabilmente tutte queste cose insieme e molte, molte altre.
In Argentina, a Buenos Aires, è sicuramente un santo, o meglio un salvatore, l’immagine che muove il cuore del popolo, che non ha paura di parlare, di esprimersi. E ogni muro, ogni strada, ha un suo murale. Sono così tanti che sembra che ti stia sempre guardando.
Nella capitale argentina si sta ultimando la costruzione di un enorme mausoleo per celebrare il “Dio” Maradona, proprio vicino alla Casa Rosada, la residenza del presidente: sarà un luogo di culto per le celebrazioni e i riti, dove turisti e popolo potranno rendergli omaggio. Una sorta di mega chiesa sconsacrata. Aprirà, dicono, entro la fine del 2025. E a Rosario, già dal ’98, esiste la Iglesia Maradoniana, una setta che nel 2016 contava 200 mila adepti del Pibe de oro, come venne soprannominato a Napoli – per il popolo argentino, invece, Maradona è sempre stato El Pelusa, il capellone.
Nella notte degli zombi
Qui a Buenos Aires ci sono numerose agenzie che organizzano tour nella casa, nel quartiere della Paternal, in cui Diego ha vissuto con la famiglia dai quattordici anni in poi, quando cominciò a trasformarsi nel Dio del calcio.
Pochi, invece, conoscono il luogo in cui Diego è nato. E in pochissimi hanno potuto anche solo vedere dall’esterno la baracca di lamiere dove ha vissuto. Quasi nessuno è entrato all’interno, lì, dove passava le giornate insieme a sua madre, Doña Tota, al padre Don Diego, ai suoi due fratelli e cinque sorelle. Per arrivarci bisogna raggiungere Villa Fiorito, un barrio chiuso in un perimetro immaginario in cui entra solo chi ci abita, una delle tante favelas che accerchiano quella che viene chiamata la Gran Buenos Aires, provincia della Capital Federal. Villa Fiorito dista 23 chilometri dal centro, verso sud-ovest, in uno spazio di strade e di ponti che sembrano terra di nessuno, e che quando scende la notte si trasforma in terra di zombi che si aggirano disperati in un dedalo di cemento e murales, carretti e campi di calcio, negozietti di empanadas e l’odore perenne di carne e polvere.
Ad accompagnarmi in questo viaggio c’è Gavi, nato e cresciuto nel barrio, tutti lo conoscono e lo salutano. Si muove lentamente, ha la stessa età che avrebbe avuto Maradona se oggi fosse vivo, 64 anni. Parla piano, indossa un cappellino e mi racconta di quando giocava con Diego, a cinque anni lo vedeva fare cose straordinarie, palleggiare con qualsiasi cosa trovasse per terra. Per arrivare alla baracca in cui Maradona è nato, bisogna attraversare tutto il quartiere, compreso il campo in cui El Pelusa ha iniziato a tirare calci al pallone: era un quadrato di terra, ora è diventato un terreno grande quanto un vero stadio e tutt’intorno decine di murales che rappresentano Diego in ogni momento della vita, ragazzo e adulto, calciatore e allenatore, in bianco e nero e a colori.
Di qui non si passa
Quando arriviamo, qualcuno sta lavorando a due murales, mentre una bambina con il cappello dell’Argentina scorrazza per un campo. Quattrocento metri più avanti, sulla sinistra, vicino a un albero piegato in avanti e a un muretto di mattoni, c’è la baracca della famiglia Maradona. Un murale di Diego, con la maglia dell’Argentina. E la scritta: La casa de D10S. Davanti alla porta della baracca c’è un pezzo di terra, e un cancelletto chiuso con una catena e del filo spinato intrecciato.
Nessuno può entrare se non lo decide Javier, un omone alto e con una cicatrice che gli attraversa il volto. È lui che si è impossessato della casa. Per visitarla ci vuole il suo permesso e bisogna pagare. Ma non basta il denaro, gli devi anche essere simpatico. Non è un luogo in cui possano venire turisti o curiosi, è rischioso avventurarsi nei vicoli di Villa Fiorito se non la si conosce o non si è accompagnati da qualcuno del posto.
Per mia fortuna Gavi conosce Javier fin dall’infanzia, e quando si vedono si abbracciano con affetto. Parlano tra loro per qualche minuto, poi Gavi mi fa cenno che possiamo entrare. Il costo per la visita è di “soli” 50 euro, una mancia in confronto a quello che Javier chiede normalmente.
Una cartina del mondo
Ho come la sensazione di varcare la tomba di un faraone. Tutto sembra essersi fermato nel tempo, a quel 30 ottobre del 1960 quando alle 7 del mattino Doña Tota partorì Diego Armando. Le pareti scrostate color celestino chiaro, e il pavimento di cemento rossastro, avvolgono una piccola stanza di qualche metro con al centro un tavolo di legno coperto con una tovaglia bucata, beige. Sopra la tavola c’è una piccola candela consumata e una padella sporca di sugo; in alto, sul muro, un gagliardetto di quando Maradona giocava nell’Argentinos Junior e una vecchia stufa; sulla sinistra una stanza senza porta, leggermente più grande, con due letti e un divano verde, divorati dalla polvere del tempo: ci dormivano in otto, uno sull’altro, Maradona e i suoi fratelli, come nella cella di un carcere sovraffollato.
Quasi ogni mobile, quasi ogni oggetto, è rimasto com’era, come in una sorta di casa-museo. Javier ci vive ormai da parecchi anni ma non ha toccato quasi nulla. Un po’ per un senso di rispetto, un po’ perché è così che gli può fruttare soldi.
Sul muro c’è appesa anche una cartina del mondo, sicuramente “nuova”, qualche foto appoggiata alla parete dove il grigio del cemento si è unito al celeste di una vecchia pittura, e una scritta nera di cui non colgo il significato. Sul divano, stropicciati, panni sporchi e due cappellini, sul pavimento delle scarpe consumate – non da Diego, da Javier.
Accanto alla camera da letto dei ragazzi, un’altra stanza, parecchio più piccola, in cui dormivano i genitori – ma ora è soltanto un ammasso di ruderi.
Fuori, ma nella parte interna della baracca, c’è un minuscolo giardino con l’erba alta e in fondo una pila di mattoni per nascondere quello che era il bagno, una tazza sporca senza scarico. Qui ha vissuto Diego prima che diventasse Maradona.
Uscendo, penso a come possa essere riuscito a diventare il più grande calciatore della storia nascendo in questa baracca dimenticata, in questo quartiere povero di Buenos Aires. La visita, in tutto, è durata meno di mezz’ora, e quando saluto Javier ho come l’impressione di aver superato una linea magica, un luogo quasi segreto che contrasta con il super mausoleo in costruzione. Un po’ come è stata la vita di Diego Armando Maradona, un perenne contrasto, anche da morto – se poi è morto per davvero.
Lasciamo Villa Fiorito che sta arrivando lentamente la notte. Le strade si trasformano, sono già terra di nessuno, il vento fa volare via il cappello di Gavi.