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 2025  marzo 03 Lunedì calendario

Così con la "cancel culture" anche i monumenti cambiano significato

Una interessante prospettiva per analizzare il fenomeno del difficult heritage e del controverso movimento della cancel culture può essere quella dei place studies: una derivazione degli studi sulla memoria collettiva, che a partire da Maurice Halbwachs si sono evoluti nel corso del ‘900 fino ad approdare al concetto di “memoria culturale” coniato da Aleida Assmann. I place studies si occupano di esaminare l’intrinseca capacità evocativa dei luoghi ed il ruolo che essi svolgono nell’affermazione e nella trasmissione delle identità collettive. Già Henri Lefebvre (1974) si era concentrato sullo spazio come «prodotto di una prassi sociale, che è inestricabilmente legata ai rapporti di potere» (Friedrich).
La contestazione dei monumenti che ha caratterizzato il fenomeno della cancel culture rendendolo manifesto nel modo più eclatante e traumatico, soprattutto agli occhi di una cultura sostanzialmente conservativa (ovverosia di “tutela”) come quella europea ed italiana in modo particolare, andrebbe dunque considerata nella chiave delle dinamiche tra spazio pubblico e cittadinanza, per meglio dire tra spazio pubblico, memoria e valori identitari. Per alcuni autori, la distinzione tra spazio e luogo passa attraverso il processo della denominazione: è attraverso il linguaggio e la definizione concettuale che uno spazio si unisce alla storia, all’esperienza di una comunità e alle formulazioni ideologiche o politiche. Da questo punto di vista, lo spazio/luogo diventa espressione e strumento di una certa visione del mondo: pertanto, il modo di intendere, utilizzare e significare gli spazi pubblici varia sensibilmente da cultura a cultura, così come il modo di distinguere la dimensione collettiva dei luoghi da quella privata.
Deriva da qui, principalmente, il modo in cui oggetti di un passato più o meno controverso vengono recepiti e vissuti: è la sensibilità verso lo spazio pubblico ed il ruolo che quest’ultimo assume nell’esercizio della cittadinanza che influenza la nostra percezione e il nostro sguardo verso i monumenti del passato. Nella drammatica vicenda dell’abbattimento di statue che ha accompagnato il movimento Black Lives Matter è emerso un fenomeno di contestazione verso il patrimonio simbolico e materiale che ha fortemente stupito una parte larghissima dell’opinione pubblica. Colpiva non tanto il ripudio della statua in sé come rappresentazione di un potere o di una cultura avversa o “nemica”; piuttosto, stupiva il fatto che queste statue fossero espressione di momenti spesso remoti, “storicizzati”; nel nostro sguardo, privi della capacità (agency) di influenzare il nostro presente.
Un noto articolo uscito nel 2017 sul New York Times, firmato da Ruth Ben-Ghiat (“Why are so many fascist monuments still standing in Italy?”), associava la sopravvivenza di tanti edifici e simboli del ventennio ad una serpeggiante sopravvivenza dell’ideologia che li aveva ispirati. Esso mancava totalmente di uno sforzo di comprensione dei “luoghi” e della sensibilità culturale che invece permea un certo modo di intendere il rapporto con il passato e con i monumenti. In una cultura millenaria allenata alla pratica della risignificazione e alla trasformazione funzionale degli spazi, l’esercizio di cittadinanza (che è interazione con la dimensione umana, fisica e normativa di una comunità) si profila anche come pratica linguistica e storiografica: basti pensare a come il patrimonio classico sia stato assimilato, integrato e modificato dalla cristianità, per esempio adottando l’impianto della basilica romana per progettare i primi edifici di culto monumentali, ma anche riformulando in chiave biblica soggetti iconografici pagani o semplicemente sovrapponendo connotazioni cristiane sui monumenti della romanità (per esempio, la statua di san Pietro sulla Colonna Traiana nei Fori Imperiali).
L’armistizio del ’43 ha fatto sì che gli spazi della celebrazione politica e del vivere quotidiano transitassero improvvisamente in una condizione di occupazione e al tempo stesso di necessario adattamento ad altre appartenenze e consapevolezze. Stazioni, scuole, uffici postali, benché fortemente connotati dall’estetica fascista, sono divenuti “scenario” di una rigenerazione democratica e repubblicana, ma anche “strumenti” di questa stessa rigenerazione, in quanto edifici non sacrificabili per la loro necessaria funzione pubblica, indispensabile al processo di ricostruzione post bellica. Non va dimenticato che, in molti casi, si trattava anche di edifici di grande qualità estetica e progettuale (in quella stagione furono creati alcuni dei grandi capolavori del razionalismo italiano).
Questo naturale percorso di riconfigurazione, associato alla familiarità con il patrimonio del passato, ha di fatto neutralizzato la capacità dei simboli e dei monumenti di interferire sul presente, marginalizzandone progressivamente la rilevanza.
Si aggiunge a questo una idea di spazio pubblico che, nella storia del nostro Paese, non coincide necessariamente con la rappresentazione ideale della comunità cui si appartiene. All’indomani dell’Unità d’Italia fu avviato un processo sistematico di connotazione simbolica dei luoghi che di fatto si sovrappose al sentimento e all’immaginario degli abitanti; un fenomeno di ulteriore occupazione territoriale che ha impedito una piena identificazione dei cittadini con lo spazio pubblico. In una città come Napoli, ancora oggi, ci sono strade e piazze che continuano ad essere conosciute con denominazioni più antiche, borboniche o popolari, che hanno resistito all’imposizione toponomastica unitaria: così via Toledo che divenne via Roma.
Vi sono resistenze, o più probabili resilienze, che hanno per un verso garantito la compresenza di simboli e monumenti anche in reciproco e potenziale conflitto, ma per un altro hanno salvaguardato lo spazio privato dalle intromissioni a volte troppo ingombranti (o compromettenti) della scena politica. Questo non significa che non ci sia una sensibilità verso lo spazio pubblico, ma che questa sensibilità sia maggiormente proiettata verso la patrimonializzazione del passato anziché verso l’autenticazione del presente. Il cittadino vive in questo senso la dimensione pubblica come rappresentazione plastica del tempo trascorso, quasi come una tangibile testimonianza della storia; mentre riserva l’interpretazione della propria visione di spazio condiviso a quelle porzioni di territorio ove è possibile agire individualmente nella più volatile ma al tempo stesso attiva elaborazione della socialità. Dolores Hayden ha parlato di una “politica dell’identità” in chiave di strategia della pratica dello spazio pubblico: luoghi che vengono interagiti, modificati, riformulati e dunque risignificati attraverso il flusso delle esistenze di oggi.
Un caso eclatante della capacità di riformulare il significato dei luoghi e di favorire la sovrapposizione dei simboli è quello offerto dai molti condomini edificati in epoca fascista nei quartieri popolari della città di Roma: come San Giovanni, dove oggi è facilissimo riconoscere le testimonianze del ventennio (rilievi, iscrizioni latine, persino qualche fascio littorio) e accanto a queste, targhe e corone che commemorano la Resistenza o le “pietre d’inciampo” che segnano proprio il confine tra lo spazio pubblico della strada e quello della vita privata, trafitta dalla violenza, dall’odio, dalla dittatura.
Il murale di Mario Sironi della Sapienza di Roma costituisce un esempio evidentissimo di “monumento” ormai neutralizzato nella sua originaria efficacia simbolica, che può convivere con il presente repubblicano di un’università che fa della democrazia e della partecipazione un vessillo assoluto: un luogo del sapere dove la storia e la storia dell’arte si studiano, si spiegano e si raccontano, ma soprattutto confluiscono in un progetto – speriamo non illusorio – di giustizia e di pace.
Cosa sarebbe l’aula magna della Sapienza senza il murale di Mario Sironi? Cosa sarebbe se non uno spazio della negazione e della miopia, della incapacità di leggere, riconoscere e superare gli errori del passato? In questo “luogo” la storia può esplicitarsi senza timore di derive nostalgiche: lo studio, la ricerca, l’impegno di valore pubblico sono le pietre d’inciampo che ogni giorno reificano la fiducia nell’altro, nella responsabilità e nell’impegno che solo la conoscenza e l’amore per la verità possono alimentare.