il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2025
Trumpland, la terra dei ricchi detassati con vista Mar-a-Lago
Follow the money: funziona così anche in Florida, soprattutto in South Florida. L’ormai conclamata “Trumpland” ha un clima caraibico che aiuta, ma il vero magnete che attira nel Sud estremo degli States è la mitezza, non del clima ma delle tasse: quella sul reddito per le persone fisiche non esiste, l’imposta societaria è invece al 4,4%, tra le più basse della nazione. Una pacchia per pensionati e imprenditori.
Per chi può permetterselo (una Peroni da 33 cl costa quasi 10 dollari, per dire), Miami e la Florida sono cool. Un tempo era lo Stato di Disneyland, dei pensionati e dei turisti, degli anziani newyorchesi, bostoniani e canadesi che svernano nei mesi freddi tornando a Nord in quelli umidi (li chiamano snow birds, “uccelli che emigrano dalla neve”). Era la droga di Scarface, la terra dei miliardari stile A qualcuno piace caldo, che aspettavano sulla veranda d’albergo le ragazze dell’orchestra di Marilyn, con Jack Lemmon e Tony Curtis imbucati e travestiti. Ora è l’epicentro politico, economico e glamour degli Usa, ancor più che la Los Angeles dei Vip (al netto di incendi e terremoti, però ha un clima più temperato) o la New York degli snob, sulla East Coast.
A parte Dexter Morgan, il simpatico serial killer tv che uccide solo i cattivi, a Palm Beach c’è Mar-a-Lago, la Casa Bianca invernale di Trump. Ci siamo passati, è super controllata: chicanes con chiodini spartitraffico e muretti di cemento, una decina di auto della sicurezza, torrette e ronde armate. Dimenticavo: 53 camere da letto, 33 bagni e rubinetti placcati d’oro, tre rifugi anti-bomba. La sala da pranzo si ispira a Palazzo Chigi, la Meloni l’avrà sicuramente notato.
Marco Rubio, già governatore della Florida, è il nuovo segretario di Stato: la Florida è hot, fa gola a manager, impresari e finanzieri. Jeff Bezos ha comprato tre ville, sono arrivati Dell, gigante dei computer, Messi, i Beckham, Tom Brady e tanti altri vip. Bezos, con Blue Origin, ha installazioni a Cape Canaveral e di lì lancia i suoi missili, come Elon Musk (la cui SpaceX ha sede in Texas).
Il fondatore di Amazon, proprietario del Washington Post, liscia il pelo a The Donald ed è vicino di casa di Ivanka Trump e Jared Kushner, coinvolto nella “ricostruzione” di Gaza. Non stupisce che sognino una Trump-Gaza, una Palm Beach del Medio Oriente: nel tenero cuore da immobiliarista compulsivo domina l’afflato cementizio, Trump sogna spiagge con grattacieli e “Ocean Towers”, basta far fuori i locali, com’è successo con i Nativi.
Dato interessante: la contea di Palm Beach vanta la più alta concentrazione di popolazione ebraica al mondo, il 20%, al di fuori di Israele. A Miami vivono la moglie di Netanyahu e il figlio, frequentano Islamorada, nelle Keys, la catena di isolette, legate da una strada, che si slancia verso Cuba. Al fondo c’è Key West, erano di casa Hemingway e Tennessee Williams.
Nel 1982 il sindaco proclamò l’indipendenza e dichiarò guerra agli Usa per protestare contro gli asfissianti controlli del Border patrol su droga e clandestini. Secessione scherzosa e rischiosissima, quando un secessionista spezzò una baguette di pane cubano in testa a un ufficiale navale degli Stati Uniti il sindaco si arrese subito e si consegnò alla Base Navale americana di Key West, non senza chiedere sfacciatamente 1 miliardo di dollari per danni di guerra. Data la straordinaria pubblicità, i blocchi furono rimossi.
Lo racconta Emanuele Pettener, docente – come la moglie, Ilaria Serra – alla Fau, Florida Atlantic University di Boca Raton, non lontano da Miami: veneziani doc, ogni anno organizzano il convegno Italy in Transit, con decine di scrittori, docenti, artisti ed editori legati all’Italia e accompagnano gruppi di studenti americani a Venezia. Un gigantesco impegno culturale e umano: Ilaria – che tra l’altro è Cavaliere della Repubblica dell’Ordine della Stella d’Italia – insegna Letteratura e cinema, raccoglie intorno a sé una comunità inimmaginabile, per noi che non siamo expat.
È commovente trovare italoamericani che stanno lì da una vita e parlano di Italia con gli occhi che luccicano. Spesso l’intercalare è del Sud: per loro l’America è stata dura e dolorosa conquista, più che per le generazioni recenti. Li chiamavano “mafiosi”, sono fieri di dirsi sia italiani che americani.
Joan, ad esempio, lavorava all’ambasciata americana di Teheran durante la crisi degli ostaggi. Alla proiezione del docfilm Diario persiano ha rivissuto quei mesi drammatici. Abbiamo parlato con il vice Console Giacomo Montrasio e con il Direttore dell’Istituto italiano di cultura, Stefano Cerrato, confermano l’arrivo di molti imprenditori italiani. Nicola Zordan, detto “Lupo”, vicentino che lavora nell’informatica, è appassionato di volo, guida un Piper Arrow sui grattacieli e sulle distese selvagge delle Everglades, sulle Keys e sulle Bahamas fino all’isoletta di San Salvador, dove approdò Cristoforo Colombo.
Ilaria ed Emanuele parlano di Italia e di America, di scrittori come Marino Magliani, l’amico comune che ci ha fatti incontrare. Boca Raton ha circa 80 mila abitanti, due biblioteche comunali e quarantasei parchi. E 16 sinagoghe. “E molte iguane – scherza Emanuele – e molti milionari. A Boca tutto è pulito e in ordine, c’è odore di fiori, spezie e carni grigliate… Ma soprattutto di soldi. A Boca tutto odora di soldi”.
Emanuele insegna Lingua e Letteratura italiana, ha pubblicato anche negli States e ha scritto alcuni racconti sulla Florida che spero escano prestissimo, perché lo sguardo di uno scrittore esalta i viaggi. Ci accompagna a vedere spiagge immense, lungo la US 1 che da Key West corre sulla costa orientale fino al Maine, e lungo la Intracostal Waterway, il braccio marino parallelo all’oceano attraversato da una trama di canali.
Boca Raton è un eden di palme, ville con piscina, campi da golf e tennis, giovani e anziani, oliati e “fisicati” che corrono, pedalano, e nuotano nel sole subtropicale. Ilaria ed Emanuele, nel grande campus della “Fau” sono un’eccezione alla cruda legge del pragmatismo e dei soldi. Aleggia su Miami e Little Havana, su Ocean Drive e le Keys, sulle Bahamas: sempre avanti a Occidente, il sogno americano a “Trumpland” è vivissimo, i vegliardi ignorano il tempo e l’artrite, programmano il futuro, viaggiano, desiderano e guidano (nervosamente) decapottabili di lusso fino a cent’anni, in camicie a fiori e bermuda, s’ingozzano di granchi, shrimps (“gamberetti”) e lobster roll, l’hot-dog con aragosta, burro, lime, pepe tabasco e avocado.
Con Emanuele preferiamo sognare alla Forrest Gump – a Savannah ho visto la celebre panchina del film – volare alto col Piper di “Lupo” sulla città, Key Biscayne e sulle tragiche ingiustizie di troppe amministrazioni americane; un po’ come Pavese, che bramava l’America: “Ma la vita, la vera vita moderna, come la sogno e la temo io è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so avvicinare)…”. Mentre – ricorda ancora Emanuele Pettener – a Ellis Island uno schermo riporta la celebre frase di un emigrante italiano: “Venni in America perché avevo sentito che le strade erano lastricate d’oro. Quando arrivai, scopersi tre cose: primo, che non erano lastricate d’oro; secondo, che non erano lastricate affatto; terzo, che dovevo lastricarle io”.