Avvenire, 5 marzo 2025
Vi racconto il “mio” Bruno Pizzul e perché volevo essere come lui
Volevo essere Bruno… Sì, “Quelli che… volevano fare i giornalisti sportivi” come il sottoscritto volevano essere come te, Bruno Pizzul. Questo gran signore del telegiornalismo sportivo, imitabile solo per il timbro della voce ma inimitabile per tutto il resto, se ne è andato per sempre. Aveva 86 anni, ne avrebbe compiuti 87 il prossimo 8 marzo, ma la vitalità come l’eleganza nei modi e nell’eloquio era sempre quella del giovane friulano di Cormons. Il paese dove era nato e dove era voluto tornare a morire. Lo scrivente che voleva essere Bruno, la prima cosa che ha fatto arrivando a Milano per lavorare all’Avvenire, è andato a cercare i suoi due maestri: Gianni Mura e Bruno Pizzul. Ho chiesto appuntamento per un’intervista a Pizzul e quel primo incontro lo conservo tra i ricordi più cari e importanti.
Il primo appuntamento: l’intervista al bar vicino alla Rai di Corso Sempione
Appuntamento in un bar all’aperto sotto casa sua, in via Losanna a due passi da corso Sempione in quella che è stata la sua seconda dimora, la redazione milanese della Rai. Con la sua proverbiale puntualità, vedo Bruno all’orizzonte sprintare in mezzo al traffico in sella alla sua bici. Sì perché la grande “voice” della telecronaca calcistica finché ha potuto è stato un abile ciclista metropolitano. Ha corso tanto Bruno, su e giù per il mondo per raccontare l’Italia del calcio, la Nazionale, ma anche per portare un po’ di quel sano spirito da italiano in gita, curioso di conoscere prima ancora di farsi riconoscere dal pubblico che lo ha amato tanto. Un amore e un rispetto reciproco, frutto di un’avventura professionale iniziata in quella stanza della Rai dove Pizzul ha lavorato per 35 anni. «Agli inizi quello spazio lo dividevo con Carlo Sassi, Heron Vitaletti e quel battitore libero di Beppe Viola. Lì dentro entrava il mondo: un giorno toccava a Gianni Rivera appena sceso dal tram prima di un derby a San Siro, il giorno dopo si presentava l’attore Jean-Louis Trintignant in pausa pranzo dal set che portava vino e formaggio francese per l’assaggio amicale». Gergo ricercato, Pizzul esegeta del buon parlare e del buon mangiarebere, come Gianni Mura. Un eterno «dritto per dritto», tondo e sincero, come un bicchiere di Collio delle colline di Cormons, dove Bruno è tornato per il riposo del guerriero microfonato. Qui, dove sono le vigne a tracciare il confine con la Slovenia, i sogni e le passioni del giovane Pizzul hanno sibilato il fischio d’inizio di una partita che è ancora tutta da rivivere, e da ascoltare.
I ricordi del calciatore-universitario a Catania
Non ho mai reciso il cordone con la mia terra e dopo oltre quarant’anni di Milano, città che stimo e che mi ha dato tanto, con mia moglie abbiamo deciso di tornare a vivere qui, a riparo da quella frenesia alla quale peraltro non mi sono mai piegato», raccontava con voce pacata. Ritorno alle origini, alle stradine delle prime partite, con quel pallone che da bambino fu sinonimo di pace. «Nei quaranta giorni di terrore sotto la minaccia di Tito (1 maggio-12 giugno 1945), ricordo che in paese le famiglie si erano divise, vivevano nel sospetto e nel rancore reciproco delle opposte fazioni pro e contro la Jugoslavia. Un uomo di dialogo e illuminato come don Rino Cocolin futuro arcivescovo di Gorizia capì che noi ragazzi dovevamo rimanere uniti e per questo ci lanciò un pallone scucito e pieno di gobbe.
Era l’unico pallone di Cormons, e i genitori vedendo i figli giocare felici placarono il loro odio». In quelle partite amichevoli vide la fine della guerra e l’inizio di una gioventù proiettata in città. «Da Cormons, dove cominciai a giocare con la squadra parrocchiale, la Cormonese, andai a studiare al liceo Stellini di Udine. Un liceo elitario in cui quelli come me che si dividevano tra il calcio e il latino non erano visti di buon occhio, così optai per i più elastici professori del liceo Dante Alighieri di Gorizia che apprezzavano il mio doppio passo, sport e scuola, e mi portarono al diploma». Il passo felpato e la mente fine del centromediano che dopo il militare negli alpini sbarcò a Catania per giocare e studiare. «In quella che allora era la “Milano del sud” ero iscritto all’università e in campo andavo assieme ad altri cinque friulani. Il viareggino Michelotti lo chiamavamo il “terrone”, era il più meridionale della squadra. Il giovane cronista locale Candido Cannavò quando veniva allo stadio per le interviste di rito sacramentava: “Noi catanesi siamo stati colonizzati da tutti, dai punici ai francesi, adesso ci mancavate solo voi barbari del nordest"».
L’orgoglio e il senso di appartenenza alla razza furlana
Razza furlana, un tempo fucina di talenti. «Nella vicina San Lorenzo Isontino, paese che non arrivava a mille abitanti, una stagione poterono vantare sei giocatori in Serie A. Oggi quella vena talentuosa si è inaridita, nel calcio come nel basket. Colpa dei telefonini e della vita virtuale: i ragazzi sono diventati dei campioni nell’abbandono dell’attività sportiva». Il giovane Bruno giocava a calcio per «puro divertimento», si laureò in Giurisprudenza e una volta contro la Juventus riuscì persino a fermare l’antesignano di Diego Armando Maradona, “el cabezon” Omar Sivori. «Beh più che fermare lo marcai abbastanza bene. E la cosa me la ricordò Omar una sera che si presentò alla “Domenica Sportiva” con una foto in mano chiedendomi meravigliato: “Bruno, ma questo eri tu? Quanti tunnel ti feci?”... E io: se è per questo neanche uno. E il solito Sivori concluse: “Se lo sapevo che diventavi Bruno Pizzul il giornalista te ne avrei fatti 40 di tunnel"».
Sorrideva Bruno quando ripensava a quegli anni da “clamoroso al Cibali” in cui dal campo si ritrovò, microfono in mano, in tribuna stampa: assunto in Rai superando uno degli ultimi concorsi, anno 1969. Debutto in telecronaca in Coppa Italia: Bologna-Juventus, sul neutro di Como. «Memorabile. Quella mattina alle 10 ero pronto per andare a Como, ma il caro Beppe Viola, fuoriclasse assoluto, mi fa: “Dove vai Bruno a quest’ora? Como è solo a 30 chilometri, pranziamo insieme e poi ti accompagno”. Lauto menù con annessa bevuta, peccato che rimanemmo imbottigliati nell’ingorgo dei tifosi. Arrivai in postazione con affanno, le squadre erano già in campo da quindici minuti...». Inizi avventurosi da Messico e nuvole con il geniale Beppe Viola fido compagno di gag, musica e nottate dell’Enzo Jannacci. Messico e nuvole da protagonista: Bruno vola al Mundial del ’70, emozionato e pronto al commento di Germania-Inghilterra. Riceve il testimone dal passaggio dall’era Carosio a quella dell’altro gran signore indimenticabile della telecronaca, Nando Martellini. «Nicolò Carosio in Rai mi accolse con distacco. “Un solo consiglio ti do – mi disse -. Fatti sempre vedere con un bicchiere di vino o di whisky in mano, perché quello del telecronista è un mestiere in cui prima o poi l’errore lo fai, e se è grave, allora potrai sempre dire di aver bevuto”. Nando Martellini è stato un fratello maggiore, professionalmente gli devo tutto. Sandro Ciotti? Era stato lui a coniare quel “clamoroso al Cibali”, Sandro era un virtuoso del linguaggio, da jazzofilo improvvisava, ma senza sbagliare una virgola del copione dei 90 minuti».
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La squadra unica e irripetibile delle voci di Rai Sport
In quella squadra unica e irripetibile di voci nazionalpopolari c’era anche il “pio” Enrico Ameri. «Enrico era un sanguigno ma ovunque si trovava era sempre alla ricerca di una chiesa. Una domenica a Göteborg, io lui e Martellini, volevamo andare alla messa. Con Nando stavamo per entrare in una chiesetta di culto protestante, Enrico non ne volle sapere, si rifiutò, urlandoci: “Dove andate? Eretici..."». La più grande “eresia” rimane la finale insanguinata di Coppa dei Campioni, Juventus-Liverpool, 29 maggio 1985 a Bruxelles. «Sentii addosso tutta la responsabilità di comunicare al telespettatore, che magari aveva un figlio proprio lì allo stadio Heysel, la tragedia delle 39 vittime che si stava consumando in diretta. L’istinto mi diceva di chiudere anticipatamente il collegamento e di tornarmene dalla mia famiglia...». La Nazionale per Bruno è stata una famiglia, specie quella campione del mondo dell’82. «In quell’Italia di Bearzot, oltre a Enzo e il suo vice Cesare Maldini c’era un alto tasso di friulani: Zoff, Collovati, il professor Vecchiet, Calligaris e Trevisan». Friulano ( o meglio: “bisiaco") di Pieris è anche l’amico di sempre, Fabio Capello. Uno dei quattro amici al Bar Sport di Cormons per le mitiche partite estive a scopa d’asso. Delle tante figurine Panini conosciute in carne e ossa e raccontate nei febbrili 90 minuti in telecronaca glie ne restano poche di quelle «apprezzabili» anche fuori dal campo. «Gianni Rivera per quella sana ingenuità da eterno idealista. Per certi versi gli somigliava molto Francesco Totti. Ho amato tanto Roberto Baggio, trasmetteva il piacere del gioco. Renzo Ulivieri mi ha raccontato che quella domenica che al Bologna lo mise in panchina la sera tornò a casa dalla sua anziana mamma, la quale quando suonò gli rispose: “Io non faccio entrare uno che manda Baggio in panchina"». Se la ride Bruno, come quando ricorda il collega Mario Poltronieri «uno dei tanti personaggi incredibili di una Rai che non c’è più. Una volta Mario in un albergo di Torino fece arrivare i carabinieri: la donna delle pulizie era svenuta trovando un pitone nella sua stanza. Credevano che il pitone fosse scappato dallo zoo... Mario rientrato in albergo spiegò candido agli agenti: “Il serpente è mio, l’ho visto in un negozio e l’ho comprato. Un affare, l’ho pagato 60 mila lire al metro».
La saggezza popolare in un mondo di “fole”
Ricordi di una vita vissuta alla giusta distanza, con quella morbida ed elegante pacatezza che gli riconosce Riccardo Cucchi in prefazione alla biografia scritta qualche tempo fa da Francesco Pira e Matteo Femia, Bruno Pizzul. Una voce nazionale (Lupetti). Quella voce che ogni tanto dovevo assolutamente sentire, almeno telefonicamente, per ricordarci delle partite a carte con Gianni Mura e di quel viaggio in Umbria per andare ad assaggiare il Sagrantino di Montefalco, laggiù a casa mia alla locanda Sparafucile dell’amico Nazzareno Brodoloni. I tavoli dell’Arrigo alla Trattoria Mukerli, a Cormons, è stato invece il suo ultimo avamposto. «Questa negli anni è diventata un’osteria, un luogo di incontro per simpatiche e lunghe sfide a carte briscola e tresette. Purtroppo non è più bocciofila, e di là, gli sloveni con le bocce che gli regalammo tanto tempo fa sono diventati più bravi di noi», mi raccontava invitandomi ad andare a trovarlo per condividere tutte quelle perle di saggezza, frutto di una cultura popolare, appresa da bambino davanti al fogolar. «Qui a Cormons ho imparato a riconoscere la fioritura delle piante, la migrazione degli uccelli: la cincia allegra che vola d’inverno e il passero che con il caldo se ne va lontano e torna quando c’è la neve sul monte Quarin. In città questa percezione si perde, però a me, anche avvolto nella nebbia di città bastava chiudere gli occhi per rivedere e riascoltare l’incanto della natura che cambia con il cambiare del tempo». Una natura forte e a tratti anche spaventosa. «Sono cresciuto con i racconti dei vecchi che d’inverno ci portavano al caldo della stalla o in estate in mezzo all’aia sotto la luna a sgranare le pannocchie. Mentre si facevano i mestieri della campagna loro ci parlavano di “mostri” che popolavano i boschi e i fiumi. Non era vero, ma un bambino di allora alla fine ci credeva o gli faceva piacere credere a quel castello dove una dama era stata murata viva e di notte rischiavi di incontrarla mentre si aggirava per i campi». Un mondo di fole.
Il fantasista ci saluta per sempre dalla sua Cormons
E la fantasia nella casa di Bruno è rimasta fino saldamente al potere fino alla fine. «Due dei miei figli sono nati qui, e qui vengono con i loro figli a farci visita. Io e mia moglie Maria abbiamo 11 nipoti, sì come una squadra di calcio, e non vedono l’ora di tornare a Cormons a trovarci, anche perché sono sempre allettati dalle ottime prebende e le laute mancette assicurate dai nonni». Fino a poco tempo fa qui tornavano anche i suoi “amici fraterni” per le grandi partite a carte ai tavoli di Arrigo. Oltre allo “straniero” Gianni Mura che saliva da Milano, a Cormons veniva in trasferta la squadra dei friulani doc: il “Vecio” ct azzurro Enzo Bearzot da Joannis, il mister Fabio Capello («che però non giocava, perché Fabio non ama perdere») e il campione del mondo dell’82 Dino Zoff da Mariano del Friuli. Quelli erano momenti di festa a Cormons, come per San Giovanni «che purtroppo non si festeggia più, per gravami di carattere burocratico legati alle grigliate. Così si ripiega sulla Festa della Primavera che una volta era la scampagnata dei paesani in collina al lunedì di Pasqua, ora invece la organizzano i nuovi proprietari delle case lassù, per lo più austriaci e tedeschi che per un giorno aprono le loro abitazioni e accolgono la gente di Cormons per una merenda e una bevuta all’insegna dell’amicizia».
Segni del miglior passato che si conservano nonostante la “deriva tecnologica”. «I social hanno cambiato tanto, ma io spero che i giovani del paese, specie in futuro, imparino a conoscere a fondo e ad amare lo spirito del luogo, perché quello te lo porti sempre dentro, ovunque tu vada». L’ultima telefonata parlammo di queste tradizioni a rischio, dei valori sempre più oltraggiati da una finta modernità. E poi l’ultimo pensiero di Bruno fu per Milano, e con un filo di tristezza confidava: «Provo solo nostalgia per quei giovani di una volta che sul tram si alzavano per lasciare il posto a un anziano o alla donna incinta... Mi manca il sorriso e l’ironia di Beppe Viola e di tutti quelli che come me hanno avuto il privilegio di occuparsi di calcio, convinti che in fondo fosse solo un gioco dentro quella sfida ben più grande che è la vita». È stato un privilegio conoscerti per tutti noi che volevamo essere Bruno, e so che è stato un dono immenso anche per tutti quelli che ti hanno ascoltato fino all’ultimo minuto. Che la terra ti sia lieve, caro, grande Bruno Pizzul.