Corriere della Sera, 6 marzo 2025
Dopo l’Ucraina la Russia si sentirà autorizzata ad attaccare altri Paesi?
Quando scrisse la sua testimonianza sulla Rivoluzione russa del 1917, il giornalista americano John Reed la intitolò «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Ma dopo la prima telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, ogni giorno sembra essere una rivoluzione, o uno sconvolgimento del vecchio ordine mondiale, ammesso che ancora ne esista uno. In questo vortice continuo, rischiano di andare persi alcuni dettagli importanti.
Il Financial Times è da poco venuto in possesso di un documento del governo di Mosca, risalente allo scorso aprile, presentato dal primo ministro Mikhail Mishustin durante una riunione informale con pochi ma fidati ospiti, come Sergey Karaganov, fino a pochi anni fa curatore dell’immagine del presidente russo e convinto sostenitore dell’uso del nucleare contro i paesi europei, e il noto filosofo ultranazionalista Alexandr Dugin.
Aprile 2024, dunque. Non era ancora successo niente. Trump era lontano dal ritorno alla Casa Bianca, l’Operazione militare speciale era impantanata, il rublo si inabissava, e nessuno poteva immaginare che Vladimir Putin sarebbe tornato a essere interlocutore privilegiato di Washington. L’analisi presentata dal governo russo esprimeva il «concreto timore» che le sanzioni occidentali stessero scavando un solco troppo profondo con i Paesi della «macroregione russa». In buona sostanza, si spiegava come la leva del denaro e degli scambi commerciali si stesse bloccando, e in questo modo si allentasse la presa che la Russia ha sempre avuto sui Paesi dell’ex Unione Sovietica.
Cambiano in fretta, le cose. Adesso, forte di un ritrovato status da superpotenza che gli è stato conferito da Trump, la Russia può immaginare nuovamente un mondo diviso in sfere di influenza, come ai vecchi tempi dell’Urss. Perché il sogno del Cremlino è sempre stato quello. Ritrovare un potere perduto con la dissoluzione dell’impero sovietico, esercitarlo in una forma neppure troppo «soft» nei confronti dei Paesi che ne fecero parte. Con l’economia, con le cosiddette ingerenze, sempre inseguendo il filo della comune lingua russa, ultimo retaggio dei quasi cinquant’anni vissuti da cortina di ferro.
«Perché non creare una coalizione militare tra noi e gli Usa e dividerci l’Europa?» si è chiesto pochi giorni fa il celebre propagandista televisivo Vladimir Solovyov durante la sua trasmissione televisiva in prima serata. Non è tanto il contenuto bislacco della frase che conta, quanto l’averla pronunciata, solleticando la pancia della Russia profonda. All’improvviso, si può tornare a sognare l’Impero perduto.
I siti filogovernativi abbondano in questi giorni di presunte indiscrezioni su piani segreti dei vertici russi, secondo i quali Putin intenderebbe proporre a Trump un «deal del secolo» per la spartizione delle zone di influenza, una nuova edizione di Yalta 1945. «Lo scopo è quello di allontanare l’Occidente dallo spazio post-sovietico legalizzando il dominio di Mosca in cambio di concessioni nei settori strategici. Washington è pronta a rassegnarsi all’egemonia russa nella CSI (Comunità di Stati indipendenti formatasi dopo lo scioglimento dell’Urss). Trump vorrebbe concentrarsi sulla Cina e Medio Oriente, per lui l’Ucraina è un fardello e le sanzioni antirusse un colpo alle corporazioni americane». Alcuni arrivano persino a prevedere l’iniziativa di annullare giuridicamente l’accordo della foresta Belovezhskaya che nel dicembre 1991 sciolse l’Urss. «Questo creerebbe la base legale per far restituire gli asset delle ex repubbliche sovietiche sotto il controllo di Mosca, di fatto la rinascita dell’Urss in un formato nuovo».
Al momento, nient’altro che pensiero magico ben lontano dal diventare realtà. Ma non è difficile immaginare lo stato d’animo odierno di molti Paesi in qualche modo vicini alla Russia. Se esiste uno Stato che più di ogni altro assumerà nei prossimi anni lo status di canarino nella miniera, quello non è la Georgia, che ha già un governo filorusso. Ma è il più piccolo di tutta l’ex Unione sovietica. La Moldavia continua a esser divisa a metà tra l’eredità sovietica e una affinità culturale romena, quindi europea. Povera, ma fondamentale per una eventuale egemonia sul Mar Nero. Il governo di Chisinau continua a denunciare i finanziamenti misteriosi che hanno quasi sabotato il referendum che chiedeva di inserire nella ancora giovane Costituzione il sì all’Unione europea. L’ingerenza più grande avvenne nel 1991 con la creazione della Transnistria, lo Stato riconosciuto solo da Mosca, che al suo interno mantiene una grande guarnigione militare. In questi giorni, le truppe russe di stanza a sessanta chilometri da Chisinau, hanno cominciato a fare esercitazioni con droni «offensivi» e nuovi carri armati.
Ogni volta che si parla di ingerenze e influenze in altri Paesi, il portavoce del Cremlino li definisce come deliri occidentali. Aveva detto lo stesso anche a proposito dei progetti russi di invasione dell’Ucraina.