Anteprima, 24 febbraio 2025
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Biografia di Fiorenzo «Fiore» Corona
Fiorenzo «Fiore» Corona (1950-2025). Titolare del bar La Belle Aurore di Milano (via Abamonti, angolo Castel Morrone). Morto per le complicazione di una polmonite. «Uscito da una militanza nel movimento studentesco, di cui parlava volentieri, aveva deciso a metà degli anni Ottanta di aprire il locale insieme ad altri soci. In precedenza doveva averle date a più di un fascista e rimane meravigliosa, tanto che non ho mai voluto appurarne la veridicità, la storiella secondo la quale negò la colazione a un noto politico di destra. Il passo dinoccolato e il corpo tozzo, la bocca carnosa e il sorriso beffardo, Fiore era burbero, affettuosissimo, guascone, ironico. Con gli occhi penetranti e la risata soffocata, che a me ricordava il Muttley della Corsa più pazza del mondo, dava un’anima, un timbro, a un locale che con il tempo è diventato un pezzo storico di città. Brusco, ma tenerissimo, ti accoglieva con un fluido: “Buonasera, signorina, buonasera…” che riecheggiava Fred Buscaglione. “Il solito”, poi si appoggiava al ripiano e se ne stava lì a rimuginare, un po’ sentinella notturna, un po’ uomo che pensa, sempre più distante con il passare degli anni, nel paradosso di quelle orecchie enormi dall’udito sempre più fragile. Inconfondibile, con quel cranio alla comandante Kurtz e il corpaccione alla Harvey Keitel, era un uomo che di lezioso aveva solo il nome. Ogni tanto passava per i tavoli e la sua carezza era una tenaglia al nervo della schiena da cui non ti ripigliavi più. Aveva un’opinione su tutto e te la imponeva in poche parole, bofonchiando uno strascicato “Hai capito?”. Gli piacevano le donne: aveva lo sguardo di un uomo che le aveva conosciute bene e davanti a una femmina usciva volentieri dal bancone per il piacere di un abbraccio. Ogni tanto, quando era in vena, ti invitava garbatamente a levarti dalle palle senza pagare. Imponeva al locale regole inflessibili (e fantastiche, nella loro incongruenza). Sì, ci si può sedere in dieci intorno a un tavolino. No, non si possono unire i tavolini. Sì, si può spalmare la salsa al tonno su un crostino al bancone. No, non si possono accumulare i crostini e portarseli al tavolo: al tavolo arriva un vassoio sempre e unicamente composto da patatine, nachos e tremendissimi popcorn. È sempre stato gioioso vedere la gente stupefatta perché, in una città che nella smania di essere friendly ha sputtanato quasi ogni quartiere, c’era qualcuno di sanamente antipatico che ti rispondeva con quella che Emily Dickinson chiamava la parola più selvaggia della lingua. “C’è il wifi?” “No” “Ce l’hai una Ipa?” “No” “C’è un piatto di pasta per l’happy hour?” “No” “Voi fate l’aperitivo?” “No” “Perché non mettete della musica? O uno schermo?” “Prego, la porta è quella”. […] Era bello arrivare quando Fiore tirava su la serranda e vedere la sua faccia disgustata. “Già qua?” “Che vuoi farci: è stata una giornata dura”. Oppure piombare lì a tarda sera per un ultimo bicchiere confortante, dopo una serata letteraria noiosa, e vedere stagliata sulla porta la sagoma inconfondibile, con la brace accesa a intermittenza. Aveva ricominciato a fumare dopo i settanta. “Che cazzata”, avevamo commentato tutti. Ma se in questi ultimi anni le sigarette gli hanno dato piacere, bene così» [Rossari, RivistaStudio].