21 gennaio 2025
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Biografia di Pablo Echaurren (Pablo Miguel Papageno Matta Echaurren)
Pablo Echaurren (Pablo Miguel Papageno Matta Echaurren), nato a Roma il 22 gennaio 1951 (74 anni). Artista. Fumettista. Saggista. Scrittore.
Titoli di testa «Considerato dalla critica internazionale uno dei pochi artisti in grado di esprimersi a pari livello in numerosi campi creativi, dalla pittura alla scultura, dalla grafica al fumetto, dal cinema alla letteratura» [Lauretta Colonnelli, Cds].
Vita Figlio del celebre pittore cileno Roberto Matta (Roberto Sebastián Antonio Matta Echaurren) e della terza delle sue cinque mogli, l’attrice siciliana Angela Faranda (Angiola Maria Faranda). «Pablo come Neruda per volere del papà, […] e Papageno come il protagonista del Flauto magico di Mozart per desiderio della mamma» [Carlo Vulpio, Cds] • «non amo, non ho mai amato mio padre» [ad Antonio Gnoli, Rep] • «Mio padre […] se n’è andato nel 1954 e mia madre si è sbrigata un figlio in solitudine: allora non era usuale. […] Lui giocando con Duchamp diceva che era un padre trasparente, si nobilitava un po’. Diciamo che era abbastanza assente: da bambino lo vedevo le poche volte che passava per Roma. Alloggiava al Plaza o all’Hassler, pranzavamo in un ristorante pomposo, tipo Ranieri, faceva il suo riposino pomeridiano, poi andavamo al cinema o a una mostra e tornavo a casa. Da lui ho avuto un po’ di dirozzamento, però non mi ha mai parlato molto d’arte o del suo lavoro» • «Matta lasciò la famiglia quando il figlio era ancora piccolo e Pablo crebbe introverso, ansioso e ribelle. Da bambino restava chiuso nella sua camera, circondato da libri e figurine di dinosauri. “Volevo fare lo zoologo, l’entomologo, il paleontologo. Avrei voluto specializzarmi nei coleotteri. Leggevo Jean-Henri Fabre piuttosto che Salgari”. Nasce da lì la mania di catalogare, espressa nei primi disegni inscritti in una serie di quadratini, e l’immaginario di mostri che oggi riempiono i suoi grandi quadri. Poi arrivarono i Beatles. “Una rivoluzione per la musica e per l’immagine che un maschietto aveva di sé: quella di un uomo non più macho, ma con movenze gentili, l’inchino, le scarpe coi tacchi”. A sedici anni frequentava il Piper. “Mi facevano entrare gratis perché avevo un aspetto un po’ esagerato: capelli lunghi e stivaletti a tacchi alti, che a Roma era difficile trovare. Me li facevo fare da un calzolaio compiacente, che però mi guardava con aria compassionevole pensando che fossi gay”. Abbandona i coleotteri e decide che da grande farà il bassista. “All’epoca in Italia il rock era considerato roba sospetta, ammantata dal più fitto mistero, come ogni divinità che si rispetti. I dischi più tosti venivano introdotti nel nostro Paese da indomiti borsari neri che facevano la spola con i Paesi sopra-sviluppati. E sulle copertine noi ricamavamo. Quando mi capitava tra le mani una foto degli Stones, non mi soffermavo tanto su Mick, Keith, Brian o Charlie, ma mi incantavo su Bill il bassista, il meno bersagliato dalle attenzioni delle fan. Il più sfigato, ma non per me, che lo vedevo come il più forte dei cavalieri, di quelli che senza troppe manfrine reggono i destini della propria gente. Impassibile, imperscrutabile, emaciato, concentrato sul giro di basso e distaccato dalla baraonda che circondava la band, mi riconciliava con la mia umbratile condizione di isolato”. Pablo acquista il suo primo basso, un Framus usato, lo stesso tipo usato da Bill, e comincia a suonare in un complessino. “Ma ero una schiappa. Sperando che dipendesse dallo strumento e non dalla mancanza di talento musicale, svendo la mia robusta collezione di francobolli dello Stato Pontificio e compro un signor Precision. Credevo che un Fender avrebbe fatto di me uno scafato musicista. Restavo una sega totale. Così appesi il basso al chiodo, e amen”. A diciott’anni, ancora sui banchi del liceo, incontra Gianfranco Baruchello, che lo inizia alla pittura. Il basso lo dimentica a casa della madre, che dopo un po’ lo regala a un ragazzetto di passaggio. “Oggi varrebbe una bella cifra”» [Colonnelli, cit.] • So che ti chiamavano “Paino”. «È vero, nelle lettere sia Calvino che Baruchello usavano spesso iniziare con “Caro Paino”». Paino è il bellimbusto, il gagà, quello che ostenta la propria eleganza. «Era una balia che mi chiamava “Paino”. La mia eleganza non ha mai superato i trenta euro per l’acquisto di una camicia» [a Gnoli, cit.] •«“Non ho mai parlato di nulla con mio padre, lui non è mai venuto a una mia mostra. Il mio vero padre è stato Gianfranco Baruchello, che ho cominciato a frequentare nel 1967. Baruchello mi ha spiegato e fatto conoscere tutto. Senza di lui non avrei mai intrapreso questa strada”. Ma evidentemente c’era nel tuo Dna il gene dell’arte, insomma avevi un talento naturale. “Non credo di avere un gran talento. Ammetto però che da ragazzino facevo t-shirt per gli amici disegnandoci sopra con i pennarelli, ma semmai il segno e il disegno mi derivavano più dalla passione per la musica, dalle copertine dei dischi, che non dall’ammirazione dei quadri che erano in casa”» [a Bruno Di Marino, in Pablo di Neanderthal. Arte, evoluzione e bricolage] • «Baruchello, l’ho conosciuto a una festicciola a casa sua: lì ho scoperto il primo libro futurista e i suoi quadri fatti di figurine minute, fumettistiche. Ci siamo incuriositi a vicenda, all’inizio l’ho copiato proprio. […] Anche il mio amore per Duchamp, evidente nei miei “quadratini”, nasce da lui. Malgrado mio padre fosse uno dei pittori più amati da Duchamp, da lui non è venuto nulla che me lo facesse amare, immettere nel mio lavoro. […] Nei miei quadratini ci sono sassi che si muovono, smottamenti: lì pensavo al Grande vetro di Duchamp, a un quadro che raccontasse un mutamento. Erano visti come paesaggi, figurazioni, ma erano anti-pittura, tavole di concentrazione, un po’ come le immaginette sacre. Queste prime prove, più che immature, Baruchello le ha portate dal suo gallerista, Arturo Schwarz, e quello ha comprato tutto, a due lire. Al liceo andavo male in tutte le materie, e mi sono detto: due soldi così li guadagno, la finisco qui. Infatti feci pochi anni all’università. Insomma, è stato un incontro iniziatico, fondamentale: senza di lui non avrei fatto questo lavoro. Forse sarebbe stato un sollievo» • «Così a 19 anni me ne andai via da casa e, tra il 1969 e il 1976, ho fatto l’artista con i soldi di Schwarz, che mi organizzò mostre a Zurigo, Basilea, Berlino, New York, Filadelfia». […] Oltre a Baruchello quali altri artisti hai frequentato negli anni Settanta? «Ero un ragazzino e diventai amico di persone più grandi di me, tra cui Angeli, Scialoja, Mambor, Kounellis, Twombly». Schifano? «No, era troppo egocentrico. Ricordo che una sera mi trovai a cena con Gianfranco e Schifano, che, con le mani sporche di colore, disse a Baruchello: “Tu vuoi fare l’intellettuale, io voglio fare il pittore”. Ecco, in quel momento ho compreso di non essere un pittore». […] Poi però hai scelto di allontanarti dal sistema artistico, iniziando la tua attività militante. «I miei quadretti erano pieni di bandiere rosse: incontrai Adriano Sofri, che mi chiese di collaborare a Lotta continua. Poi nel 1976 ho iniziato a disegnare copertine per l’editore Savelli, la più celebre delle quali resta Porci con le ali. Al di là dell’exploit del libro, anche la mia copertina ottenne un certo successo, tanto che alcuni collezionisti e curatori con cui stavo lavorando all’epoca, con un certo disappunto, mi chiesero: “Ma io ho in mano dei quadri o delle illustrazioni?”. Questa cosa mi diede da pensare, poiché ero convinto che fosse giusto diffondere l’arte a quante più persone possibile. Quel momento coincise infine con l’esplosione del 1977 e con la scelta di chiudere lì la mia “carriera” di artista». Ti sei mai pentito di quella scelta così radicale? «No, affatto. Ricordo che Vincino disegnò una vignetta in cui mi sfotteva, scrivendo: “Dai Pablo, non rompere le palle e chiama un gallerista!”. Ma io ormai ero uscito dal giro, campavo grazie a Savelli e alle 5.000 lire al giorno del giornale. Ero anche un indiano metropolitano: con gli Indiani ho realizzato il sogno di uccidere l’arte per realizzarla nella vita» [Di Marino, cit.] • «Uno dei capi del Movimento fece un volantino contro di me e lo diffuse all’università: “Tu credi di aver con te Tzara e Breton, ma da te spira puzzolente l’alito di Marinetti e di Giannini”. Fascismo e qualunquismo, per loro». E dunque, scrive Pablo, […] «a me, indiano, mi prese di petto un autorevole reduce del Sessantotto, nella speranza che alle sue argomentate contumelie io mi cagassi sotto. Viceversa, invece di indignarmi, presi a intignarmi…» [Stefano Di Michele, Foglio] • «All’epoca un mio carissimo amico, Roberto Palazzi, anche lui all’interno del Movimento, mi disse: “Andiamo a cercare Marinetti sulle bancarelle”. Da quel momento sono diventato il massimo collezionista di pubblicazioni futuriste» [Di Marino, cit.] • «Da lì mi sono appassionato, e ho capito che in realtà tutte le avanguardie – dadaismo, surrealismo, tutto quello che è venuto dopo – discendono appunto da quell’“alito puzzolente” di Marinetti, che invece per me profuma di rose». «Sentivo anche una sorta di orgoglio italiano: mi stavano spacciando per figlioletto del dadaismo, mentre io mi sentivo figlioletto del futurismo». «Finisce tutto nei giorni tragici di Moro. “La violenza non m’è mai piaciuta, il rapimento di Moro fu un autentico choc. Mi rifiutai di aderire all’operazione del giornale satirico con cui collaboravo [Il Male – ndr]: la foto di Moro prigioniero delle Br, in camicia, con sotto la scritta ‘Scusate, abitualmente vesto Marzotto’. Io pensavo che la satira dovesse avere dei limiti: mi rispondevano che la satira non doveva avere dei limiti. Io dicevo che già cinque uomini della scorta di Moro erano stati uccisi perché lui potesse vestire Marzotto, se lo voleva. E poi c’era la condanna a morte sulla sua testa… Pensieri che mi portarono alle dimissioni. Fu un periodo di grande depressione, molto grave. E cominciò la mia discesa al futurismo”» [Di Michele, cit.] • «Il futurismo, l’ho davvero compreso con la fine del Movimento, quando mi sono trovato completamente spiazzato, poiché avevo rifiutato la mia precedente condizione scegliendo di non fare più l’artista bensì l’attivista. Ho rivissuto il medesimo clima di disillusione di cui parla in alcuni scritti Boccioni durante la Prima guerra mondiale. Con i futuristi ho riscoperto che si può ricostruire l’universo anche senza distruggerlo». […] Negli anni Ottanta è arrivato il fumetto, e hai inaugurato una nuova fase della tua ricerca estetica. «Sì, diciamo che con il collezionismo dei materiali futuristi mi sono riavvicinato all’arte e alla mia anima da ricercatore. Con la fine del Movimento mi sentivo disorientato, perché crollava la convinzione di poter operare collettivamente e fuori dalla cornice delle gallerie. Accadde però che Vincenzo Mollica mi invitò a partecipare a una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma. La mostra si chiamava Nuvole à gogo ed esponevamo io, Altan e Andrea Pazienza. Mollica mi chiese di provare a disegnare un fumetto e io mi inventai “Sto Picasso, in cui facevo incontrare il signor Bonaventura di Sergio Tofano (in arte ‘Sto’, appunto) con Les demoiselles d’Avignon. Ne venne fuori una dichiarazione d’intenti: fumetti e pittura possono andare a braccetto». […] Che tipo di modelli hai avuto nel campo del fumetto? «Mi considero disneyano, anche perché non mi è mai piaciuto il fumetto antropomorfo, alla Tex Willer. A casa da bambino avevo grandi riproduzioni di Miró e ci vedevo dentro una sorta di Mickey Mouse scomposto. Mi sono nutrito di una cultura visiva “alta”. […] Sul mio letto avevo l’immagine di Guernica, che per me era un po’ come un fumetto. Detto questo, ho attinto dai paesaggi di Tin Tin, ho utilizzato quella che Hergé definisce “la linea chiara” coniugandola col segno di Baruchello». Da quel momento cosa è cambiato per te? «Ho cominciato a pubblicare su Linus, Alter alter, Frigidaire. Mi sono sentito liberato in quanto “fumettaro” […]. In seguito qualcuno ha scritto che, con il mio Marinetti a fumetti (uscito nel 1985 su Linus), sono stato un anticipatore della odierna graphic novel, termine che a me non piace perché sembra che ci si vergogni di usare il termine “fumetto”» [a Di Marino, cit.] • «In seguito Pablo incontra sulla sua strada i graffitisti, e in parte li affianca (anni Ottanta e Novanta), dando vita a ballate multiformi come scosse elettriche di teschietti seriali e colorati: una sorta di sfida allegra alla morte e all’essere, al tempo stesso, ancora una volta impegnato in ambiti sociali» [Claudia Colasanti, Fatto] • Quella volta nel 1983 che Piero Fornasetti gli chiese di fare un ritratto della Bardot «e così che gli disegnai una B.B. fatta a pezzi, frammentata, come in un puzzle, una tessera qua e una là, alla rinfusa. Tipo quei fastidiosi tiramisù scomposti che vanno per la maggiore tra i cuochi incapaci. Non ne andavo particolarmente fiero ma lui, Fornasetti, era uno oltremodo generoso e scelse proprio il mio piccolo disegno per ingrandirlo, riprodurlo e fargliene omaggio, personalmente. Era indiscutibilmente un ardimentoso, anche. Ne stampò cento copie e gliele consegnò per l’approvazione, servivano per finanziare una campagna anti vivisezione. Ma lei (lei Brigitte) appena le vide andò su tutte le furie, si adirò, per usare un termine purgato. Non ci stava ad essere così brutalmente smembrata, seppure in effigie. Gli disse che quelle labbra non erano le sue, il naso e i capelli neppure. Era tutto sbagliato. Ma non ero mica Picasso io, non pretendevo di riuscire a rendere graficamente la sua bellezza Rock‘n’ Roll. Non ero certo all’altezza dell’icona più esplosiva del Novecento. C’è Pablo e Pablo» [Echaurren, Domenicale] • «Nel 1997 viene nominato accademico di San Luca. Ma, accademico sui generis, fonda il Partito del Tubo, una sorta di comunità mediatica, che, all’interno del Progetto Oreste, è invitato alla Biennale di Venezia nel 1999. […] Il suo lavoro ha sempre mantenuto un intenso rapporto con i movimenti e il sociale. Dall’esperienza di un laboratorio artistico nel carcere romano di Rebibbia è nato il film Piccoli ergastoli, presentato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia nel 1997. […] Contemporaneamente all’attività di artista visivo Echaurren coltiva un legame profondo con la scrittura, cimentandosi come corsivista su numerose testate sia over che underground. […] Autore di saggi (Controcultura in Italia, 1999; Il suicidio dell’arte, 2001; Nel paese dei bibliofagi, 2010), romanzi e racconti (Compagni, 1998; Delitto d’autore, 2002), ha pubblicato anche una serie di biografie illustrate, dedicate a F.T. Marinetti, Tristan Tzara, Picasso, Dino Campana, Ezra Pound, Vladimir Majakovskij ecc. […] Mostre sulle sue opere si sono tenute in varie parti del mondo. Per i 150 dell’Italia unita le sue quattordici tavole dedicate ad altrettanti articoli della Costituzione sono andate in mostra al Palazzo del Quirinale con la benedizione del presidente Giorgio Napolitano e la presenza di oltre tremila studenti il giorno di apertura dell’anno scolastico 2011/2012» [Davide Fent, ilgiornaleoff.it] • Da ultimo Adotta un artista e convincilo a smettere per il suo bene (con note a margine di Gianfranco Sanguinetti, Kellermann, 2021) • Sta lavorando a qualcosa di nuovo? «Preferisco sempre di più il “non fare” all’idea di dover sfornare incessantemente sempre nuove cose. Io ho una visione nera del futuro» [ad Angela Marina Strano, siciliaedonna.it] • «Le varie fasi della sua carriera: dalle magnifiche sculture maiolicate ispirate a Faenza ai collage fatti con frammenti di pubblicazioni futuriste, dalle illustrazioni delle favole di Esopo ai libri, dai dipinti in cui si celebra il basso elettrico a quelli dove si canta la Natura come esplosione di spore» [Colonnelli, cit.] • «Dopo tanta saturazione e bulimia visiva, oggi Pablo realizza poco, e le sue opere sono all’insegna della “sottrazione” » [Di Marino] •
Curiosità «Per anni non ho votato. Il Pci poche volte, e mai negli anni Settanta. Ho votato i radicali, i Ds, aspetta, come si chiama adesso quella roba lì, il Pd, ecco… In sostanza, della politica non m’importa un granché» • «Le dottrine mi danno angoscia e fastidio: cerco di spezzare il collare. Nei movimenti ci sono stato da cane sciolto, sgradito alla parte più ortodossa e leaderistica. Proprio l’essere stato in quella realtà omologante mi ha portato a fare cose considerate tabù: leggere Céline, Pound, Marinetti, i futuristi, visti allora come cascami del fascismo. La mia voglia di uscire dagli schemi mi ha portato a conoscere altri mondi […]. La vita è un casino, uno strano insieme di vasi comunicanti. Bisogna smettere di cercare di mettere ordine, ma cogliere qua e là: chi rimane fermo rischia di non capire nulla del mondo che sta vivendo. Io mi lascio andare» • Nel 2010 dichiarò che il suo scrittore preferito era Antonio Pennacchi, «il più grande scrittore italiano» • «Dice di sé, a volte, Pablo Echaurren che è “una betoniera”, proprio di quelle da cantiere edile, “nel senso che ho macinato un po’ di tutto”, e altre volte dice che è “un artista criceto”, quel mite sorcetto che va e rivà sulla ruota in eterno, “ho il problema del dover fare, dell’horror vacui… mi terrorizzerebbe non produrre oggetti tangibili e accumulabili, come lo scoiattolo fa con ghiande, noci, nocciole”. […] E mischia e confonde e spiazza: “Ho confuso molto le acque. Le ho confuse io nella mia testa, le idee, e ho cercato di confonderle, le acque e le idee preconcette, anche agli altri”» [Di Michele, cit.] • «Quello che sento è la morte, lo spazio che si restringe intorno a me, giorno per giorno. Se tu osservi con attenzione i miei disegni, vedrai che ci sono teschi dappertutto…». E infatti dappertutto sono, persino su una mucca grottesca che sembrava gioiosa: spuntano tra folle compatte, su un meraviglioso rinoceronte blu, vicino a un fungo rosso e di sicuro velenoso… Persino la neve, su certe piante, a forza di guardare non sembra più neve, ma lacrime. […] «Quindi, tutto quello che può sembrare giocoso non ha nulla di lieto» [Di Michele, cit.] • «Non ho forse realizzato capolavori, ma penso di aver tracciato, all’interno dei vari linguaggi, un percorso umano e creativo con un suo senso. Per paradosso negli ultimi dieci anni ho fatto solo mostre in musei importanti, come la grande personale alla Gnam o al Museo Nacional de Bellas Artes di Santiago del Cile. Altre opere sono entrate nelle collezioni del Museo del Novecento a Milano, del Maxxi e del Macro. Diciamo che sto avendo dei riconoscimenti “postumi”, come se fossi morto» • «Il senso della musica, assicura, è rimasto più forte di quello della pittura. Soprattutto il ritmo. Così sua moglie […] gli regalò un basso simile a quello che aveva avuto da ragazzo. “Per prendermi in giro. Non si rendeva conto che disastro sarebbe stato per me. Mi trovavo di fronte al sogno incompiuto della mia vita”. Da allora non può fare a meno di acquistare bassi. Ovunque li trovi» [Colonnelli, cit.]
Amori Sposato con la storica dell’arte Claudia Salaris, grande esperta di avanguardie e in particolare di futurismo. «Claudia e io stiamo sempre insieme, appiccicati, pappagallini inseparabili, inossidabili fin dal lontano 1977, anno terribile per molti, anno mirabile per noi piccioncini peynettini che da allora condividiamo ogni istante della vita, ogni forchettata, ogni libata».
Titoli di coda «Non mi annoio mai, perché quando arriva la noia mi sposto altrove».