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 2025  marzo 06 Giovedì calendario

Amato: “Ci siamo meritati Trump, la Ue può salvare l’Occidente”

«Trump sta travolgendo l’Occidente con la forza impetuosa di un ciclone, ma potevamo prevederlo e soprattutto evitarlo. Ce la siamo voluta. E ora diamoci da fare per uscirne». Giuliano Amato confessa il suo turbamento davanti a un’America che si allea con gli imperi autoritari, umiliando davanti al mondo il presidente del paese invaso. «Siamo finiti in un incubo, certo. Però, essendo molto vecchio, più che il tempo breve del presente vivo il tempo lungo della storia perché ce l’ho tutto dentro di me: è da qui che mi sento di muovere una critica a noi democratici».
La fine dell’Occidente è un tema quotidiano di riflessione, insieme a un’altra fine che divide oggi le coscienze, producendo una paralisi in Parlamento. «Sul suicidio assistito abbiamo bisogno di una legge nazionale che, nel rispetto dei principi sanciti dalla Consulta, organizzi una procedura uniforme in tutto il paese: non un passo oltre le condizioni poste dalla Corte, né un passo indietro».
È finito l’Occidente, professor Amato?
«Me lo domando ogni giorno. Ma non dobbiamo commettere l’errore di far coincidere gli Stati Uniti con Trump. Lui si muove da sovrano assoluto e capriccioso, ma c’è chi gli ricorda – come la governatrice dello Stato di New York Kathy Hochul – che da 250 anni New York non è governata da un re. E gli americani non sono disposti a tollerarlo».
Perché dice che ce lo siamo meritati?
«Perché il ciclone Trump era prevedibile. E qui chiamo in causa anche la responsabilità di convinti democratici come me che negli ultimi cinquant’anni hanno sostenuto qualsiasi battaglia progressista senza rendersi conto per tempo della crescente distanza, talvolta eccessiva, rispetto ai valori tradizionali che tengono unite le nostre società. Questo vale sia per il nostro paese che per gli Stati Uniti. Da noi un profeta inascoltato è stato Pier Paolo Pasolini: già nel 1975 ci metteva in guardia con la sua invettiva sulla scomparsa delle lucciole».
Ma non si può rimpiangere una civiltà contadina paleocapitalistica.
«Certo che no. Ma bisogna sapere che quei valori reazionari sopravvivono nelle strutture profonde delle società. In America, proprio nello stesso decennio dei Settanta, abbiamo assistito a un cambiamento di passo. Fino a quel momento l’americanizzazione era fondata sull’assimilazione: io ti accolgo figliolo caro purché tu ti modelli sull’uomo bianco wasp. Poi è subentrata la rivendicazione identitaria di ogni più piccola minoranza e di qualsiasi diversità. E a queste rivendicazioni hanno corrisposto le azioni affermative del diritto che, in nome dell’eguaglianza, tutelano le minoranze in modo diseguale, con una moltiplicazione irrefrenabile delle quote. E sa che succede al proletariato americano bianco e incolto, spossessato di tutele che riteneva ereditarie?».
Crescono rabbia e frustrazione.
«E qui arriva Trump, capace di intercettare l’insoddisfazione fino a diventarne un interprete chirurgico: in pochi giorni ha distrutto tutto ciò che è Dey, Diversity Equity and Inclusion. Una cosa orrenda. Ma mentre nel paese montavano questi umori rancorosi, i democratici dove stavano? Forse dagli attici di Manhattan, dove le quote non arrivano mai, la realtà sociale appariva molto distante».
Il problema è ora che Trump non vuole abbattere solo l’ideologia woke, ma i pilastri della liberaldemocrazia.
«Questo è il tema centrale. Perché una democrazia liberale non viene meno se accettiamo libertà più limitate e una qualche convivenza con i valori tradizionali. Viene meno invece quando sono cancellate le regole che, in difesa dei cittadini, limitano l’esercizio del potere privato: oggi Trump ci mette nelle mani del più gigantesco potere privato che la storia abbia mai conosciuto! Per le Big Tech democrazia e libertà sono concetti inconciliabili, perché le regole impediscono il loro arbitrio. Terrificante».
L’Occidente democratico riuscirà a resistere?
«I cicloni possono distruggere il paesaggio oppure passano senza procurare danni irreparabili. Al momento la velocità è impressionante, ma vari segnali mi fanno confidare in un ciclone del secondo tipo. Con una sola certezza: la sopravvivenza dei valori democratici dipende largamente dall’Europa».
Cosa deve fare?
«Quello che in tanti dicono, ma nessuno ha avuto la capacità di realizzare: una difesa e una politica estera davvero comuni per sedersi al tavolo del governo del mondo, dove sono invitati pochi attori. E se è impossibile farlo con tutti i ventisette paesi dell’Unione, dovrà farlo con un nucleo più ristretto. Tra gli effetti positivi del ciclone potrebbe essere la spinta a ricompattare la difesa europea recuperando la Gran Bretagna».
Anche l’Italia oggi è chiamata a erigere barriere in difesa della liberaldemocrazia. Può farlo una premier che non ha quei valori nel suo Dna?
«A me pare che la presidente Meloni lo stia facendo, schierandosi dalla parte di Zelensky. Non sembra che sia nelle condizioni di potersi sottrarre all’impegno comune europeo. E bisogna darle atto, nel suo intervento alla convention dei conservatori americani, di aver parlato di “aggressione russa”, una formula scomparsa dal loro vocabolario».
Dobbiamo accontentarci? Non occorrono parole più chiare?
«Ho l’impressione che Trump non lasci ampi margini per il confronto. Perché se è vero che il ciclone potevamo anticiparlo, non era prevedibile l’eccentricità caratteriale di chi lo guida: un presidente bizzoso, irascibile, anche vendicativo – tratto inedito nella storia della democrazia. La cacciata di Zelensky dalla Casa Bianca è stata impressionante. Certo è che l’intera classe politica italiana si trova oggi davanti a una sfida molto alta: deve dimostrare di esserne all’altezza, con un piano di politica estera bipartisan».
Oggi non riesce neppure a fare una legge sul suicidio assistito, nonostante le sollecitazioni della Consulta.
«Una legge nazionale è necessaria, proprio per evitare disparità territoriali. E non occorre che i diversi partiti si addentrino in discussioni valoriali. La legge toscana si attiene ai quattro criteri stabiliti dalla Corte costituzionale, ma solo lo Stato può assicurare uniformità di trattamento, ad esempio collegando i comitati etici territoriali attraverso un comitato nazionale – composto dai loro rappresentanti – che fornisca linee guida comuni».
Al Cortile dei Gentili, luogo di incontro tra credenti e non credenti, siete riusciti a trovare un accordo tra sensibilità diverse.
«Abbiamo evitato di contrapporre due principi inconciliabili – l’autodeterminazione e l’indisponibilità della vita – per mettere al centro un fattore comune che è la pietà umana. Ci siamo interrogati su che cosa sia la vita, quando si verificano le condizioni enunciate dalla Consulta: l’irreversibilità della malattia, la sofferenza non lenibile, la dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale. Neppure quando viene meno la speranza, non c’è più un progetto di vita, i giorni sono scanditi solo dalla sofferenza e dall’attesa della morte, si può avere aiuto per morire?».
Anche i cattolici del Cortile dei Gentili pensano che in questi casi sia lecito il suicidio assistito?
«Alcuni hanno condiviso il documento finale, anche se considerano il suicidio un fallimento. Ma un fallimento dettato non dal principio che la vita è un bene indisponibile e soltanto Dio può togliercela, piuttosto dal fatto che dovremmo stare vicini al malato, facendogli sentire che conta per noi. Quindi, anche se si rispetta la sua decisione per il suicidio assistito, questa scelta è una sconfitta per tutti. Padre Francesco Occhetta lo dice spesso: ma chi ha messo in giro la convinzione che l’indisponibilità della vita sia un principio assoluto della nostra religione? E, allora, i santi e i beati che sacrificarono le proprie vite per gli altri?».
Lei insiste molto sul pericolo del “pendio scivoloso”.
«Sono contrario all’idea di allargare la possibilità del suicidio assistito ai depressi, una posizione sostenuta da Massimo Ammaniti. Esiste una fascia di pazienti vulnerabili, persone sofferenti sul piano fisico e psichico, che i famigliari potrebbero avere interesse a sopprimere: per levarseli di torno o per ereditare. Purtroppo c’è anche questo! La preoccupazione è quella di non abbassare il “sensorio morale” collettivo, come lo chiamava Habermas».
Quindi la legge dovrebbe rispettare i criteri della Consulta, senza aggiungere ma neppure senza togliere. Il senatore forzista Zanettin ha proposto una mediazione tra i diversi disegni di legge imponendo l’obbligatorietà dei trattamenti palliativi.
«L’obbligatorietà ci dovrebbe essere per il Servizio sanitario nazionale, che non sempre è in grado di garantire queste cure fondamentali. Mi convince meno l’obbligo per il paziente: per alcune patologie sono trattamenti ininfluenti. A chi è contrario alla legge vorrei ricordare un dato statisticamente dimostrato: un malato assistito con cura, accolto nella sua richiesta di ricorrere al suicidio, il più delle volte muore naturalmente. La libertà di fare una cosa dà serenità e può distogliere dalla decisione più drastica».
Quello sancito dalla Consulta è un diritto: il diritto al suicidio assistito?
«No. La Consulta ha sancito la non punibilità – a determinate condizioni – di chi aiuta un paziente a morire. Perché dobbiamo rivestire ogni facoltà che ci viene riconosciuta con i pesanti panni del diritto? Guardi che il successo di Trump deve essere letto come reazione a un proliferare incontrollato di diritti».
Tornando al ciclone, lei non sembra spaventato.
«Preferisco concentrarmi sui potenziali argini, prodotti dallo stesso Trump. Intanto la scure scagliata sull’impiego pubblico sta generando nuovi malumori. E, secondo le stime degli economisti, la politica dei dazi produrrà un’inflazione molto alta, i cui effetti si riverbereranno ovunque. Non sottovalutiamo poi il potere delle Corti a cui arriveranno le contestazioni ai decreti firmati dal presidente: non è detto che si schierino con lui. Un altro ostacolo lo vedo nella generazione dei ventenni, che prendono molto sul serio il cambiamento climatico. Non credo che siano disposti a votare chi ha azzerato il green deal».
E gli effetti sugli equilibri internazionali?
«Ma è sicuro che le concessioni allo zar russo, con l’intento di separarlo dalla Cina, abbiano come effetto il rafforzamento degli Stati Uniti e non il contrario? Guai se alla fine di questa scombinata diplomazia i propugnatori del Make America Great Again si ritrovassero con un’America rimpicciolita».
Ha mai la sensazione di essere finito in un film distopico?
«Mi ha molto colpito il sostegno dei nostri Liberatori – l’America che più amiamo – ai neonazisti nel cuore dell’Europa. Per persone della mia cultura, più delle distopie vale il richiamo di Bertolt Brecht ne L’Opera da tre soldi: il mondo nelle mani dei Mackie Messer, predatori senza principi. Ma non dobbiamo scoraggiarci. I tempi lunghi della storia sono dalla nostra parte».