Corriere della Sera, 3 marzo 2025
Perché non è vero che l’Europa «frega l’America», come dice Trump (ma può sempre farlo, se serve)
Yascha Mounk scrive che le placche tettoniche si muovono lentamente sotto la superfice e il mondo può apparire per anni “statico”. Poi all’improvviso lo stress accumulato diventa così forte che sprigiona onde sismiche e il mondo viene scosso da terremoti. Siamo in uno di quei momenti, per il politologo tedesco che insegna negli Stati Uniti alla Johns Hopkins University. A maggior ragione bisogna distinguere il rumore di fondo dalla sostanza. Una radiografia dei rapporti di forza fra Europa e Stati Uniti conta più di qualunque esca da click.
Donald Trump la settimana scorsa ha detto che metterà nuovi dazi al 25% su tutti i prodotti dell’Unione europea (così è parso di capire) perché quest’ultima – testuale – «si è formata per fotterci» (“The EU was formed to screw us”). Al solito il riferimento è ai rapporti commerciali fra le due aree, che sarebbero squilibrati a nostro favore. Ho già scritto come queste intimidazioni servono anche a forzare noi europei – se vogliamo evitare guai peggiori – a investire in debito pubblico americano per stabilizzarne il costo, dato che quel debito continua a crescere. Oggi vorrei spiegare perché Trump vive in una realtà parallela o, quantomeno, la descrive. In realtà l’Europa è, allo stesso tempo, meno forte e più forte di come appare nella versione del presidente degli Stati Uniti. È meno forte sul piano commerciale e lo sarà sempre di meno. Ma è più forte – più dotata di leve nei confronti dell’America – sul piano finanziario. E in prospettiva lo diventerà sempre di più. Dunque, se il termine non fosse abusato, bisognerebbe concludere che Trump vive in un mondo al contrario. Per lo meno per quanto riguarda noi europei.
Il grafico qua sopra mostra un aspetto dei rapporti commerciali fra Unione europea e Stati Uniti di cui di solito si parla poco. Sono gli “acquisti di diritti di proprietà intellettuale”, in sostanza tutte le volte che a Roma, Milano, Parigi, Berlino o Oporto qualcuno versa cinque euro a Facebook per diffondere un post, si abbona a ChatGPT 4.0 di OpenAI, compra la licenza di un software di Microsoft per le videoconferenze, attiva WhatsApp Business, prenota una stanza su AirB&B, usa YouTube o X (ex Twitter) o si iscrive ad Amazon Prime Video o a Netflix per guardare una serie tv. Guardate come aumentano questi consumi negli ultimi anni e immaginate come continueranno a crescere in futuro. È tutto denaro che viaggia dall’Europa verso gli Stati Uniti, sempre di più. Di solito la filiale di queste piattaforme digitali è basata a Dublino o a Cork; dunque, il servizio viene venduto dall’Irlanda all’Italia o alla Francia. Ma il profitto della filiale risale fino alla casa madre in America e comparirà come un segno più di quest’ultima nei confronti dell’Europa nella bilancia delle partite correnti; cioè, nella misura che tiene conto di tutti gli scambi di beni, servizi e partite finanziarie fra aree economiche.
Dovrebbe essere l’Europa a minacciare dazi
Dico subito che devo queste e altre osservazioni che leggerete qui a Gilles Moec, capoeconomista di Axa che in proposito ha scritto un’illuminante nota pochi giorni fa (“Bretton Woods 3.0”). Su quella base, ho controllato i dati della Banca d’Italia e della Banca centrale europea e scoperto che la verità letteralmente è l’opposto di ciò che Trump dice. Non solo l’area euro non «fotte» l’America, cioè non ha un surplus grande e crescente negli scambi con essa; al contrario ha un deficit verso l’America nella bilancia delle partite correnti. Esso aumenterà con gli anni e proprio Trump ha contribuito a farlo emergere. Se si volesse applicare la sua logica – sottolineo, “se” – sarebbe l’Europa a dove minacciare dazi.
L’America paradiso fiscale delle Big Tech
Cosa voglio dire? Ancora nel 2019 la bilancia delle partite correnti dell’area euro nei confronti degli Stati Uniti era in un forte attivo di 124 miliardi di euro, formato in gran parte da un surplus negli scambi di Bmw o Mercedes, macchinari di fabbrica, abiti di Prada o Louis Vuitton, vini Bordeaux o Antinori. Da allora il surplus europeo è crollato. Sempre di più, fino a che nel 2022 è comparso il primo rosso negli scambi totali dell’area euro rispetto Stati Uniti per 7,5 miliardi di euro. L’anno dopo quel rosso è addirittura salito a 19 miliardi e mi aspetto che continui a crescere. Sapete perché? Perché in anni come il 2019 gli Stati Uniti incassavano dall’Europa circa 15 miliardi per consumi come abbonamenti a Netflix o affitti su AirB&B. Invece già nel 2023 hanno incassato otto volte di più, 128,5 miliardi di euro. Le persone nelle società avanzate consumano sempre più servizi immateriali – soprattutto dopo la pandemia – e quelli vengono quasi tutti dagli Stati Uniti. Ma in parte qui c’è anche lo zampino di Trump. Prima di lui, infatti, le Big Tech vendevano i loro servizi digitali in Europa e poi parcheggiavano i profitti in qualche esotico paradiso fiscale. A valere dal 2017 con il “Tax Cuts and Jobs Act” lui ha voluto una sanatoria sul rientro dei capitali delle grandi aziende americane e ha anche tagliato loro le tasse dal 35% al 21%. Risultato: migliaia di miliardi di debito federale in più, ma migliaia di miliardi in profitti delle grandi corporations che da allora rientrano in America, perché per loro è quasi meglio di un paradiso fiscale.
La nostra dipendenza dai diritti intellettuali Usa
Così l’America è andata in attivo di bilancia delle partite correnti con l’area euro per la prima volta da decenni. E poiché le nostre vite sono intermediate sempre più dalla rete e la rete è controllata dai colossi americani, questo attivo salirà. L’Europa purtroppo è forte in settori meni dinamici o declinanti e l’America lo è in quelli più dinamici. Secondo i dati di Banca d’Italia il nostro Paese sette anni fa aveva un deficit con gli Usa sui “diritti di proprietà intellettuale” (cioè, servizi su internet) di 187 milioni, quadruplicato a 755 milioni nel 2022 e poi ancora quasi raddoppiato a 1.330 milioni l’anno dopo.
La beffa dei dazi
È una beffa che Trump ci minacci dazi. Legge il mondo con lenti del secolo scorso, guarda solo ai beni materiali e anche lì prende abbagli. Per esempio, la farmaceutica è una delle aree di grande surplus europeo; ma molti dei principi attivi farmaceutici che l’Europa ufficialmente vende agli Stati Uniti sono in realtà prodotti in India per multinazionali degli Stati Uniti che li hanno ordinati tramite le loro filiali irlandesi. Quella merce non sfiora neanche i porti europei: sono segmenti di catene di fornitura globali interne a colossi tecnologici americani. Se Trump mettesse i dazi, colpirebbe direttamente imprese statunitensi. Qualcuno prima o poi dovrà spiegarglielo, se possibile non in diretta tv dallo Studio Ovale.
L’esposizione europea
C’è poi un aspetto sul quale la Casa Bianca sottovaluta la forza dell’Europa, invece di esagerarla ad arte. Ma è una forza che può rivelarsi minacciosa per Trump. Il grafico sopra (dati della Bce) rappresenta l’aumento dell’esposizione da parte di soggetti dell’area euro in titoli di debito americani pubblici e privati: salito da mille a 2.500 miliardi. Nell’ultima decina di anni è successo qualcosa di straordinario, perché l’esposizione di investitori, risparmiatori, banche, assicurazioni e banche centrali italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, olandesi e del resto dell’area su titoli americani è praticamente quadruplicata. Erano 3.600 miliardi nel 2013, sono saliti a 13.100 miliardi nel 2024, quasi pari al prodotto interno lordo della zona euro. Abbiamo comprato di tutto noi europei: quote di fondi statunitensi, azioni di società quotate a Wall Street, debito di corporations o del Tesoro.
L’aiuto europeo alle Big Tech
Così molti europei si sono arricchiti e hanno aiutato gli Stati Uniti, in particolare le loro Big Tech. Da metà dello scorso decennio il “quantitative easing” della Bce ha sprigionato migliaia di miliardi di euro, che gli europei hanno investito in buona parte proprio in America. Dal 2013 all’anno scorso, il valore delle azioni quotate a New York in mano a soggetti dell’area euro è salito da 1.800 a 6.500 miliardi: un incremento senza precedenti, per un quarto spiegabile con la massa di denaro riversata dall’Europa su Wall Street e per tre quarti l’aumento di prezzo proprio di quelle azioni. In gran parte erano (e restano) le “Magnifiche Sette”, i grandi gruppi tecnologici che da soli valgono un quarto di tutta la borsa americana. Così l’Europa ha aiutato le Big Tech a crescere immensamente di valore, mentre quelle stesse Big Tech usavano proprio quel valore azionario astronomico come moneta di scambio per inglobare senza fatica migliaia di altre aziende tecnologiche. Anche in questo modo, quelle sono diventate oligopoliste. Alla costruzione del dominio oligarchico di Elon Musk, Mark Zuckerberg o Jeff Bezos anche noi abbiamo portato il nostro mattoncino (più di uno), con i nostri soldi.
Auto, debito e Big Tech: perché l’Europa non «frega l’America», come dice Donald (ma può sempre farlo, se serve)
L’area euro è il maggiore creditore estero degli Usa
Dov’è allora la forza dell’area euro? Dove può avere il coltello dalla parte del manico con Trump? Qua sopra, composto da Axa, c’è il grafico sulle parti del mondo che oggi hanno in mano la quota all’estero dell’enorme debito pubblico americano (cresciuto ormai fino a valere un terzo del Pil del mondo). Dall’esposizione sovrana sull’America sia la Cina che il Giappone si sono progressivamente disimpegnati, piuttosto in fretta. Invece i titoli di debito federale statunitense in mano a soggetti dell’area euro sono saliti in modo esponenziale, in valore, da 197 miliardi di dollari nel 2006, a 653 miliardi nel 2013, fino a 1.452 nel 2023 (dati del Tesoro Usa). Oggi la zona dell’euro, presa nel suo complesso, è il principale creditore estero del maggiore debitore del mondo. E continua a comprare: il capoeconomista della Bce Philip Lane mostra che da questa parte del mondo stiamo comprando carta sovrana americana (oggi, di Trump) per poco meno di cento miliardi al mese, fra titoli nuovi e rinnovi di quelli scaduti.
Siamo come la Cina di inizio secolo
In altri termini, l’Europa è il compratore determinante per fare il prezzo: quello che chiude lo scarto fra domanda e offerta (sempre più vasta) di debito americano. Siamo nella posizione in cui si trovava la Cina all’inizio del secolo, in una simbiosi finanziaria con quello che rischia di diventare un nostro avversario strategico. Ricicliamo in America parte del surplus accumulato commerciando con il resto del mondo. Questo mette a nudo la contraddizione in cui versa Trump: se ci costringe con i dazi a ridurre i nostri surplus e la nostra generazione di risparmio, chi comprerà il suo debito sempre crescente?
Se l’Europa rallentasse gli acquisti, i tassi d’interesse di mercato negli Stati Uniti schizzerebbero verso l’alto, il Tesoro Usa andrebbe in difficoltà e l’economia probabilmente in recessione. Oggi infatti ben un terzo del debito americano è all’estero e su quello è l’area euro che, nella sostanza, determina gli equilibri. Generare tensione in quel mercato estremamente può essere pericoloso anche per l’area euro, ma la dottrina nucleare insegna: avere in mano l’arma atomica aiuta sempre a negoziare – e dissuadere dall’aggressività – un’altra potenza che minaccia di distruggerti.
Conosco l’obiezione: l’Europa non è la Cina, dove il partito decide tutto; da noi gli investimenti fatti in America sono frutto delle decisioni libere e indipendenti di migliaia e migliaia di diversi operatori privati, che non si coordinano fra loro. Ma quasi tutti hanno i loro regolatori a Francoforte o nelle capitali e questi possono fornire loro, discretamente, consigli. Perché non è mai troppo tardi per l’Europa iniziare a ragionare anche in modo strategico. Non solo tecnocratico.