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 2025  marzo 04 Martedì calendario

Giuliana Sgrena: «Calipari, mistero italiano di cui nessuno parla. Anniversario terribile»

«Uno dei misteri di questo Paese, una storia senza verità della quale si parla troppo poco. Un caso irrisolto per il quale nessuno ha chiesto giustizia». A vent’anni dal suo sequestro a Baghdad e dalla drammatica liberazione, che si è conclusa con l’omicidio per fuoco amico Usa dell’ufficiale del Sismi Nicola Calipari, la giornalista Giuliana Sgrena, rimasta ferita, continua a ripensare a quegli attimi, sulla Route Irish, quando è partita la raffica di mitra dalla postazione americana e Calipari l’ha difesa con il suo corpo.
Dopo vent’anni quanto è vivo il ricordo?
«Purtroppo nella mia percezione è come se fosse avvenuto pochissimo tempo fa, anche perché ci sono sempre molte sollecitazioni per ritornare a quei momenti, soprattutto nel mese che coincide con la prigionia. È anche un’elaborazione difficile, avevo creduto di morire e non sono mai riuscita ad essere contenta di essere libera, perché la mia liberazione ha coinciso con la sua morte, è una sensazione terribile. Non potrò mai dimenticare».

La magistratura italiana era riuscita a individuare i responsabili nonostante la mancata collaborazione del Pentagono, eppure un processo non c’è mai stato.
«Questo è un altro aspetto che non permette di fare i conti con la storia: non abbiamo mai saputo perché gli americani abbiano sparato al numero due dei servizi segreti italiani. La Cassazione ha definitivamente stabilito il difetto di giurisdizione, sicuramente il marine Mario Lozano ha aperto il fuoco ma non è stato l’unico responsabile. C’erano le comunicazioni continue, Calipari aveva avvisato l’ufficiale di collegamento italiano che stavamo viaggiando verso l’aeroporto ed era informato anche l’ufficiale di collegamento americano. Sapevano che viaggiavamo su quella macchina. Se ci ripenso ancora oggi non riesco a trovare una motivazione. Gli americani non volevano che si trattasse con i rapitori, ma anche loro alla fine negoziavano per liberare i prigionieri Usa. E comunque questa sarebbe una motivazione molto, troppo, debole».
Durante l’inchiesta c’è stato anche il sospetto che Calipari avesse scoperto altri scenari nell’organizzazione dei sequestri e nella richiesta di riscatti, forse complicità italiane. Ma non è emerso nulla.
«Durante la trattativa c’era stata anche una mediazione parallela della Croce Rossa, Maurizio Scelli aveva anche interpellato Gabriele Polo, direttore del Manifesto, ma c’erano già i contatti con Calipari, e Gabriele disse che si fidava di lui e non voleva altre interferenze. Quella mediazione parallela ha fatto ritardare la liberazione».
Lei ha visto “Il Nibbio”, il film che sarà nelle sale giovedì?
«Sì. È una fiction, ma è un omaggio a Calipari, quindi va bene».
Si è riconosciuta nell’interpretazione del suo personaggio?
«Io sono una figura marginale. Sono stata in contatto con Sonia Bergamasco, l’attrice, è stata molto brava. Ma la mia parte è limitata e non così romanzata. La figura di Calipari emerge in modo nitido, molto ben rappresentata. Purtroppo è una storia senza verità. Questa è la cosa peggiore. Nessuno si è dato da fare come sempre accade quando sono coinvolti gli Usa. È uno di quei misteri di cui si parla poco, è bene che se ne parli».
È più tornata in Iraq?
«Due volte. A Baghdad nel 2009 con una troupe greca che ha girato un documentario sui giornalisti uccisi all’Hotel Palestine».
Cosa ricorda delle quattro settimane di prigionia?
«Stavo sempre al buio a letto, sotto una montagna di coperte, avevo freddo. Avevo paura di perdere la cognizione del tempo, cercavo di stare in ascolto di tutti i rumori, di giorno, attraverso il richiamo del muezzin, scandivo le ore. Le notti erano infinite: sentivo gli elicotteri americani, pensavo che prima o poi avrebbero bombardato. Credevo che sarei morta, vedevo in faccia i miei sequestratori e per questo pensavo che mi avrebbero uccisa. Erano due ragazzi istruiti, non erano manovalanza. Non so come comunicassimo: uno parlava pochissimo inglese, l’altro diceva qualche parola di francese, io avevo fatto un corso di arabo classico, ma non era sufficiente. Usavamo un miscuglio, volevo parlare, ero sempre sola, mi mancava anche la mia voce».
E i momenti della liberazione, l’arrivo di Calipari?
«Mi hanno bendata per la prima volta. Mi hanno riempito gli occhiali di cotone e sono stata abbandonata su una macchina, mi hanno detto ti verranno a prendere. Ho aspettato un tempo infinito. Poi ho intravisto i fari di una macchina, ma subito dopo si è allontanata. Ne è arrivata un’altra, Calipari ha aperto la portiera, mi ha detto “Giuliana sono Nicola sono venuto a prenderti, sono un amico di Gabriele e di Pierre, stai tranquilla”. Sono salita nella sua auto: “Ora mi seggo vicino a te, così sei più tranquilla”. Io, sotto choc, non ci credevo, lui cercava di farmi capire che davvero ero libera, mi nominava i miei amici e colleghi, mi diceva che mi avrebbe riportata in Italia. Poi c’è stata quella luce abbagliante e gli spari».