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 2025  marzo 03 Lunedì calendario

Dalla diplomazia al Far West, così Trump cancella l’onore

This is gonna be great television», ha esclamato Trump al termine dell’incontro alla Casa Bianca, il 28 febbraio. E davvero l’umiliazione globale del presidente Zelensky è uno spettacolo difficile da dimenticare.
La parte di dialogo che rimbalza sui media è quella centrale, la più violenta ma anche la più classica. Riscrive in versione Far West + Sopranos il dialogo tra gli Ateniesi e i Meli con cui Tucidide immortalò la legge del più forte, e che si ripete identico dai tempi della guerra del Peloponneso a quelli del conflitto ucraino. Ma vale la pena studiare anche altre battute dello spettacolo. Nel modo in cui è stata messa in scena l’eterna anima “noir” della politica si percepisce qualcosa di più contemporaneo, ancora più osceno.
L’attacco a Zelensky comincia alla prima stretta di mano, col dileggio del suo look. «Oggi ti sei messo in tiro!», scherza Trump ammiccando alle telecamere, spalleggiato dal giornalista Brian Glenn che più tardi incalzerà: «Perché non indossi un completo?», ottenendo la risposta: «Lo farò quando finirà questa guerra» – seguita dalla battuta «e forse ne metterò uno migliore del tuo», che mostra come il presidente ucraino, anche lui uomo di televisione, padroneggi le regole del gioco. Zelensky si è presentato vestito di nero in pantaloni cargo, stivali e felpa col tridente ucraino – divisa da leader di un popolo in guerra, che esprime solidarietà con le truppe e coi cittadini – e interpreta la richiesta di mettere giacca e cravatta come un tentativo di sottomissione simbolica.
La prepotenza salta all’occhio se riportata ai precedenti storici (Churchill incontrava politici e capi di stato nella sua iconica tuta nota come “siren suit”) e, soprattutto, alla disinvoltura con cui Elon Musk – lui, sì, un leader che nessuno ha eletto – sfoggia nello Studio ovale la mise total black con cappellino da baseball. Gli spettatori globali deplorano l’onore perduto di Zelensky, ma non si è riflettuto sul cortocircuito creato dalla Casa Bianca. L’onore è uno di quei concetti morali, come la dignità, che sono inseparabili dall’apparenza, dall’immagine che si offre pubblicamente della propria persona e del proprio Status. Questa dimensione estetica e rappresentativa, lungi dall’essere vana, è cruciale in politica. Hobbes l’ha enfatizzata nella sua teoria dello Stato, cui serve un potere assoluto per neutralizzare i conflitti di orgoglio che lacerano la società, ma che a sua volta ricade in una logica di onore quando si confronta con gli altri Stati nell’agone internazionale. La guerra implica sempre la difesa della propria immagine (quella del Paese e dei suoi rappresentanti) e la degradazione di quella altrui: dall’iconoclastia dei simboli identitari all’umiliazione dei dittatori, di cui sono esempi il corpo di Mussolini esposto in Piazzale Loreto o il modo in cui fu percepita la rasatura di Saddam durante la sua prigionia. Meno lampante, ma forse ancora più decisivo, è il fatto che anche la pace passi dal gioco delle apparenze sociali.
Questo è il compito, da sempre, della diplomazia: l’insieme delle pratiche attraverso cui un soggetto politico gestisce le relazioni internazionali, promuovendo negoziati, risolvendo contrasti e favorendo la collaborazione reciproca. La diplomazia, non a caso spesso definita un’“arte”, agisce anche attraverso riti e cerimoniali che si prendono cura dell’amor proprio dell’interlocutore. È pura e semplice cortesia politica, dettata non da futili ipocrisie mondane ma da tragiche priorità di realismo: ci si tratta coi guanti perché si mira all’accordo. Non è un caso che l’arte diplomatica sia stata spesso esercitata da chi aveva ascendenze aristocratiche: in essa si esprime il patrimonio di sensibilità di un ceto sociale che per secoli ha navigato abilmente attraverso le apparenze. Sono nati nelle corti non solo i codici di onore, ma anche i manuali di buone maniere e di «civiltà», come il Galateo di Della Casa o la Civil Conversazione di Guazzo. Si badi bene: non si tratta di un’etica anacronistica, di uno snobismo da antico regime. La nostra civiltà democratica, fondata su valori potenzialmente in frizione con l’apparenza, come l’autenticità e la sincerità, se ne abbevera più che mai nella vita quotidiana: dall’uso del Lei, alle formule e ai gesti di rispetto con cui ci rivolgiamo alla signora anziana in autobus o scriviamo al Magnifico Rettore, fino al politicamente corretto, che nelle migliori intenzioni vorrebbe essere una diplomazia morale all’altezza della cittadinanza contemporanea, multiculturale e cosmopolita.
I mille cerimoniali di cui intessiamo i nostri scambi sono i segnali di una modalità comunicativa, l’entrata nella reciprocità dello scambio: rispetto la tua dignità, il tuo ruolo; intendo trattarti come una pari o come un partner, e mi aspetto lo stesso da te. Solo questo riconoscimento primario, elementare, rende possibile l’intesa, che a sua volta è condizione necessaria per perseguire obiettivi comuni come la pace. Alla finzione della reciprocità democratica si oppone la barbara esecuzione che Trump ha sceneggiato su scala planetaria. Doveva essere un incontro diplomatico per porre fine a una guerra, e si è rivelato un agguato, orchestrato tra le mura di casa, al riparo del proprio apparato simbolico e della propria claque, con insulti, minacce e rimproveri – «non ci hai ringraziati abbastanza!» – in flagrante asimmetria di numero e potere. L’assenza di forme è diventata sostanza. Ovvero, là dove finisce il tatto – ha scritto Adorno in uno dei suoi aforismi più belli – riaffiora la violenza assoluta, priva di mediazioni e di distanze.
La scena primaria del 28 febbraio segna l’uscita brusca da un’illusione di civiltà su cui pensavamo, sbagliandoci, che l’Occidente si fosse assestato con la fine della Seconda guerra mondiale. Show contro show, l’unica risposta adeguata è il gancio con cui Zelensky stende Trump nei meme che circolano in rete. – Applausi.