Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 30 Giovedì calendario

Biografia di Guido Barbujani

Guido Barbujani, nato a Adria (Rovigo) il 31 gennaio 1955 (70 anni). Genetista. Scrittore. «Le razze non esistono. Esiste il razzismo» • «Barbuglio. Si tratta di una frazione di Lendinara, provincia di Rovigo. […] Mio zio Renzo, scomparso nel 1986, ha studiato i registri parrocchiali: nascite, battesimi, matrimoni, morti. Ci ha trovato che nel ’500 qualcuno è migrato da Barbuglio ad Adria, e li hanno chiamati Barbujani. Se non ricordo male, il primo Barbujani da lui rintracciato faceva il campanaro, in controtendenza con i suoi discendenti attuali, poco avvezzi alle sagrestie. […] Ma esiste un’altra versione dei fatti, sempre collegata agli studi di mio zio Renzo. Enzo e Giorgio Barbujani mi hanno regalato una stampa dell’albero genealogico, da cui si evince che loro e io condividiamo un bisnonno, Antonio, ma non una bisnonna. Secondo voci che però non trovano conferma, Renzo alla fine sarebbe arrivato a concludere che in realtà Barbuglio abbia preso nome da noi, i barbuti: abili costruttori, arrivati in Polesine dalla Lombardia, e prima ancora dal Sud della Francia. In effetti, mio padre era ingegnere. […] Restiamo ai fatti: per Barbuglio, i nostri antenati ci sono pur passati, e io avevo cinque anni quando da Adria siamo andati a stare a Ferrara: dall’altra parte del Po, ma sempre lì vicino. Insomma, ci sono voluti quattro secoli perché alcuni Barbujani percorressero 46 chilometri dal posto d’origine, a una media di 100 metri l’anno, o poco più». Figlio di Fernando Barbujani, partigiano del Corpo volontari della libertà col nome di battaglia Adria, e di Ida Zen, a propria volta figlia di Cesare Zen, membro del Partito d’azione e presidente del locale Comitato di liberazione nazionale nonché primo sindaco di Adria nel secondo dopoguerra. «Cosa ricorda della sua infanzia ad Adria e nel Polesine? “Ho vissuto ad Adria fino ai 5 anni, poi mio padre, che era un ingegnere della bonifica del Delta del Po, è stato trasferito a Ferrara. Il mio nonno materno era Cesare Zen, il primo sindaco della città del dopoguerra; mia madre giocava con i figli di Matteotti. Una famiglia chiaramente antifascista: mio nonno, nel 1944, fu catturato dai ‘neri’ e doveva essere fucilato a Villamarzana, ma il picchetto sparò in alto; pensarono di ammazzarlo ad Adria, ma venne condotto in prigione a Padova, e, insomma, i fascisti della zona realizzarono che era meglio risparmiarlo per avere un credito da giocare verso i futuri reggitori del Paese”. È stata un’infanzia felice? “Sì. Mio nonno aveva una fabbrica vicino alla stazione: da piccolo andavo in zincheria, parlavo con gli operai e li osservavo. Potrà sorprendere, ma è stata parte della mia formazione. Ma ho anche un brutto ricordo: un giorno un vicino uccise a fucilate il nostro cane, Black. Fu un trauma”» (Bruno Cera). «Chi ti ha insegnato a leggere e scrivere? “Una prozia, maestra in pensione, all’età di quattro anni. Viveva al piano di sotto. Mai che mi abbia dato più di 7, era severa; però alla fine mi preparava un piatto di patate lesse con il prezzemolo, che purtroppo non facevano parte dei menù di mia madre”. Volevi fare lo scrittore già da piccolo? “Da piccolo piccolo sì, poi però per decenni l’ho giudicata una prospettiva eccessivamente ambiziosa. Ancora adesso non sono ben sicuro di essere un vero scrittore. Temo che non ne siano sicuri neanche i miei editori”» [Bompiani.it]. «Gli studi? “Mi sono iscritto a Biologia, all’Università di Ferrara. Nei primi tempi, dopo la laurea, ho lavorato all’ufficio studi della Cgil”» (Cera). «Subito dopo la laurea non sapevo cosa fare. All’epoca la politica contava più di tutto, e poi preferivo i romanzi ai saggi scientifici: non mi ci vedevo, a occuparmi di genetica per tutta la vita. Un amico mi dice: dai, vieni a Firenze, parleranno Gould e Lewontin [Stephen Jay Gould (1941-2002) e Richard Lewontin (1929-2021), celebri biologi dell’evoluzione statunitensi – ndr]. Conoscevo i loro nomi e poco più. Il congresso era in un posto magnifico, al Forte del Belvedere, ma ancora più impressionanti della location sono state le conferenze. Ascoltavo le parole di Lewontin, quelle di Gould, e non riuscivo a star fermo sulla sedia. A ora di pranzo sono sceso in città, volevo rivedere gli affreschi di Masaccio al Carmine. Mi è andata male: tutto chiuso. Davanti al portone, delusi, c’erano Richard Lewontin e sua moglie. Non posso dire che l’ho pensato distintamente, ma dev’essere stato in quel momento che ho intuito come la distinzione fra discipline scientifiche e umanistiche sia un’assurdità, e che uno può, anzi deve occuparsi di tutto, perché siamo umani e nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Non so quanto ci abbia guadagnato la genetica, da quella folgorazione; io molto, come persona». «Nel 1983 mi si è aperta l’occasione di diventare ricercatore nello stesso ateneo [quello di Ferrara – ndr] e l’ho afferrata; poi Stati Uniti, Londra, Padova, Bologna e a ancora Ferrara». «Docente di Genetica e Genetica delle popolazioni all’Università di Ferrara, si distingue per la personalità eclettica e arguta. Lavora a diversi temi di ricerca, tra cui lo studio genetico delle popolazioni umane antiche, con particolare riferimento al contesto europeo, e lo studio dei meccanismi che regolano il flusso genico e l’isolamento genetico. […] Le sue attività di ricerca sono conosciute a livello nazionale e internazionale. Il gruppo di ricerca che presiede all’Università di Ferrara si distingue per i risultati pubblicati sulle maggiori riviste scientifiche internazionali. Tra le linee di ricerca, viene studiata la variabilità umana comparando i risultati con i dati ricavati dal contesto linguistico, archeologico e paleodemografico: può spiegarci, a grandi linee, come viene organizzata una ricerca di questo tipo? “L’idea di partenza è che la storia dell’umanità ha lasciato tracce nella nostra diversità genetica, nella cultura materiale e nelle lingue che parliamo. Lo stesso fenomeno può avere avuto effetti diversi a ciascuno di questi livelli. […] Confrontandoli si possono capire molti aspetti del nostro passato che sarebbero altrimenti impossibili da ricostruire. Per esempio, i dati genetici si sono rivelati importantissimi per capire in che modo si è diffusa l’agricoltura in Europa, al principio del Neolitico, ma gli studi genetici sono stati possibili perché gli archeologi ci hanno fornito due ipotesi da confrontare, cioè la diffusione attraverso contatti culturali e la diffusione attraverso un’espansione demografica (e abbiamo visto che i dati genetici sono decisamente più a favore della seconda che della prima)”. […] Dopo aver concluso, in uno studio del 2004, che il Dna etrusco non è affine a quello anatolico, smentendo così la teoria secondo cui gli Etruschi emigrarono dall’Anatolia, […] ha pubblicato sulla rivista PNAS uno studio che esclude la possibilità che i moderni toscani siano i discendenti degli Etruschi. Che cosa è possibile dire sull’origine di questo popolo e sulla sua scomparsa, ammesso che si possa definire tale? “Non moltissimo, temo. Abbiamo visto che, di tutte le popolazioni europee, i toscani sono quelli che assomigliano di più agli Etruschi. Abbiamo anche visto che le popolazioni anatoliche sono le seconde più simili, più ancora delle altre popolazioni italiane. Quindi qualche rapporto con l’Anatolia probabilmente c’è stato, anche se non possiamo dire se si tratti di origini comuni o di scambi migratori più recenti, magari legati a contatti commerciali. E infine abbiamo dimostrato, con delle complesse simulazioni al calcolatore, che le somiglianze fra Etruschi e toscani ci sono, sì, ma sono molto inferiori a quello che ci si aspetterebbe se i primi fossero gli antenati diretti dei secondi”» (Moreno Tiziani). «Padova, basilica di Santa Giustina, 17 settembre 1998. Si apre una cassa di piombo, sigillata da oltre quattro secoli, che contiene i resti di un uomo senza testa. La tradizione cattolica vuole appartengano all’evangelista san Luca. Il vescovo Antonio Mattiazzo decide di farla verificare dalla scienza e nomina un’équipe di studiosi: insieme a patologi, archeologi, botanici, numismatici e radiologi c’è anche Guido Barbujani, genetista. Il docente universitario a Ferrara ha riportato questa sua esperienza in un libro, Lascia stare i santi. Una storia di reliquie e scienziati (edito da Einaudi). Professor Barbujani, quindi fu lei a ricevere l’incarico di “rompere i denti” a San Luca, come scrive letteralmente? […] “Il mio contributo contemplava lo studio del Dna estratto dai denti che si erano salvati, con l’obiettivo di cercare dentro lo smalto le tracce genetiche della sua origine, o meglio delle sue possibili parentele con gente attuale che vive nel Mediterraneo orientale. San Luca infatti nacque in Siria”. Il suo rapporto con il vescovo Mattiazzo come fu, per lei che è un non credente? “Lo incontrai tre volte. Quando dissi che avrei dovuto distruggere la reliquia, […] mi aspettavo che qualche brivido scorresse lungo la schiena di un uomo di Chiesa. Invece monsignor Mattiazzo ha dimostrato un approccio molto laico, dicendo ai componenti della commissione: ‘Voi dovete fare il vostro lavoro. Il culto è un’altra cosa e non richiede l’autenticità’. Prevedendo poi che dai singoli contributi non sarebbe arrivata nessuna sintesi, direi che ha compreso il concetto di probabilità in modo più efficace di molti miei colleghi”. Lei si dovette recare in Siria: una missione molto avventurosa. “Certo non mi sarei mai aspettato di trovarmi chiuso in un ascensore, fermo tra un piano e l’altro di un palazzo di Aleppo, assieme a un colonnello dell’esercito siriano. Mi aveva chiesto più soldi di quanto pattuito, 450 dollari anziché 300, per consegnarmi dei campioni di sangue che avrei dovuto portare in Italia. Tutte le fasi si sono svolte all’insegna dell’illegalità: in Siria non si poteva fare altrimenti”. […] Senza svelare nei dettagli le conclusioni cui è arrivato, darebbe ragione a chi dice che nessuno saprà mai quale cadavere sia stato veramente messo nel sepolcro, se non appellandosi alla propria fede? “Direi di sì, a costo di deludere i miei amici dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che ci rimangono sempre un po’ male quando non si sbugiardano le religioni”» (Fabio Terminali). Numerosi gli studi e i saggi – Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Laterza, 2008 (con Pietro Cheli); Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigrati, Bompiani, 2011; Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo, Laterza, 2016; Il giro del mondo in sei milioni di anni, il Mulino, 2018 (con Andrea Brunelli); L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Giunti, 2018; Come eravamo. Storie dalla grande storia dell’uomo, Laterza, 2022 – da lui dedicati alla ricostruzione delle origini e dell’evoluzione dell’uomo e quindi alla questione razziale, di cui da sempre proclama l’infondatezza. «Le razze non esistono. O, meglio, esistono, ma solo nella nostra testa. Il fatto è che genetisti inglesi sono riusciti a estrarre Dna dai resti di un uomo di 9 mila anni fa: Cheddar Man. Lui e altri suoi contemporanei europei avevano pelli molto scure, ereditate dai loro – dai nostri – antenati africani. Tra 7 mila e 10 mila anni fa gli europei avevano la pelle scura. E c’è di più: è stata una migrazione dal Medio Oriente, circa diecimila anni fa, a “importare” la pelle chiara, un vantaggio nei climi più freddi e con meno luce, perché aiuta a fissare la vitamina D. Insomma, senza immigrati non saremmo bianchi» (a Monica Perosino). «Per quanto ne sappiamo, la parola “razza” non significa nessuna realtà biologica riconoscibile nel Dna della nostra specie, e perciò non c’è nulla di inevitabile o genetico nelle identità etniche o culturali come le conosciamo oggi. Su questo la scienza ha idee abbastanza chiare. Le razze, ce le siamo inventate, le abbiamo prese sul serio per secoli, ma adesso ne sappiamo abbastanza per lasciarle perdere». Parallela alla sua attività di studioso e saggista quella di scrittore, autore di romanzi in cui spesso confluiscono le sue ricerche scientifiche, le sue vicende familiari e le sue passioni civili, quali Dilettanti (Marsilio, 1994), ispirato alla vita e alle lettere di Charles Darwin, Dopoguerra (Sironi, 2002), incentrato sulla scomparsa di un piccolo industriale polesano che era stato capo partigiano, Questione di razza (Mondadori, 2003), ambientato a Ferrara all’epoca delle leggi razziali, Morti e sepolti (Bompiani, 2010), dedicato alla tragedia dei desaparecidos argentini, Tutto il resto è provvisorio (Giunti, 2018), sorta di memoriale di un distinto antiquario finito in carcere, e Soggetti smarriti. Storie di incontri e spaesamenti (Einaudi, 2022), narrazione delle vite sorprendenti di alcuni espatriati. «Questione di razza (2003) è stato finalista al Premio Hemingway e ha vinto il Premio letterario Paolo Volponi. Nel contempo, lei ha insegnato anche al Laboratorio di scrittura creativa Walter Tobagi. Ha un successo meritato di pubblico e critica: ha mai pensato di dedicarsi solo all’attività di scrittore? “Successo di critica sì, successo di vendite proprio no. Come scrittore, mi pare di capire quando parlo con gli editori, non ho futuro”» (Tiziani). «A me piace molto la narrativa, ma non ho più la pazienza di sottostare alle pressioni e alle imposizioni delle case editrici di oggi. Per l’ultima fatica di questo genere sono diventato matto». Da ultimo, nel novembre 2024, ha pubblicato L’alba della storia. Una rivoluzione iniziata diecimila anni fa (Laterza), saggio «sul Neolitico, quando sviluppando l’agricoltura l’uomo ha cominciato indirettamente a manipolare geneticamente gli organismi, e questo ha messo in moto cambiamenti ambientali, migrazioni, profonde trasformazioni culturali» • Un figlio, Luca, avuto nel 2022 dall’attrice e regista teatrale Chiara Tessiore (35 anni) • «Qual è il primo libro che ricordi di aver amato da bambino? […] “Quando ero alle elementari mio padre mi ha comprato, come regalo di compleanno per un mio amico, la versione illustrata del Barone rampante. Ho sofferto a regalarlo, e poi l’ho desiderato a lungo. Anche adesso, certi libri, non li compro subito: continuo a desiderarli, e così li leggo con più trasporto”. […] C’è un libro che ti ha salvato in un momento difficile, o che ha cambiato il tuo percorso di vita? “Sì, il libro che mi ha convinto che l’altro mio mestiere, quello del biologo, potesse essere avvincente quanto la letteratura: The Mismeasure of Man di Stephen Jay Gould”» [Bompiani.it] • «Il Piero Angela degli adriòti» [la Voce di Rovigo] • «Dove scrivi, come scrivi (a mano o su un computer) e in quali momenti della giornata? “Scrivo nel mio studio, su un computer, ma se mi viene in mente qualche idea la annoto a mano dove capita. Scrivo meglio quando dovrei fare qualcos’altro: quando ho una scadenza di lavoro, una lezione da preparare, o quando invece sarebbe meglio che dormissi. Se ho l’intera giornata a disposizione, novanta su cento combino poco o niente”» [Bompiani.it] • «Cosa ci dirà su di noi la genetica in futuro? “Auspico che la genetica riesca a fare un passo ‘di lato’: ovvero che, invece di produrre milioni di dati e sfornare genomi su genomi, riesca a interpretarli. Così riusciremo a formulare diagnosi precoci delle malattie che ci portiamo dentro (e magari in futuro ad ‘aggiustare’ i geni) e a fare passi in avanti nella conservazione della natura”» (Perosino) • «Faccio parte di una generazione che pensava di aver capito tutto e oggi si trova disorientata di fronte a rivolgimenti sociali inaspettati. D’improvviso ci rendiamo conto di quanto sia difficile mettere in pratica la massima di Terenzio “Sono un essere umano: nulla che sia umano mi è estraneo”. Ma almeno su una cosa non ho dubbi: tutto questo non va bene, bisogna far di tutto per riportare il discorso sul terreno della razionalità. Come il diritto, la scienza è un tentativo di ridurre i conflitti per mezzo della razionalità. Se rinunciamo alla possibilità di confrontarci secondo ragione, resta solo lo scontro, dove prevale il più brutale. Bisogna tener duro, aggrapparsi al ragionamento con le unghie e con i denti» • «Insieme al classico pregiudizio antiscientifico di origine crociana che tanti disastri ha portato al sistema scolastico nazionale e direi anche alla società italiana nel suo complesso, mi è capitato di incontrare un pregiudizio opposto, quello secondo cui la scienza sarebbe dispensatrice di certezze. Ecco, io non solo penso che si tratti di un’idea ingenua, o al massimo di un’aspirazione infondata, ma anche che il bello di questo mestiere stia proprio nel contrario: nel doversi muovere costantemente nell’incertezza, senza sapere dove si va a finire e sicuri che qualunque risposta si troverà sarà comunque incompleta e susciterà altre domande». «Fare scienza è doversi muovere costantemente nell’incertezza, senza sapere dove si va a finire. Anche questo è il piacere della conoscenza».