il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2025
Re sbronzi, depilazioni e magie. Follia e destino, ieri e oggi
Rendere più vicino e palpitante il passato, liberandolo dal fardello delle storie ufficiali. Un viaggio attraverso i buchi neri e i protagonisti irregolari, o dimenticati, della commedia umana. Perché a rileggerla con lo spirito giusto, la storia diventa una costellazione di racconti catalizzanti e divertenti. Scritto da Daniel López Valle, volando al di là dell’aneddotica, Il Tevere brucia, fresco di stampa con Blackie edizioni, è una macchina nel tempo che sembra parlarci di oggi e proprio di noi, anche se riguarda gente esistita millenni fa. Vip o carneadi, poco importa: siamo tutti mortali con virtù e contraddizioni, e le tracce del nostro passaggio perdurano.
Il titolo prende spunto da Augusto che ordinò il confino su un’isola-bonsai (e la dannazione perpetua) alla sua unica figlia Giulia, accusata di immoralità sfrenate: l’imperatore affermò che le avrebbe concesso un indulto solo “quando fuoco e acqua si fossero mescolati”, e allora una notte il popolo “si presentò sulle rive del Tevere e lanciò torce nel fiume” (invano). Anche nella città in cui López Valle è nato, la spagnola Elche, si consumò “una piccola tragedia familiare”, adesso riassunta in due targhe di pietra sulla facciata di un edificio del centro affianco a un negozio di scarpe: “Ai Mani di Ulpia Marciana, che visse trent’anni. Da Lucio Cassio Juniano per la sua amatissima moglie”. La scomparsa precoce di una donna e lo strazio composto di suo marito, pur risalenti a duemila anni fa, “sono un piccolo dettaglio nel racconto del mondo, ma da quando ho visto questa iscrizione funeraria non riesco a passarci accanto senza guardarla”. In un pianeta che non potrebbe essere più cambiato, “non facciamo alcuna fatica a percepire il dramma di quella coppia romana che ha camminato sulla stessa terra su cui camminiamo noi ora”.
Il Tevere brucia è costellato di imprese sottaciute che hanno spostato la road map degli eventi più di certi nomi e avvenimenti con cui riempiamo i manuali scolastici. Non esiste una narrazione storica lineare: “Siamo arrivati fin qui come saremmo potuti arrivare in qualsiasi altro posto”. Contano i capricci del destino, e degli individui. La parabola dell’Impero romano può essere interpretata sia come la vicenda di Giulio Cesare sia come quella dei milioni di Ulpia Marciana che l’hanno popolato. Che poi, per capire la figura di un Cesare, “che cos’è più importante – domanda, ironico-retoricamente l’autore –: sapere che divenne console in questo o quell’anno o che, come racconta Svetonio, si depilava e passava momenti orribili quando veniva deriso per la sua alopecia?”. Mentre Alessandro Magno mise a ferro e fuoco la favolosa Persepoli “dopo essere stato provocato dai suoi amici durante una sbronza colossale”.
Genio e follia, assurdo e sublime si intrecciano, ed è il dettaglio a fare la differenza. Leggendo gli epigrammi del romano adottivo Marziale, respiriamo tuttora appieno l’atmosfera dei “fori, mercati, bordelli, taverne, templi e bagni pubblici” della già febbricitante Urbe, in mezzo a turbe di “dandy e approfittatori, ragazzi attraenti e calvi con la parrucca”. Compreso quel Nevolo a cui il Poeta disse: “Al tuo schiavo fa male l’uccello; a te Nevolo, lo sfintere. Indovino che cosa fai, anche se non faccio il mago di mestiere”. E quando tornò nella sua idealizzata Hispania, l’epigrammista si accorse che anche i compaesani erano meschini e che pure lì bisognava “mendicare favori e alzarsi presto se non si vuole morire di fame”.
Del sentirsi sempre fuori luogo, come capita a tanti. O del non riuscire più a rimuoverle lontane esperienze traumatiche. Prima di vincere l’Oscar come migliore attrice per Vacanze romane, Audrey Hepburn trascorse la pubertà in Olanda ballando “in spettacoli clandestini il cui scopo era raccogliere fondi per sostenere la Resistenza”. Scampò alla cattura per miracolo, e passò l’ultimo anno di guerra segregata in uno scantinato. “Ho conosciuto il morso gelido del terrore umano. L’ho visto, l’ho sentito, l’ho annusato, l’ho udito”. Di ben più ambigua pelle il segreto dell’ex capo della diplomazia francese a Londra all’epoca di Luigi XV, il cavaliere Charles d’Éon: in rotta con la corona, cominciò a indossare abiti femminili rivelando urbi et orbi che, in realtà, non era un uomo, bensì una mademoiselle. Ma quando morì i medici esclamarono: “Ha il pene”.
La Grande Storia va osservata con sguardo fluido. Ecco gli Allahakbarries, la “peggiore squadra di cricket” messa in piedi nel 1887 da James Matthew Barrie (quello di Peter Pan) insieme a Conan Doyle, Rudyard Kipling e H. G. Wells tra gli altri; ecco la prima donna potente dell’umanità, Hatshepsut, proclamatasi “faraone” (ergo divina) con un geniale escamotage dell’occulto. E che dire del cagliostresco Nathaniel St. André, nominato chirurgo e anatomista di corte da Giorgio I d’Inghilterra nel 1723? Il suo declino iniziò quando convalidò la notizia più cliccata allora sui tabloid: la bufala di quella donna che affermava di avere partorito quattordici conigli. Voltaire si chiese se un Paese che aveva creduto a una simile fake news potesse considerarsi civilizzato. Chissà cosa penserebbe uno dei padri dell’Illuminismo, se rivivesse oggi.