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 2025  marzo 06 Giovedì calendario

A marzo del 1943 ci fu il più grande sciopero antifascista della storia italiana

Ci voleva coraggio per scioperare in tempo di guerra e proprio in quelle fabbriche metalmeccaniche che erano il cuore della produzione bellica. E ci voleva un coraggio che rasentava la follia a scioperare contro Mussolini e contro il fascismo dopo che, per venti lunghissimi anni, lo sciopero era stato abolito per legge insieme alla serrata, immaginando così di spuntare le asprezze maggiori di un conflitto sociale, quello tra operai e padroni, che era invece geneticamente inscritto nel tipo di organizzazione del lavoro che caratterizzò il Novecento. E infatti quel conflitto rispuntò fragorosamente nel marzo del 1943 cogliendo di sorpresa il regime e facendo imbestialire Hitler.
I fatti sono noti. A partire dal 5 marzo e, in alcuni casi, con agitazioni che si prolungarono almeno fino al 12, le principali fabbriche del Nord, in particolare quelle ubicate nel “triangolo industriale” Torino-Milano-Genova, furono attraversate da una febbre di mobilitazione politica che sfociò in una serie ininterrotta di scioperi.
In partenza, le motivazioni delle lotte erano tipicamente economiche: si chiedeva la corresponsione a tutti gli operai di una indennità, pari a 192 ore di salario, che il regime aveva inizialmente previsto di concedere solo a quelli che erano “sfollati” a causa dei bombardamenti; una rivendicazione salariale che però aveva insita in sé la molla dell’egualitarismo, un valore particolarmente caro alla classe operaia di allora e molto sentito in un paese stremato da una guerra sempre più rovinosamente vicina, con condizioni di vita rese precarie anche dallo schizzare verso l’alto dei prezzi dei generi di prima necessità e con i salari (e gli stipendi) che non erano più sufficienti a fronteggiare il peso insostenibile di una “borsa nera” che, soprattutto per le derrate alimentari, il regime si era rivelato incapace di combattere.
Gli storici hanno dato il giusto peso politico agli scioperi del marzo 1943, inquadrandoli soprattutto in relazione agli aspetti più strettamente legati all’andamento della guerra, così da indicarvi la certificazione del crollo di quello che si chiamava il “fronte interno”: si incrinò per sempre il consenso popolare alle scelte militari degli stati maggiori una risorsa che, in una guerra totale, era strategicamente importante almeno quanto la condotta delle operazioni militari al fronte.
In realtà quegli scioperi furono molto di più di un campanello di allarme per il regime. È vero che ne affrettarono la fine, imprimendo una brusca accelerazione a quella che i fascisti chiamarono “la congiura monarchico badogliana” e che avrebbe portato alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, ma la loro portata fu ancora più dirompente e non può essere spiegata soltanto con la dinamica salariale legata alla congiuntura bellica. Gli operai, in quello stesso 1943, scesero in lotta in agosto (durante i “45 giorni” badogliani, quindi) e in novembre, (quando il nord era ormai occupato dai nazisti e Mussolini aveva dato vita alla Repubblica sociale): sotto tre regimi politici diversi le agitazioni continuarono confermando che le lotte del marzo 1943 non erano state una casualità e che gli operai in quell’occasione, oltre che a riappropriarsi dell’arma dello sciopero, avevano ritrovato nelle fabbriche il centro della loro organizzazione politica e sindacale, con delle scelte nette il cui peso li avrebbe accompagnati in tutto lo scontro di classe che caratterizzò la storia della nostra Repubblica almeno fino agli anni Ottanta del Novecento.
Oggi ci sembra impossibile, eppure, proprio grazie alla forza accumulata dalla Resistenza in poi, ci fu un tempo in cui se gli operai della Fiat Mirafiori scioperavano, cadevano i governi (stiamo parlando dei primi anni Settanta), quella forza fu chiamata dai sociologhi “centralità operaia” e parlarne oggi sembra come raccontare la favola di un’epoca lontana e passata per sempre, di un Novecento “secolo delle ciminiere”, delle fabbriche che fumavano, con migliaia di dipendenti, tutti fisicamente raccolti nello stesso spazio fisico per lavorare, ma tutti anche che abitavano in quelle “case di ringhiera” dove le sveglie “suonavano alla stessa ora” e l’esistenza era scandita dai ritmi della produzione fordista.
Ritornando agli scioperi del marzo 1943, il loro impatto fu tale da imprimere un carattere specifico alla Resistenza italiana nel contesto di quella europea: la “guerra per bande” fu comune a tutti i Paesi che subirono l’occupazione nazista; la coppia Resistenza/Collaborazionismo rappresentò i due fronti ideologici che si scontrarono nelle varie guerre civili, mettendo contro italiani e italiani, francesi e francesi, belgi e belgi (Pètain e De Gaulle, Mussolini e Parri, per intenderci) in una ferita che stentò a rimarginarsi in tutta Europa.
In Italia, e solo in Italia, però, alla lotta armata si aggiunse la mobilitazione degli operai: gli scioperi del marzo del 1943, quello preinsurrezionale del 18 aprile 1945, stanno a dimostrare una continuità, un protagonismo che non si esaurì in una fiammata episodica ma che attraversò tutti i venti mesi della Resistenza. Oggi, a 80 anni dal 25 aprile 1945 e dalla fine dell’incubo di quella guerra, vale la pena ricordarlo: non c’è più un partito di quelli che allora “fecero la Resistenza” guidandola, e gli operai hanno smarrito per sempre il ruolo egemonico che seppero conquistarsi nelle fabbriche: è vero.
Eppure, senza le loro lotte non ci sarebbe stata la Repubblica e non avremmo avuto la Costituzione. La centralità operaia non fu solo una formula sociologica.