31 gennaio 2025
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Biografia di Franco Nones (Francesco N.)
Franco Nones (Francesco N.), nato a Castello-Molina di Fiemme (Trento) il 1º febbraio 1941 (84 anni). Ex sciatore. Fondista. Medaglia d’oro nella 30 chilometri ai X Giochi olimpici invernali di Grenoble, il 7 febbraio 1968. Primo campione olimpico italiano della storia dello sci di fondo. «Non voglio darmi arie, ma nello sci nordico ho buttato giù il muro di Berlino. L’Équipe scrisse che anche io come Cristoforo Colombo avevo scoperto l’America».
Vita «Quando era ragazzo, dopo una giornata di lavoro in segheria, tornava a casa in bicicletta, in salita, inseguendo il trenino: “Il mio unico obiettivo era batterlo”» (Alberto Custodero) • «Piccolo di statura, ancor più rispetto ai colossi del Nord Europa (…) Si era messo in testa di battere i campioni nordici, e per farlo aveva capito che doveva vivere come loro, assimilare i loro metodi di allenamento, studiare e sopportare la loro alimentazione, così lontana da quella italiana» (Mattia Losi) • «Cominciò per colpa di Gimondi. Felice gli diede tante di quelle batoste ciclistiche, nelle gare allievi, che dovette cambiare sport» (Paolo Rossi) • «Prima aveva provato il ciclismo. “Sì, non me la cavavo male. Da dilettante correvo con compagni straordinari: Gimondi, Motta, Dancelli, Zandegù. Ma era difficile allenarmi, da noi a Pasqua c’era ancora la neve”. Lei cosa aveva alle spalle? “Una famiglia contadina in Val di Fiemme. Ero terzo di otto fratelli. Mio papà quando divenne sindaco scriveva a macchina le lettere per la gente del paese ancora analfabeta. Ho avuto il mio primo libretto del lavoro a 12 anni e mezzo, operaio in una segheria, ci andavo in bici, su strada bianche, una trentina di chilometri al giorno, ma soprattutto il ritorno in salita. La fatica mi piaceva”. Però a 31 anni smise. “Si, un campione non può consumarsi tutto nello sport, deve lasciare delle energie per la nuova vita. Non si può iniziare un’altra attività commerciale, già sfiancati, ancora con la testa al passato, ogni sfida ha bisogno di forze» (a Emanuela Audisio) • «Lei emigrò al Nord, a scuola dai maestri. “Quando capii che non ero ancora all’altezza dei migliori, partii per la Svezia. Mi nascondevo nei cespugli, mi mettevo in scia degli svedesi e vedevo quanto riuscivo a tenere il loro ritmo. Dormivo con loro, mangiavo con loro. Ho imparato, e vinto. Io dalla Svezia tornavo in treno, mica c’erano i soldi”» (a Gaia Piccardi) • «Il vate di Nones fu lo svedese Bengt Herman Nilsson, “il primo tecnico professionista dello sci di fondo”, che fu ingaggiato dall’allora dt azzurro, il milanese Vittorio Strumolo, “un commercialista, organizzatore di gare di ciclismo e riunioni pugilistiche”. Da un lato il tecnico, dall’altro il manager. Furono lanciate così le basi per il trionfo di Nones e compagni. “Eravamo quattro pellegrini a cui piaceva girare il mondo e fare sacrifici. Per 13 anni siamo stati ad allenarci in Svezia dal giorno dei Santi fino alla Befana, non tornando a casa né a Natale né a Capodanno. Solo stando a contatto diretto con gli scandinavi potevamo osservarli e carpire i loro segreti. Ricordo che a seguirci al Nord erano anche famosi giornalisti come Rolly Marchi e Gianni Clerici che stavano con noi per tutto il raduno”. Eppure i suoi trionfi più che in inverno furono costruiti d’estate, quando Nones si allenava lungo i boschi della sua adorata Valle di Fiemme. “Nilsson mi diceva sempre che i chilometri di allenamento sono come i soldi in banca. Se li metti sul conto, poi quando ti servono li trovi. Se non li accumuli, quando avrai necessità rimarrai a secco”» • «Quali sono i ricordi più vivi dell’oro olimpico? «Il grande sacrificio fatto per arrivare a quel traguardo: avevo disputato 11 gare prima di arrivare al 7 febbraio e il più brutto piazzamento era stato il quinto posto: ero abbastanza tranquillo che potevo lottare per il podio. Così è stato. Ma il bello è stato aver vinto l’oro con un distacco netto di 50 secondi, una vittoria decisiva: raramente si vince con distacchi così. Avevo avuto buone sensazioni di potercela fare già la domenica precedente la gara in una competizione in val d’Aosta dove avevo vinto con più di 1 minuto su un atleta svedese. Tutte queste vittorie mi hanno dato forza e coraggio, tranquillità e sicurezza per arrivate carico all’appuntamento. Ma avevo avuto buone sensazioni anche sulle nevi di casa mia quando mi allenavo nel bosco da solo e dentro di me sentivo che qualcosa poteva succedere, che potevo salire sul podio» (a Marzia Zamattio) • «Gli scandinavi giganti, nati con gli sci ai piedi come noi col pallone, lei con un fisico minuto. Ma come ha fatto il Davide della Val di Fimme contro i Golia nordici? “Metà sciata di potenza, l’altra metà sciata lunga, per me la fatica era un gran piacere, e cercavo di sfruttare al meglio la mia dote di sciare spendendo poca energia. Quel 7 febbraio del 1968 era una bellissima giornata, una temperatura perfetta, la sciolina impossibile da sbagliare: non c’è stato un attimo di respiro, ho sempre dovuto scappare dai nordici che avevo alle calcagna. Dopo i primi 500 metri sono passato in testa, e sono arrivato con 50 secondi di vantaggio”. Cosa rappresentava per lei, “ragazzo della Val di Fiemme”, vincere l’oro olimpico a Grenoble. “Ho fatto capire al resto del mondo che i nordici non erano imbattibili”. Dopo quell’oro l’Italia ha scoperto lo sci di fondo, fino ad allora praticato da pochi appassionati. “Sì, la vittoria portò un grande entusiasmo, tre anni dopo, organizzammo la prima Marcialonga che copiammo dalla Vasaloppet. ‘Se ce la fanno gli svedesi, ci eravamo detti, ce la faremo anche noi’. Poi organizzammo il Trofeo Topolino, e dopo mollai l’attività agonistica per cominciare la mia attività commerciale, sempre aiutato da mia moglie Inger”» (Albero Custodero) • «Lei a Grenoble andò subito in fuga. “Al decimo chilometro avevo 30” di vantaggio, al ventesimo solo quattro secondi, credevano crollassi, invece furono norvegesi e svedesi a pagare. Il mio successo fu così uno smacco per loro che in Svezia provocò un’interrogazione parlamentare. Era il primo giorno, in Italia sembrò un miracolo. Mica vero: trenta chilometri e un’ora e mezza di gara sono uno sforzo massacrante”. Vero che sul finale pregò? “Non esageriamo, qualche Ave Maria l’ho detta. Pregavo perché non mi capitasse niente. Gli sci erano fatti da 22 pezzi di legno, perché non si deformassero con l’umidità della neve, la pista di Autrans non era larga otto metri come quelle di oggi, a -7 gradi tutto poteva accadere, anche se i legni, spalmati con la cera d’ape erano fluorati, con una sostanza che ci dava l’Eni. Avevo pantaloni di gabardine, una maglietta di lana, il numero 26. In caso di vittoria, avevo promesso di recarmi a Lourdes. Ci andai, davanti a tutti quei malati in fila, che erano lì per la seconda volta, ho pensato: forse fanno bene a credere”» (a Emanuela Audisio) • Secondo nella prima edizione della Marcialonga del 1971. Ha ricoperto il ruolo di vicepresidente in tutti e tre i Mondiali in Val di Fiemme (1991, 2003 e 2013) • «Noi facevamo tutto: atleta, skimen, falegname. La sofferenza c’era ieri e c’è anche oggi. Solo che la tecnologia è venuta in aiuto: noi facevamo una fatica boia con quegli sci di legno, oggi questi schizzano come fossero in Formula Uno» • «Lo sci di fondo è completamente diverso rispetto ai suoi tempi. “Noi non potevamo fare lo skating perché non c’erano i mezzi battipista e quindi al massimo gli organizzatori potevano prepararci un binario lungo cui farci scivolare. Oggi le piste sono autostrade e gli aspetti tecnici sono passati in secondo piano. Se cito il passo finlandese oppure il passo triplo nessuno sa cosa siano. Alla mia epoca per vincere contava la tecnica nella sciata e il nostro gesto era bello da vedere. Adesso gli atleti leggeri non esistono più e con la scomparsa del passo alternato e l’imporsi della scivolata spinta bisogna avere le spalle come i nuotatori per imporsi in tecnica classica” A pesare sulla perdita di appeal del fondo attuale hanno inciso pure lo strapotere della Norvegia (“Vichinghi e russi sono gli unici due squadroni rimasti nel circuito”) e la scelta di format di gara discutibili: “Qui la colpa è delle tv che hanno imposto le prove con partenza in massa e numerosi giri di un circuito ristretto. Così facendo si è snaturata la disciplina”» (Mario Nicoliello).
Famiglia «Una leggenda chiamata bonariamente dalla stampa locale dell’epoca “il piccoletto azzurro”, come ricorda anche il sito dell’albergo di famiglia l’Olimpionico Hotel di Castello di Fiemme, un 4 stelle nato nell’84 e oggi gestito da una dei tre figli avuti dalla moglie Inger, conosciuta in Svezia durante gli allenamenti prima della vittoria olimpica. Con lei, a fine carriera, ha intrapreso diverse attività imprenditoriali, tra aziende sportive e alberghi. Senza abbandonare passione e impegno per il fondo: nel ’71 ha cofondato la Marcialonga, nell’83 il Trofeo Topolino (oggi Skiri Trophy) poi i Campionati mondiali di sci nordico, tra le altre cose. Un vulcano. Amareggiato però per il fondo di oggi: “È diminuito di 10 volte rispetto agli anni ’90, non c’è neve”, dice» (Marzia Zamattio).
Religione «Padre di quattro figli, nonno di sei nipoti, Nones ha dovuto superare anche un terribile choc: la morte prematura, a soli 25 anni, della figlia Caterina a causa di una malattia rara. “Perdere una figlia non è stata un’esperienza bella. Sono riuscito a superarla solo grazie alla fede. Sono un laico consacrato nella comunità monastica dei Figli di Dio, fondata da don Divo Barsotti, che mi auguro presto possa essere beatificato”. D’altronde la preghiera è stata sempre una fedele compagna nella vita del montanaro Franco, che anche durante le sue gare recitava l’Ave Maria. “Prima di Grenoble feci un voto: se non mi fosse successo niente durante la 30 chilometri olimpica sarei andato a Lourdes. Non solo arrivai sano al traguardo, ma riuscii anche a vincere, perciò il pellegrinaggio ai piedi dei Pirenei fu doveroso”» (Mario Nicoliello).