La Stampa, 5 marzo 2025
Intervista a Sergio Caputo
Il folletto del jazz, dello swing, del pop, della musica d’autore e di chi più ne ha (avute) non ne mette perché se Sergio Caputo dà i numeri fate i bravi e leggete. Non c’è confronto. Venti album e i concerti non riesce a contarli manco lui. Per record o giù di lì vedi, anzi leggi, anche alla voce eclettismo. Cantautore e musicista e scrittore e pittore e poeta e art director pubblicitario.
In una parola. Artista. Completo. Poi c’è il personaggio. Simpaticissimo. Tanto da dover chiedere scusa ai lettori e a lui perché in quasi due ore di intervista qualche appunto si è perso. Colpa o merito del folletto che parla veloce e tanto quasi quanto suona e produce.
Di quegli anni Ottanta sicuramente sono rimaste canzoni che pure le generazioni di oggi canticchiano anche se sono troppo giovani per farlo allo specchio mentre si tagliano la barba. “Un sabato italiano”, la prima volta che non si scorda mai, era l’anno dopo del “campioni-del-mondo-campioni-del-mondo-campioni-del-mondo”, fu un temporale sulla musica italiana. Successo strepitoso. Secondo Rolling Stone, il top del giornalismo musicale, trattasi di brano tra i migliori di sempre. Urca. Ma non finisce qui, anzi. Dopo ci sono state astronavi che arrivano, garibaldi innamorati, sogni erotici sbagliati, egomusicocefali, citrosodine granulari e altre duemilacinquecentotrentaquattro “cose”. E ci catapultiamo a oggi. Ma “Mai dire mai”, esattamente come James Bond e Sergio Caputo, non si può scrivere. Perché ne arriveranno altre, di nuove canzoni, dopo questa che già vola nelle piattaforme digitali.
Intanto bentornato. Come sta?
«Molto bene, grazie. Mi sono trasferito in Francia da otto anni dopo aver riprovato a vivere nella mia città, Roma, con la mia nuova moglie e due bambini ma è impossibile. Con i passeggini, tra marciapiedi sconnessi, le radici degli alberi, gli scivoli che non esistono, le scuole e gli asili nidi messi male, i parchi in condizioni disperate… insomma lasciamo stare. Ora vivo meglio, dove sto non ho il peso di essere conosciuto anche se non sono certo famoso ma non voglio che i bambini crescano in un mondo fintamente amichevole. Vorrei avessero una vita normale, anche se vengono ai miei concerti dal lato palco in Italia e ballano e si divertono».
Il ritorno ha una data. 31-1-25. E, guarda e vedi e ascolta un po’, c’è un Caputo felliniano come c’era una volta.
«Eh. Sono rimasto legato al cinema, anche se poi ho fatto il musicista ma il cinema mi ha influenzato. Intendo il cinema dei Fellini, Antonioni».
Perché soltanto un singolo?
«Come si sa l’industria discografica cambia drasticamente. Oggi fare un album non ha senso. I pezzi vanno online da soli. Anche allora se facevi un album era un miracolo se sentivi una canzone e le altre finivano nel dimenticatoio. Anche noi cantanti e musicisti buttavamo dentro due pezzi belli e il resto era così, tanto per completare. Poi è morto il diritto d’autore e allora ciao. Peccato perché ci contavo per vivere con quello… Resta davvero solo il live ma è vero che si sparisce se non si fa un singolo ogni spesso. Però ho un album sinceramente bellissimo, farò uscire un pezzo alla volta, d’altronde facevano così anche gli Stones e i Beatles. Stiamo tornando all’inizio».
Lei ha sempre fatto di tutto. Anche nella vita di tutti i giorni, ci risulta. Si mormora che in quanto a droghe e alcol…
«Mai negato. Anzi. Ho provato tutto tranne eroina e Lsd. Poi ho avuto un infarto. E infatti dovrò curarmi per tutta la vita ma non mi pesa. Mi sono abituato. Già dalla prima colazione piglio pillole a gogò. Faccio controlli meno spesso di quanto dovrei, ma mi alleno in casa, ginnastica normale, manco vado in bici perché se cado mi devono ricomporre. Eh, fino a diciotto anni non mi sono regolato. Ci ha pensato mia moglie Cristina a darmi una regolata. Tocchiamo un tasto divertente e… stupefacente, appunto (ride). Una parte dei miei fan si stupisce ai concerti. Ricordano il ragazzino di “Sabato italiano” e la cosa mi diverte e mi lascia perplesso. Il tempo passa per tutti. Anzi, un artista matura, diventa più bravo a gestire il palco».
Sergio Caputo nel 1983 sulla cover di “Un sabato italiano”
E gli “effetti speciali”? Questa è una citazione sua.
«Ah, non me la ricordo. Lo fa mia moglie che parlando butta lì frasi delle mie canzoni per vedere se le ricordo. Sta cosa mi ricorda Max Tortora quando imitava Califano. Pensa che si incazzava così tanto che un giorno lo querelò. Poi diventarono amici e facevano lunghe passeggiate sul lungotevere. Max cantava i suoi pezzi e lui diceva: “Ma che è sta roba qui” (Caputo fa la voce tipica del Califfo). Sto facendo la stessa fine. Ma su sto tema il numero al mondo di sempre era Aznavour. Aveva scritto più di milleduecento canzoni, se le ricordava tutte. Mi ritorna in mente quando vedo certi testi attuali scritti da dieci persone. Ma come è possibile? Che fanno, mettono nero su bianco una riga per uno? Ma dai, ma per favore...».
Ha fatto pure il vignettista.
«Un secolo fa. Con Disegni, Vauro e altri per Paese Sera. Poi mi sono stufato».
Musica e testi. Si può definire immaginifico il suo stile?
«Boh. Di sicuro molte sono state definite così e classificate come surreali. Ma il mio linguaggio autorale è totalmente fedele a cose vere e personali. Mi sono pure vestito spesso come i surrealisti. E nei vari video ci sono parecchie citazioni chapliniane. Io sono uno spirito libero».
Ascolta la radio? E le hanno mai chiesto di fare il giurato in un talent?
«La prendo larga e devi starmi a sentire. I talent li ho visti nascere negli Usa quando vivevo là ma allora avevano senso, soprattutto lì, per le dimensioni della nazione. In Italia fa ridere, siamo il paese con il numero di cantanti procapite più alto del pianeta. Eppure i talent sopravvivono solamente da noi. L’inizio della fine in parallelo con lo streaming. Guarda, ho avuto fortuna di incontrare Steve Jobs quando puntò sull’mp3, il sistema di decodificazione inventato da un italiano negli Stati Uniti. Il genio arrivò a venticinque mila download in due giorni, dopo è nato Napster, un sistema pirata, quindi Apple, iTunes, l’Pod».
Anche esperto di tecnologia.
«Ah, ah, ah. Avevo un’etichetta indipendente, tra le pochissime a essere invitata a Cupertino alla presentazione dell’ennesimo miracolo tecnologico e facemmo un contratto esclusivo. Potevo caricare quello che volevo. Se io faccio uno spot musicale pubblicitario prendo un pacco di soldi. Se, invece, mi promuovono una canzone come da tradizione comandava fino a poco tempo fa guadagnano niente. Quindi arrivederci e grazie. Tanti anni fa ci fu un pesante braccio di ferro tra radio e case discografiche ma hanno perso quest’ultime. Non è vero il contrario, come si dice e scrive a sproposito. Le radio per non promuovere un prodotto nuovo mandano musica vecchia. Certo, se non mandano Vasco o altri perdono di credibilità. E che cosa ci guadagnano le case Spotify e roba simile? Facile. Non devono più registrare e pagare dischi, non devono distribuirli, non hanno bisogno di fare promozione…. Quindi si punta sul live. Ma non può durare per sempre. Quindi serve comprare tutti i cataloghi di artisti storici ed ecco la vera ricchezza. Il mio catalogo l’ho ceduto alla Sony, per dire. Altrimenti dopo quarant’anni di carriera… Così ho più tempo e lo sfrutto per provare a migliorare anche a suonare e a cantare. Prima non avevo mai fatto nemmeno gli esercizi vocali».
Anziché al futuro, ritorniamo al passato. Il palco del mitico Folkstudio di Roma. Lì sono proliferati cantautori che hanno fatto la storia d’Italia.
«Maestri non esattamente. Diciamo che la prima volta che ho visto De Gregori sono rimasto a bocca spalancata. Il suo carisma pazzesco. A parte la stima, provo molto affetto per lui che in realtà ho conosciuto da poco, pensa. All’epoca guardavo e sentivo e imparavo. Mi sono trovato su quel palco non ricordo come».
E poi?
«Poi, fino all’85, quando ho pubblicato il secondo album, lavoravo per un’agenzia di pubblicità a Milano. Ma io a trent’anni ne dimostravo forse diciotto e non so perché mi davano fiducia. Facevo l’art director, inventavo la parte visuale, organizzavo i casting, gli attori… Vedi, torniamo al cinema. Andavo già in tivù come musicista ma andavo in ufficio. Durò due anni perché mi imposero di fare il mio primo tour e come potevo fare? Mi prendevo le ferie?».
E quindi? Nessun maestro?
«Ho imparato anche con Internet dai tanti maestri. Dizzy Gillespie in particolare. E ho avuto una fortuna pazzesca di collaborare con tantissimi super musicisti. Da Tony Scott a. Roberto Gatto e Danilo Rea. Ma succedevano cose strane. Non sono mai stato cacciatore di celebrità. Se suonavo con qualcuno era perché volevo. Non avevo la soggezione che avrei dovuto avere, diventavo come loro (ride), non so bene come spiegarmi, dicevo loro pure che cosa dovevano fare. Ecco ho imparato l’umiltà che avevano questi mostri sacri che accettavano imposizioni da
un signor nessuno o quasi».
Altre collaborazioni?
«Ho scritto un testo per Celentano e un altro me l’ha chiesto ora una giovane e bravissima interprete. La più pazza è stata con Baccini. Successe che una notte sognai di fare un concerto con lui. Abitavo nella stessa città, avevamo la stessa casa discografica ma non c’eravamo mai incrociati. Un giorno una mia amica me lo portò a casa per farmelo conoscere ma non c’ero e chissà dov’ero. Vabbè, dicevo del sogno. Ho svegliato mia moglie per chiederle che cosa pensasse di questa fantasiosa collaborazione. Fu d’accordo, così cercai di contattarlo sui social e gli ho chiesto di raggiungermi all’estero, di fare una gita. Da qui arriva un singolo, poi album secondo me bellissimo che non ha sentito nessuno e tanti concerti. Sparavamo un pezzo dopo l’altro. Io facevo, chessò, “Le donne di Modena” e lui “Un sabato italiano”. Conoscendolo ti chiedi come abbia fatto a scrivere un testo così bello perché non ha voglia di cantare, di suonare, di lavorare”. Ci siamo divertiti un mondo».
E adesso?
«Live e spettacoli. A Roma torneremo e si chiamerà “Ne approfitto per fare un po’ di musica”. Una cosa “elastica”, si sentiranno pezzi mai sentiti. Una roba complicata. Ci sarà il mio trio che adoro e che porto dove non hanno budget per band più grandi. Siamo in tre. Quindi mi sto complicando la vita come sempre. Tre show in contemporanea. Il 22 novembre saremo a Roma. La mia sala preferita, la Sinopoli, non era disponibile, così mi hanno proposto Santa Chiara ma ho paura. Lì ci suona Sting, è enorme. Speriamo di riempirla almeno in parte. Comunque sarà un anno impegnativo. Tra poco uscirà il secondo singolo, poi faccio altre cose, mi diverto con un giro di musicisti francesi a fare il chitarrista sotto mentite spoglie in giro per Parigi, ho fatto anche un album in francese ma poi il covid ha sospeso tutto e adesso sto cominciando a farlo sentire perché con i bambini piccoli e senza pensione sono condannato a lavorare tanto. Però, veramente, non ho mai smesso di divertirmi e di evolvermi e cambiare, perché no? Mica posso scrivere le canzoni di prima, le giornata di uno che si ubriacava e ogni sera usciva con una donna diversa. Ho settant’anni, altre abitudini. E poi se rifacessi certe cose non potrei nemmeno raccontarlo».
Ascolta qualche suo collega giovane?
«Davvero no, ma soltanto perché ci sono bambini da portare a scuola, cucinare pranzo e mille altri “compiti”. Mi restano tre ore al giorno per comporre. Poi considera che negli ultimi vent’anni ho vissuto fuori dall’Italia quindi c’è gente che in questo lasso di tempo ha fatto un successo clamoroso, dopo è sparita e non ho fatto in tempo a sentirla. Non sono tornato per anni. Mi convinse Panariello ad andare in televisione nel 2002. Accettai ma in cambio chiesi di trovarmi quattro club per suonare… tanto pagava la Rai. Facemmo delle gran serate».
E c’è un nuovo folletto?
«Mah, in quarant’anni non ne ho visti ma è un discorso complicato. Mi incazzavo quando dicevano che mi ispiravo a Buscaglione che amo, per carità. Ma lui faceva altro, faceva benissimo la macchietta, interpretava personaggi, diceva: sparami, era televisivo, faceva sceneggiate, io scrivevo e scrivo storie vere, il mio vissuto. Mi ispiravo, invece, a quelli che ascoltavo. A Karl Potter, alla vera canzone jazz. Da lì mi venne voglia di fare canzoni con strutture armoniche che piacevano a me, senza immaginare mai di far carriera».
Se lo ricorda il momento della svolta?
«Embè! C’era il grandissimo Mister Fantasy, il programma di Carlo Massarini. Alcuni dirigenti ascoltarono delle mie cassette… poi un disco e un video per ogni brano. Furono i primi, almeno in Italia tanto che se la Rai voleva mandare in onda un video doveva produrlo. Sono stato molto fortunato, chissà quanti altri erano capaci e non hanno incontrato le persone giuste. Ho conosciuto tanti colleghi bravissimi, al Folkstudio, ma poi sono spariti».
Ha partecipato a tre Festival di Sanremo. Quest’anno l’ha visto?
«La prima volta volevano mandarmi con Un sabato italiano, ma non partecipai. Il primo fu con Il Garibaldi innamorato. Il secondo – ma fui costretto – con Rifarsi una vita, che arrivò ultimo e pure per distacco (ride), il terzo con Flamingo una storia malinconica di marziani che si incontravano in un bar con una parte musicale molto complessa. Ma no, non lo vedo perché in Francia non arriva. Ho visto cose su internet. Eppoi, in un certe senso, ho partecipato. Sono stato ospite di Michele Monica, in radio, con il mio trio di qui, e mi sono divertito un bel po’. Alla faccia di tutti ho fatto Sanremo anche a settant’anni. Nel 1998 dissi sarebbe stata l’ultima volta, che non mi avrebbero invitato mai più. Ci ho preso ma mi girano. Ho riempito teatri e non sono sparito e non mi chiamate nell’unica trasmissione italiana dove va in onda la musica nuova e non è un talent? Lasciamo perdere. Ho trovato bravo Lucio Corsi».
Ma, scusi, come fa a non essere ricco con tutto quello che ha fatto?
«Facile, è finita la Siae. Arriva quasi nulla. Era la mia principale fonte di vita. Mettici un terribile divorzio negli Stati Uniti con un giudice corrotto durato sei anni quando, in California, si può fare in sei mesi… Sono stato io a chiederlo e lì funziona che puoi deporre soltanto finché non parla la controparte. Hanno prodotto documenti falsi, ho cambiato tre avvocati perché scandalizzati dal corso della battaglia legale e quando è toccato a me spiegare il giudice di cui sopra ha emesso la sentenza. Quindi ho pagato la mia ex moglie, i legali e mi hanno mangiato tutto».
Curiosità. In tante sue canzoni ci sono gatti che miagolano e ballano atmosfere swing. È una fissazione?
(Ride). «No, anzi. Ho vissuto sempre in contesti popolari, in case degli anni Venti soprattutto a Roma ma anche a Milano, con cortili zeppi di gatti. Adesso, a Parigi, ne ho uno ma ero l’unico della famiglia che non lo voleva e ora lo adoro. Si chiama Red».
Ha detto che l’infarto le ha cambiato la vita ma fa meno controlli di quelli che dovrebbe fare. In Un sabato italiano cantava: “E perché non vai dal medico e che ci vado a fare, non voglio mica smettere di bere e di fumare”. Masochismo puro.
«Ho cambiato idea, ho dovuto farlo. Ho smesso di fumare ma non di bere. Però, per farmi perdonare, ho fatto fare una parte al dottore che mi ha salvato la vita in un video remake di “Un sabato italiano” insieme con diversi attori e amici, tra cui Ubaldo Pantani».
Altro brano. Cantava: “Non bevo più tequila”.
«Confermo. Ma dopo certi concerti il gin tonic se lo conosci non lo eviti».
Ultima citazione “sergiocaputesca”: “Il peggio sembra essere passato”. È passato?
«Non credo. Ma mi ero prudentemente mascherato dietro “sembra” (ride ma tanto tanto)».