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 2025  marzo 05 Mercoledì calendario

Intervista a Gabriella Costa

Lella Costa, quale libro vorrebbe aver scritto lei?
«Tutti quelli che leggo. Non è una civetteria o finta modestia, è che io davvero mi vergogno di essere collocata tra le scrittrici e gli scrittori. Faccio un’altro mestiere».
La comica. È più facile far ridere o far piangere?
«Sono diverse declinazioni di una stessa attitudine, che non passa per il razionale. Però i codici della commozione sono più condivisi, quelli della comicità sono più personali. A teatro hai un pubblico che ti sceglie, a differenza della tv che è più ecumenica».
Lella Costa, nostra signora dei monologhi intelligenti, fa ridere e piangere da più di 40 anni. Pioniera della stand-up comedy in Italia, è appena tornata in libreria per Solferino con Se non posso ballare non è la mia rivoluzione, raccolta di 100 donne che hanno fatto la differenza (e la Storia), spesso senza essere riconosciute. Un lavoro che prosegue quello intrapreso da serena Dandini con il Catalogo delle donne valorose.
Come mai questo titolo?
«È una frase di Emma Goldman, che dà anche un senso al ritmo del mio omonimo spettacolo teatrale, con la regia di Serena Sinigaglia. L’idea nasce da una sua provocazione, mentre Gabriele Scotti è stato il nostro sherpa tra le biografie femminili».
Se dovesse sceglierne una?
«Forse Michela Murgia. L’applauso che arriva quando compare il suo nome alle mie spalle va al di là del lutto».
Al funerale lei intervenne.
«Non sapevo che l’avrei dovuto fare. La notizia della sua morte mi raggiunse in Francia con mio marito. Gli chiesi di lasciar guidare me, mentre tornavamo in Italia, perché ero troppo sconvolta. Il mattino dopo alle 5 presi un treno dalla Liguria per andare a Roma. In chiesa Chiara Valerio mi accolse dicendo: “Che bello che sei qui. Parli vero?”».
Eugénie Brazier, altra protagonista del suo «catalogo», a chi le chiedeva come aveva imparato a cucinare, rispondeva: cucinando.
«Semplicissima. Peraltro la cucina è sempre stata terreno delle donne. Poi, quando ha cominciato a diventare glam, sono arrivati gli chef. Gli uomini ci costruiscono un’epica, su quello che fanno».
Esistono uomini «bravi».
«Sì certo. Il marito di Alfonsina Strada le regalò una bici nuova. Il padre di Lucrezia Corner la spinse a studiare e infatti è la prima donna laureata al mondo, nel 1678».
E quali sono stati gli uomini «bravi» nella sua vita?
«Il migliore è mio marito Andrea, una persona di assoluta generosità, tranquillo e sicuro di sé, non ha bisogno di affermare nessun primato. Capovolgendo la frase che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, accanto a una donna “visibile” c’è un uomo che la sostiene».

Viene ai suoi spettacoli?
«Li vede tutti, anche più volte. Ma non l’ho mai voluto alle anteprime o durante le prove: in quei momenti ho bisogno di concentrazione totale. È un fantastico padre e un fantastico nonno per Tea».
Lei è una nonna migliore della madre che è stata?
«Penso che fare la nonna sia più facile, non perché hai meno responsabilità: a me sembra di averne di più quando vado ai giardini con la piccola. Ma c’è un livello di gioia pura diversa dalla maternità, che poi è stata una scelta trasgressiva per il mio lavoro».
In tournée come faceva?
«Cercavo di tornare a dormire a casa. Ma non per le mie figlie, era egoismo: volevo godermi il loro risveglio, prima che qualcun altro le accompagnasse a scuola».
L’errore che non rifarebbe?
«Quando cercavo di non mancare al loro saggio di fine anno, ma era palese la fatica che avevo fatto. Mi chiedo che messaggio ho mandato...».
Ha mai pensato di smettere di recitare?
«No. So che prima o poi succederà per forza, ma sarà il pubblico a farmelo capire. Quel giorno starò male, spenderò tutti i miei soldi in analisi, ma dovrò accettarlo. In fondo è stato, ed è, un grande privilegio stare sul palcoscenico: è beatitudine pura».
L’applauso è importante?
«Moltissimo. Ma è sbagliato aspettarselo nello stesso punto: il pubblico cambia».
Il blocco dell’attore?
«A Brescia, proprio durante Se non posso ballare non è la mia rivoluzione, dovetti interrompere lo spettacolo perché pur sapendo esattamente cosa dovevo dire, non ci riuscivo. Fu un blackout. Tornai a Milano ripetendo durante il viaggio tutto lo spettacolo».
Ha mai recitato in un teatro semi vuoto?
«Tantissimi anni fa, a Napoli. Una sera c’erano tipo quattro spettatori».
Ed è andata in scena lo stesso?
«Certo. C’è una regola, a teatro: perché uno spettacolo vada in scena ci deve essere un numero di spettatori pari a quello degli attori, più uno».
Non la distraeva il vuoto?
«Mica per niente si tengono le luci spente. Gli attori sono narcisisti e fragilissimi. Quando vedi uno spettatore alzarsi, e magari sta solo andando al bagno, tu speri che si sia sentito male, sennò è uno sgarbo insopportabile».
Serate difficili?
«Sempre agli inizi, alle convention aziendali, dove facevo un monologo davanti a persone che continuavano a parlare tra di loro. Ma si chiama gavetta. Del resto mi è capitato di esibirmi nei locali con chi si alzava, andava in bagno, mangiava. E non c’erano ancora i cellulari!».
Sono ancora molesti?
«Può capitare che squillino la domenica pomeriggio, ma lì non c’è dolo: vengono soprattutto signore di una certa età con dei vecchi Nokia. Prima era diverso. Noi avevamo registrato la suoneria con Bocelli che canta Con te partirò, e non appena un telefonino diventava molesto, la facevamo partire e io improvvisavo un balletto ricordando al pubblico di spendere il cellulare».
Ha infine ceduto ai social?
«No. Però mi fa molto ridere quando qualcuno mi dice: “Che fortuna, beata te”. Stare sui social è una scelta. Chi fa il mio mestiere è molto fragile: puoi avere 10 recensioni positive, ma ti concentri sull’unica negativa. Preferisco sottrarmi all’aggressività dei social».
In quale teatro si è emozionata di più?
«Al Teatro Regio di Parma. E al Teatro Greco di Siracusa: lì debuttai nel 2020 con La vedova di Socrate, di Franca Valeri; lei mancò poco dopo».
Si sente la sua erede?
«Quando mi chiese di interpretare La vedova di Socrate perché secondo lei ero l’unica che poteva farlo, mi ha onorata e commossa. Ma forse non parlerei di eredità».
Entrambe vi siete misurate con i monologhi.
«Lei è stata un faro e una maestra. Io a differenza sua mi sono esposta, ma è un fatto generazionale, non una critica. E poi, rispetto a lei che ha sempre interpretato personaggi, io sono andata sul palco usando la prima persona. Ho ammirato la sua perfidia, senza mai accanimento personale. Oltre che bravissima era coltissima e non si vergognava di esserlo».
L’attrice più grande?
«Ho delle passioni. Una di queste è per Maggie Smith, immensa: purtroppo non sono riuscita a vederla a teatro».
Tra i personaggi incontrati, chi l’ha emozionata di più?
«Peter Brooks quando consegnò il Premio Nonino ad Ariane Mnouchkine. Ho detto a entrambi: per quanto mi riguarda posso anche morire».
Dove sogna di esibirsi?
«Un sogno non realistico è il Teatro alla Scala. Dopodiché, ho fatto anche l’opera nella mia vita: ero la voce narrante, e per giunta sui pattini a rotelle, per il Candide di Bernstein all’Opera di Firenze».
Ha più teiere o più scarpe?
«Più teiere. Ormai i miei amici sanno che le colleziono e me le regalano».
E a quale paio di scarpe è più affezionata?
«A quello che ha dato il via al vezzo di metterle in vetrina: delle deliziose slingback di Sergio Rossi, di un bel grigio perla con gli strass».
Non avesse fatto la comica?
«Forse sarei diventata un’insegnante, perché nelle cose che faccio c’è sempre un qualche intento pedagogico».