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 2025  marzo 03 Lunedì calendario

Il Dragone nello spazio. Nel 2035 ci sarà una stazione sulla Luna

Futuro. 2035, mese imprecisato. I lavori sull’avamposto lunare proseguono a pieno ritmo da quando, nel 2030, i «taikonauti», come si chiamano gli astronauti in Cina, hanno messo piede per la prima volta nell’area preparata dalle missioni robotiche Chang’e 7 e 8, vicino al Polo sud. Nominale, cioè «perfetta», è anche l’attività a bordo della terza Tiangong, la stazione in orbita terrestre i cui primi moduli sono stati lanciati a partire dal 2021. Lo Space Based Solar Power, invece, è più recente: indicato fra le priorità del governo nel 2010, è un sistema di satelliti con celle fotovoltaiche ad alta efficienza capaci di trasformare la luce solare in energia elettrica per poi spedirla sulla Terra, tramite microonde o laser. Il suo successo è stato coronato solo qualche mese fa con il lancio di una centrale da 100 Megawatt in orbita geostazionaria, a 36mila chilometri dalla Terra. È una tappa importante, perché testimonia la realizzabilità dei due programmi nazionali più ambiziosi: lo sbarco su Marte di un equipaggio e la cattura di un asteroide da studiare una volta portato nei laboratori terrestri. Sebbene lontane, si stima che anche queste mete saranno raggiunte entro il 2049, centenario della Repubblica popolare cinese.
Fantascienza? Sarebbe imprudente definire così gli obbiettivi già fissati dal programma spaziale del Dragone. Partito in ritardo rispetto a quelli di Stati Uniti e Russia, il piano di dominio spaziale made in China lo zhi tianquan procede inesorabile. E costituisce uno dei pilastri economici e strategico-politici di Pechino, perché come e forse più dei protagonisti storici del settore la Cina ha capito che fra gli asset cruciali nell’immediato futuro ci saranno il presidio dell’orbita terrestre bassa, la capacità di concretizzare le ambizioni lunari e di sfruttare le risorse extra-atmosferiche e i servizi per la Terra derivati dalle infrastrutture orbitanti. In sintesi, avere una space economy florida è una priorità. Il cui calendario è stato aggiornato lo scorso ottobre, quando la Cina ha presentato la sua roadmap spaziale fino al 2050, una progressione in tre fasi: fino al 2027 si appronteranno un telescopio spaziale simile ad Hubble e la prima missione lunare con equipaggio (che sarà lanciata nel 2030).
La seconda fase (fra il 2028 e il 2035) e la terza (2036-2050) promettono sviluppi anche più ambiziosi, con particolare attenzione alla missione Tianwen 4 verso Giove, alla raccolta di campioni atmosferici da Venere e, in particolare, alla creazione entro il 2035 dell’International Lunar Research Station (Ilrs), una base per la ricerca scientifica sulla superficie lunare, da realizzare insieme con la Russia e con un numero crescente di Paesi partner. Intanto, già nel 2024, la Cina è stata il secondo Paese al mondo per numero di lanci. Certo, dietro agli Stati Uniti, che però sfruttano la potenza di fuoco di SpaceX, capace di totalizzare, da sola, 138 liftoff, 50 in più di Pechino. Eppure, fra le cifre, andrebbero scovate alcune rivelazioni: in Cina, Galactic Energy ha messo a segno cinque lanci, Cas Space quattro (finanziata dallo Stato, ma per iniziative commerciali) e Landspace, i-Space e Orienspace uno. Sono tutte realtà private o comunque a scopo commerciale. E rappresentano più di un sesto delle attività in rampa di lancio. È il segno di un’inedita apertura ai privati che Pechino non si preclude più, men che meno nel settore spaziale, ritenuto dal presidente Xi Jinping un tassello fondamentale per diventare la «potenza tecnologica numero uno entro il 2049». Non è un caso la Cina scommetta sull’avere razzi riutilizzabili entro la fine dell’anno e nel frattempo stia già costruendo tre costellazioni per la connettività in orbita, a mo’ di Starlink, per un totale di oltre 30mila satelliti. L’obiettivo è quello di non lasciare agli Stati Uniti il monopolio e, appena possibile, provare il sorpasso. Per capire meglio come il gigante asiatico stia muovendosi oltre l’atmosfera conviene riavvolgere il tempo di qualche anno.
È il 9 giugno 1995 e a New York è un venerdì caldo non solo per la temperatura. La visita del presidente taiwanese, Lee Teng-hui, alla Cornell University, scatena la terza crisi con la Repubblica popolare: Pechino accusa Lee di stare muovendosi per ottenere l’indipendenza formale, quindi, poco prima delle elezioni sull’isola, decide di ricordare a tutti che un’invasione non è un’eventualità remota. Nel marzo del ’96 l’Esercito popolare di liberazione imbandisce un’esercitazione e lancia tre missili verso Taiwan: il primo cade a più di 18 chilometri dalla base di Keelung, a nord di Taipei, e degli altri due perdono le tracce tutti, compreso chi dovrebbe controllarne la traiettoria. Secondo gli alti ranghi militari, la colpa sarebbe degli Stati Uniti, rei di aver sabotato il sistema Gps di proprietà americana installato sui missili balistici. Per Pechino è una «umiliazione indimenticabile», la prova di limiti tecnologici enormi e, per conseguenza, un monito a ridimensionare le proprie ambizioni geopolitiche.
Flashforward: 23 giugno 2020. Pechino spedisce in orbita il 55esimo e ultimo satellite del sistema di radionavigazione BeiDou, alternativo al Gps. È il compimento del progetto accelerato dalla «umiliazione» del ’96 ed è evidente che l’impiego dei satelliti costruiti dalla Cina potrebbe rappresentare anche un importante strumento di influenza all’estero. Già nel 2022, Xi Jinping dichiarò la Cina pronta a collaborare con i Paesi del Gulf Cooperation Council, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per il telerilevamento e le comunicazioni satellitari, per l’utilizzo dello spazio e per la selezione e la formazione degli astronauti. L’accordo siglato il 28 febbraio con la Pakistan Space & Upper Atmosphere Research Commission (o Suparco) per addestrare astronauti pakistani e poi farli volare sulla Tiangong, dimostra come anche la stazione attualmente in orbita sarà un formidabile strumento di geopolitica per legarsi a Paesi che vogliano accedervi. Centrali saranno pure le relazioni con la Russia: dopo l’annuncio della base lunare congiunta, i due Paesi hanno firmato un programma di cooperazione spaziale per il periodo 2023-2027.
Fatti che dimostrano come, complici umiliazioni indimenticabili e investimenti (circa 14 miliardi di dollari l’anno) che già superano quelli europei, il ritardo del programma spaziale cinese è stato ridotto e, in alcuni casi, annullato: nel gennaio 2019, l’agenzia spaziale nazionale, la Cnsa, è stata la prima della storia a manovrare un rover sulla superficie nascosta della Luna.
Le dimensioni, il Pil e le infrastrutture spaziali esistenti permetteranno alla Cina di realizzare progetti su larga scala e offriranno opportunità ad altri Paesi, che avranno la possibilità di apportare capacità tecnologiche specifiche, o di contribuire diversamente.
Con una prospettiva nuova, poco realistica fino a poche settimane fa: alla luce della promessa marziana di Donald Trump e della probabile personalizzazione dello spazio Made in Usa, che potrebbero ridimensionare le collaborazioni internazionali, non è escluso che oltre il cielo il pragmatismo della Cina potrebbe farne un leader e renderla seducente non solo per i Brics, ma anche per l’Europa. A quel punto, puntando gli Stati Uniti a Marte, gli orizzonti si tingerebbero di rosso. Non solo oltre l’atmosfera.