Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  marzo 04 Martedì calendario

Intervista a Marco Follini

«Avete presente quando lo squillo del telefono sembra più insistente del solito? Ecco, a me accadde la notte di Natale del 2003».
Chi c’era all’altro capo, senatore Follini?
«Francesco Cossiga».
All’epoca lei era uno dei leader della maggioranza che sosteneva il governo Berlusconi, di cui un anno dopo sarebbe diventato il vicepremier. Che cosa voleva il presidente emerito da lei la notte di Natale?
«Mi rivolse queste testuali parole: “Ti voglio dire qualcosa che forse non ti piacerà, o forse magari sì. Tuo papà era uno dei capi di Gladio. Non ne troverai tracce, per quante ne cerchi, ma sappi che le cose stanno così. Buon Natale”. E riattaccò il telefono. Chiedere lumi a mio padre non era possibile, visto che era morto da pochi mesi».
Suo padre a capo dell’organizzazione paramilitare segreta, nata dall’accordo tra la Cia e i servizi segreti italiani per contrastare un’invasione sovietica: era plausibile?
«Meno che lontanamente immaginabile. Aveva fatto la Resistenza, era amico e frequentatore dei centri di potere e intellettuali americani in Italia, al punto da aver in parte organizzato e poi partecipato nel 1979 allo storico incontro alla Casa Bianca tra Benigno Zaccagnini e il presidente Carter; una sorta di rottura di tutti i protocolli, visto che nello Studio Ovale un segretario di partito, anche se quel partito era la Democrazia cristiana, non poteva finirci. Ma capo di Gladio, suvvia; mio papà faceva il giornalista scientifico, una sorta di free lance, aveva finito la sua carriera da caporedattore in Rai, con la nomina approvata dal consiglio di amministrazione di cui io facevo parte, in quota Dc. Dissi a Biagio Agnes, direttore generale dell’azienda, che non mi pareva il caso; mi rispose che si era informato, “tuo padre non diventa caporedattore grazie a te, ma nonostante te”».
Parlò mai più con Cossiga di quella telefonata?
«Mai».
Attorno a quel mistero mai del tutto risolto, forse, da cui poi si arriva al rapporto tra gli Stati Uniti e l’Italia, ma soprattutto tra un padre e un figlio, Marco Follini ha costruito un romanzo, in uscita per Neri Pozza. Si intitola Beneficio d’inventario: quasi ottant’anni di storia repubblicana e di vicende familiari, nei loro risvolti più nascosti.
Follini, chi c’è nei suoi primi ricordi?
«I miei nonni. Il nonno paterno, Giuseppe, militare di carriera. E il papà di mia mamma, Claudio Soavi, che dopo aver lavorato a stretto contatto con Eugenio Balzan ne aveva preso il posto di amministratore delegato del Corriere della Sera fino a quando, nel 1938, le leggi razziali non avevano obbligato la famiglia Crespi a rimuoverlo e a spostarlo con mansioni da ragioniere nei loro affari».
Quindi lei ha origini ebraiche?
«La mia fede è cattolica. Ma il retaggio dell’ebraismo è ben presente, nascosto in profondità dentro di me. Mi commuovo ancora oggi a leggere Singer e ad ascoltare Mendelssohn, e con l’impronta della mia famiglia materna ho fatto intensamente i conti tutti i giorni della mia vita».
La sua famiglia non è romana, ma lei è nato a Roma, 70 anni fa.
«I miei si erano trasferiti nella capitale, ma avendo all’inizio poche conoscenze tornavamo spesso nella campagna piacentina e a Milano. Poi le amicizie presero corpo».
Con chi?
«Il mentore di mio padre divenne l’avvocato Guiglia, il più stretto collaboratore del presidente di Confindustria Angelo Costa, che era stato un soldato di mio nonno. L’uomo che avrebbe fatto da tramite tra la Confindustria tedesca e il governo italiano nel tentativo, vano, di ottenere la scarcerazione di Herbert Kappler, il capo della Gestapo a Roma, che era stato il responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A seguire, mio padre entrò in contatto con quelli che sarebbero diventati i suoi amici più stretti, per me in pratica dei familiari: Franco Roccella, fondatore del Partito radicale nonché “inventore” della leadership di Marco Pannella; e Corrado Guerzoni, giornalista, poi portavoce di Aldo Moro e lord protettore di tutta la mia vita».
Tempo fa spuntò una foto di suo padre in un plotone d’esecuzione.
«Quella foto può trarre in inganno. Il milite fascista riverso a terra era per la verità un cecchino che sparava da un palazzo lì vicino. Non si trattava affatto di un’esecuzione a freddo, anche se poi la si volle raccontare così».
I suoi primi ricordi politici?
«La volta in cui Moro venne nominato presidente del Consiglio e mi capitò di vedere in televisione uno che avevo già visto dal vivo. E poi un congresso della Dc del 1969, quando dopo un intervento di Moro vennero inquadrati dal telegiornale, insieme a lui, Guerzoni, Felice La Rocca e mio padre. A una cena di Natale del 1971, a casa del leader socialista Francesco De Martino, che abitava nello stesso palazzo di Roccella, vidi il padrone di casa appartarsi con mio padre e lo ascoltai mentre gli diceva: “Riferisca pure a Moro che, nelle elezioni per la presidenza della Repubblica, può contare sui voti socialisti”».
Il nome di Moro non uscì mai dai blocchi, però.
«No. Perché in quelle stesse ore, durante la votazione interna al gruppo parlamentare della Dc, Leone aveva avuto la meglio su di lui per pochissimo. Si parlò di dodici voti anche se non c’è la prova, visto che le schede vennero bruciate dopo lo spoglio. Come quelle del conclave».
Meno di sette anni dopo, Moro era prigioniero delle Br e lei segretario dei giovani democristiani. Visse il sequestro da dentro la sede di Piazza del Gesù. Che ricordi ha?
«Nei primi giorni del sequestro ricordo una telefonata con Guerzoni, che stava nello studio di Moro a via Savoia. Mi fece capire che l’irruenza andava tenuta a freno, in quella fase».
E dopo?
«Presso le persone più vicine a Moro iniziò a farsi largo l’esigenza che bisognava trattare. Ma il rumore di fondo della scelta della fermezza era troppo insistente perché si imboccasse una strada alternativa. Il peso di non aver aperto bocca pesa ancora sulla mia coscienza».
Secondo lei, che ha avuto un padre molto amico degli Usa, la sorte di Moro c’entrava col fatto che fosse considerato dagli Stati Uniti una persona quantomeno non amica?
«Moro era uscito talmente sconvolto da un incontro con Henry Kissinger nel 1974 da rientrare in Italia in anticipo, lasciando da solo il presidente della Repubblica nel suo viaggio negli Stati Uniti. Al suo rientro, fece dire a tutti da Guerzoni che avrebbe abbandonato la vita politica per qualche anno. Prima ancora, nel 1950, era stato costretto a dimettersi da sottosegretario agli Esteri del governo De Gasperi perché considerato dagli Usa l’artefice di una fuga di notizie su alcuni documenti che riguardavano il Patto Atlantico. Senza dimenticare che, da presidente del Consiglio, aveva respinto l’ipotesi di scarcerare Kappler, come chiedeva la Germania Ovest e come volevano anche a Washington».
Non ha risposto alla domanda.
«In tanti sono convinti che le due cose, la sua fine e il suo rapporto con gli Usa, fossero collegate. Pensarlo o meno è secondario rispetto al fatto che una prova non c’è. Né ci sarà mai».
Il suo successivo mentore, Toni Bisaglia, morì nel 1984 cadendo dalla barca della moglie, al largo di Santa Margherita Ligure. Altro mistero?
«Nessun mistero. Vidi Bisaglia anche il giorno prima dell’incidente. Lo accompagnai da Emilio Colombo. Poi lui scese dalla macchina a piazza Navona e disse all’autista di accompagnarmi. Notai che, mentre attraversava la strada, era claudicante».
Il giorno dopo morì annegato.
«Era la persona meno sportiva che conoscessi.
E soprattutto non aveva alcuna voglia, in quel fine settimana, di andare a Santa Margherita Ligure in barca. Ricordo la frase che mi disse: “Tanto io starò lì a leggere i giornali. Che sia in Val d’Aosta o su una barca al largo della riviera ligure, per me non fa differenza”».
Visti da vicino: Giulio Andreotti.
«Un giorno mi fermò e mi raccontò della volta che aveva incontrato mio padre davanti alla porta dell’ascensore piccolissimo che c’era in Piazza del Gesù. Lui gli aveva chiesto di salire insieme; mio padre gli aveva ceduto il passo, “vada lei, io salgo dopo”».
Ha mai pensato che fosse il mafioso descritto dalle inchieste di Palermo e Perugia?
«L’equazione Andreotti uguale mafia non mi ha mai convinto».
Silvio Berlusconi.
«I nostri rapporti politici si interruppero bruscamente, com’è noto. Per diverso tempo, compresa l’ultima volta che l’ho visto a casa sua, nel 2011, ho provato a fargli capire che non c’era nulla di personale».
E lui?
«Non l’ho visto granché interessato alle mie argomentazioni. Secondo il codice Berlusconi, rompere politicamente con lui voleva dire rompere su tutto. Anche e soprattutto il rapporto personale».
Quando lei era leader dei giovani Dc, il suo omologo nei giovani comunisti era Massimo D’Alema.
«Per quanto politicamente distanti, per non dire certe volte addirittura agli antipodi, l’ho sempre considerato un amico. Una persona leale, perbene e, a dispetto della vulgata, anche simpatica».
Con Pier Ferdinando Casini siete stati gemelli diversi per anni. Poi avete rotto. Vi sentite ancora?
«Ci sentiamo, di rado. D’altronde, abbiamo fatto assieme un pezzo di strada molto lungo».
È vero che Bisaglia diceva di voi due che Casini era il «figlio» bello e lei quello intelligente?
«Oggi la metterei così: se ci siamo allontanati è perché lui va sempre di corsa, mentre io preferisco guardare l’orizzonte».
Ma perché Cossiga le fece quella telefonata?
«Cossiga è stato la guida politica di Gladio. Credo che quella telefonata fosse l’espressione da parte sua di una premura amichevole, ancorché magari troppo fantasiosa. Ma per l’appunto si trattava, secondo me, di una fantasia “presidenziale”. Una di quelle da cui mio padre si tenne sempre a prudente distanza. Che poi lui non considerasse Gladio alla stregua di una congiura contro la democrazia, questo credo sia stato molto probabile».