la Repubblica, 4 marzo 2025
Confiscare 200 miliardi di beni russi congelati: dove sono e perché è difficile trovarli
Confiscare parte dei 300 miliardi di dollari di beni russi congelati e trasferirli all’Ucraina, per finanziare l’acquisto di armi e la ricostruzione del Paese. È l’ipotesi che prende corpo nelle cancellerie europee, mentre Donald Trump interrompe il sostegno militare a Kiev. Una strada già più volte dibattuta nei mesi scorsi, ma che finora non è stata percorsa per una serie di questioni legali, tecniche e politiche.
Quanti sono i beni russi congelati e dove sono
Si tratta di 300 miliardi di riserve monetarie che la Banca centrale russa detiene presso istituzioni finanziarie occidentali, per lo più sotto forma di titoli di debito e contante, e che sono state congelate nel febbraio del 2022 subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. La maggior parte di queste riserve sovrane, circa 200 miliardi, si trovano in Europa, il resto sono distribuite tra Regno Unito, Stati Uniti, Giappone e in misura minore altri Paesi. Ed è proprio da una serie di leader europei, tra cui il premier polacco Tusk, che è stata rilanciata l’idea di confiscarle e usarle per finanziare l’Ucraina.
Confiscare non è semplice
L’operazione però non è semplice da realizzare, né priva di conseguenze per i Paesi che decidessero di procedere, come dimostrano gli accesi dibattiti degli ultimi mesi sul destino di questi beni. Sebbene congelati infatti, quindi tolti dalla disponibilità di Mosca che potrebbe usarli per finanziare il suo sforzo bellico, gli attivi restano di proprietà russa. Molti leader europei, ma anche i Banchieri centrali, hanno avvertito in passato che una loro confisca creerebbe un precedente giuridico e comprometterebbe lo status dell’eurozona agli occhi degli investitori internazionali, per esempio i grandi e ricchi fondi sovrani, rischiando di scatenare un destabilizzante deflusso dei capitali.
L’utilizzo degli interessi
Questi timori, insieme alle resistenze politiche dei Paesi europei più vicini alla Russia come l’Ungheria, hanno reso molto complessi da negoziare tutti i tentativi di utilizzare quelle risorse a favore di Kiev. Un primo passo lo si è fatto decidendo di girare all’Ucraina non i beni stessi, bensì gli interessi che hanno maturato durante il congelamento. L’anno scorso poi, a fronte delle crescenti necessità finanziarie di Kiev, le potenze del G7 hanno faticosamente elaborato uno schema per usare non solo gli interessi già maturati, ma anche quelli futuri, come garanzia di un prestito per l’Ucraina. Il passaggio non è stato banale da un punto di vista giuridico, perché ha comportato di vincolare quei fondi a lungo termine, cioè finché Russia e Ucraina non chiuderanno un accordo di pace e soprattutto di risarcimento dei danni di guerra. Alla fine dello scorso anno il G7 si è impegnato a farlo, e questo ha permesso ad Europa e Stati Uniti di finanziare un prestito di 50 miliardi per l’Ucraina. Il costo della ricostruzione però è molto più ingente: la Banca mondiale l’ha appena stimato in 524 miliardi di dollari in dieci anni.
La resistenza di Ungheria e Slovacchia
L’anno scorso però alla Casa Bianca c’era ancora Joe Biden. Ora invece, dopo la clamorosa rottura di Trump con Zelensky, torna sul tavolo di un’Europa in emergenza la più radicale ipotesi della confisca. L’Unione potrebbe decidere di procedere anche senza l’America, magari insieme al Regno Unito. In passato il Belgio, dove la maggior parte degli asset si trovano, ma anche Francia e Germania si erano detti contrari. Adesso Macron e Scholz sembrano più possibilisti, anche se l’ipotesi francese – secondo quanto riporta il Financial Times – sarebbe di confiscare gli asset in caso di mancato rispetto da parte di Putin di un cessate il fuoco, usandoli quindi come garanzia.
Le sanzioni europee contro Mosca, compreso il congelamento delle sue riserve, scadono a giugno e vanno rinnovate con voto unanime. Giovedì i leader europei si vedranno a Bruxelles per discutere di tutto questo. Sarà l’occasione per misurare la compattezza dei Paesi che si dichiarano più vicini a Kiev, e le resistenze di quelli, come Ungheria e Slovacchia, più vicini a Trump e Putin.