8 febbraio 2025
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Biografia di Joseph Stiglitz (Joseph Eugene Stiglitz)
Joseph Stiglitz (Joseph Eugene Stiglitz), nato a Gary (Indiana, Stati Uniti), il 9 febbraio 1943 (82 anni). Economista. Accademico. Premio «Nobel» per l’Economia (2001). Già capo economista della Banca mondiale (1997-2000) e presidente del Consiglio dei consulenti economici statunitense (1995-1997). «Il mercato, per funzionare al meglio, deve essere temperato da un forte ruolo dello Stato» (a Francesco Manacorda) • «Gary doveva essere la città del secolo, la città magica, doveva rappresentare il sogno americano del progresso. Qui nei primi del Novecento, nello Stato dell’Indiana (a una trentina di chilometri da Chicago), il presidente della United States Steel Corporation, Elbert H. Gary, costruì la sua fabbrica d’acciaio, dando vita all’omonima località. Iniziò così una sorta di pellegrinaggio verso questa piccola cittadina sulle sponde del Michigan: a cercarvi fortuna, in particolare dal secondo dopoguerra in avanti, emigranti provenienti dalla disastrata Europa e afroamericani stanchi delle vessazioni del Sud. Dal nulla Gary diventò uno dei poli produttivi più importanti del Paese, ma alla gloriosa espansione industriale si affiancheranno ben presto i grandi problemi dell’America di allora, su tutti l’affermarsi delle disuguaglianze sociali e delle discriminazioni razziali. “Crescendo a Gary non potevi non notare la povertà, la discriminazione. Era impossibile non vedere che qualcosa non funzionava”, ricorda l’economista Joseph Stiglitz, che nella proletaria e ruvida Gary è nato e cresciuto. E in quel contesto, ha spiegato, […] è maturato il suo interesse per lo studio delle disuguaglianze. Di famiglia ebraica, Stiglitz è cresciuto ascoltando le discussioni tra la madre Charlotte, progressista e sostenitrice del New Deal, e il padre Nathaniel, piccolo imprenditore con posizioni più conservatrici ma sempre politicamente vicine ai democratici. […] Un buon maestro ha avuto a sua volta buoni maestri, e l’economista […] testimonia in prima persona di averne avuti diversi. A iniziare dalla tanto bistrattata scuola pubblica americana, frequentata nella operaia città natale di Gary, nell’Indiana. Resisi conto delle sue capacità fuori dall’ordinario, i docenti del giovane Joseph iniziarono a farlo studiare con un percorso diverso, facendolo lavorare su libri adatti al college. In quegli anni Stiglitz decise di diventare un professore: “Sapevo che l’educazione era importante, ma, più di questo, il mio obiettivo era far progredire la conoscenza”. A segnare il suo percorso di studente anche il triennio passato al college di Amherst, piccola quanto avanzata realtà del New England, in cui “i migliori professori insegnavano ancora con uno stile socratico, ponendo domande, dando risposte a cui si aggiungeva un’ulteriore domanda. In tutti i nostri corsi”, ricorda Stiglitz, “ci insegnavano che la cosa più importante era porre la domanda giusta nel modo giusto. Rispondere diventava spesso una questione relativamente semplice”» (Daniel Reichel). «Prima di conseguire il diploma di laurea è ammesso al programma di dottorato del Mit, dove incontra maestri del calibro di Paul Samuelson, di Robert Solow, di Franco Modigliani e di Kenneth Arrow (tutti futuri premi Nobel). Nella tesi di dottorato si occupa di crescita economica, cambiamento tecnologico e distribuzione del reddito. […] Grazie a una borsa di studio Fulbright, Stiglitz passa un paio d’anni a Cambridge (Uk), una delle tre grandi “chiese” della scienza economica di quel periodo: Chicago a destra, Cambridge a sinistra, Mit al centro. Qui entrerà in contatto con illustri economisti dalla forte personalità quali Joan Robinson e soprattutto Frank Hahn. Tornato da Cambridge, e dopo un anno al Mit come assistant professor, si stabilisce a Yale. In seguito ricoprirà la cattedra di Economia a Stanford, Princeton e Columbia University (dove insegna tuttora). A Yale […] inizia a sviluppare il proprio interesse per l’economia dell’informazione. Fondamentale in questo senso è per Stiglitz il periodo passato alla fine degli anni Sessanta in Kenya presso l’Institute for Development Studies dell’Università di Nairobi. È lì infatti che prendono forma le prime idee ed elaborazioni sul ruolo dell’informazione nei processi economici, stimolate da ciò che egli vede intorno a sé nella nazione africana: disoccupazione urbana, mezzadria, assenza di mercato. Il paradigma economico dominante (secondo il quale i mercati lasciati a sé stessi garantiscono efficienza e stabilità) non lo convince, e soprattutto non lo aiuta a spiegare ciò che ha davanti agli occhi. […] Saranno proprio i contributi di Stiglitz nel campo dell’analisi dei mercati in presenza delle cosiddette asimmetrie informative a valergli nel 2001 il premio Nobel per l’economia, conferitogli insieme a George Akerlof (anche lui studente di dottorato al Mit un anno prima di Stiglitz) e a Michael Spence. […] In sintesi, l’idea è che la controparte meno informata possa riuscire a estrarre informazioni circa alcune caratteristiche di quella più informata (ovvero a fare screening) offrendo a quest’ultima un portafoglio di contratti e osservando quale venga effettivamente scelto» (Giorgio Bellettini). «Nel 1993 Stiglitz entra a far parte dell’amministrazione Clinton, inizialmente come membro e poi come chairman del Consiglio degli esperti economici (il Council of Economic Advisers). […] Lasciata l’amministrazione Clinton, nel 1997 è nominato vicepresidente senior e capo economista della Banca mondiale. […] Durante l’esperienza alla Banca mondiale, Stiglitz matura posizioni assai critiche nei confronti della gestione dei processi di globalizzazione nei Paesi in via di sviluppo da parte delle istituzioni economiche internazionali, avversando i princìpi del cosiddetto consenso di Washington, rappresentato in primo luogo dal Fondo monetario internazionale e dal ministero del Tesoro americano, di cui contesterà aspramente la gestione delle crisi finanziarie (nel Sud-est asiatico, in Argentina, in Russia) alla fine degli anni Novanta. […] Terminata l’esperienza alla Banca mondiale, Stiglitz ritorna in accademia alla Columbia University di New York, dove nel 2000 fonda l’Initiative for Policy Dialogue, un think tank sui problemi dello sviluppo internazionale. […] Negli ultimi […] anni, Stiglitz ha rappresentato un’influente voce critica nel dibattito pubblico su diversi temi fondamentali quali la crescente disuguaglianza, le crisi globali e la Grande recessione, l’integrazione economica europea, su cui ha pubblicato diversi saggi tradotti anche in italiano (tra questi, ad esempio, La globalizzazione e i suoi oppositori del 2002, La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla del 2016 e L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa del 2017, solo per citarne alcuni)» (Bellettini). Tra i suoi saggi successivi, Invertire la rotta. Disuguaglianza e crescita economica (Laterza, 2018), Popolo, potere e profitti. Un capitalismo progressista in un’epoca di malcontento (Einaudi, 2019) e Misurare ciò che conta. Al di là del Pil, scritto insieme a Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand (Einaudi, 2021), «un saggio su come sia necessario superare il solo prodotto interno lordo come termometro economico e sociale. Perché il Pil non funziona più, professor Stiglitz? “Per diverse ragioni. La prima è che non riesce a dare una fotografia che rispecchi tutti gli strati della società. Se nasci nell’1% più ricco, l’America è un gran posto dove vivere. Dopo la crisi del 2008, anche quando il Pil cominciava a crescere, il 91% del maggior reddito è andato a una ristrettissima cerchia di popolazione. L’americano medio continuava a guadagnare poco”. Quali sono le altre lacune? “Il Pil non misura la sostenibilità. Si può registrare un boom come nel 2007, si può crescere, certo, ma distruggendo l’ambiente. In definitiva, il Pil non misura quello che chiamiamo benessere”. […] Nell’introduzione al libro lei parla di tre crisi capitali che il mondo sta affrontando: quella climatica, quella relativa alle diseguaglianze e […] una crisi di democrazia. Quale la preoccupa di più ed è più difficile da risolvere? “Quella legata alla democrazia. Da questa dipende anche la soluzione delle altre due. I rischi di una crisi democratica sono enormi: le società del carbone o del petrolio possono arrivare a condizionare i governi a tal punto da frenare ogni iniziativa a contrasto del cambiamento climatico. Oppure quell’1% di popolazione più ricca può riuscire a derubricare la questione delle diseguaglianze”» (Francesco Spini). Da ultimo ha pubblicato La strada per la libertà. L’economia e la società giusta (Einaudi, 2024). «“In questo libro e in quello precedente, Il prezzo della disuguaglianza, avverto che il neoliberismo e l’insieme di idee sulla riduzione del ruolo del governo ci porteranno verso un populismo autoritario. La cosa doppiamente triste dal mio punto di vista è che la rabbia delle persone è così grande che la democrazia, lo Stato di diritto e gli altri valori diventano secondari rispetto all’espressione del malcontento”. Da dove viene il titolo del libro? “La strada per la libertà riecheggia il titolo di un testo di Friedrich von Hayek, La via della schiavitù. Dopo la Grande depressione, quando Keynes disse che il governo può riportare l’economia in crescita e la piena occupazione, Von Hayek sostenne che un aumento dell’intervento governativo avrebbe condotto la gente alla sottomissione e sulla via della schiavitù. Io dico che Von Hayek si sbagliava al 100%: non vediamo una crescita dell’autoritarismo populista per esempio nei Paesi scandinavi, con un forte welfare, ma lo vediamo dove i governi hanno fallito nell’affrontare le diseguaglianze, l’insicurezza salariale e la sanità, come negli Usa”. […] Qual è il messaggio del suo saggio, alla luce di tutto quello che sta avvenendo negli Stati Uniti? “Parlo della necessità di azioni collettive, di predisporre piccoli limiti in modo da stare tutti un po’ meglio: con alcuni semafori in più si evita che il traffico si intasi e tutti possono procedere meglio lungo la strada. I repubblicani non sembrano riconoscerlo e Trump non lo capisce: il governo può esercitare un’azione collettiva ed essere una forza importante per il benessere. E, se abbiamo bisogno di investimenti governativi, servono le tasse. Un po’ di regole e un po’ di tasse possono aiutare tutti, mentre gli investimenti troppo esigui nelle infrastrutture, nella ricerca, nell’istruzione, nella sanità danneggeranno gravemente gli Stati Uniti nel lungo periodo”» (Viviana Mazza) • Sposato in terze nozze dal 2004 con la giornalista e docente universitaria Anya Schiffrin (classe 1962). Quattro figli: due dalla prima moglie e due dalla seconda • Democratico. «“La mia interpretazione di quello che sta accadendo in America e, in misura minore, in molti Paesi è che l’esperimento del neoliberismo è fallito. […] Se guardate alla stagnazione dei salari reali della gente comune è comprensibile il malcontento, la rabbia, la sensazione che le élite di entrambi i partiti che hanno spinto per il neoliberismo non abbiano portato risultati. Perciò la risposta è stata, per usare le parole di Trump, che il “sistema è truccato”, e quindi s’è sviluppato un sentimento profondamente anti-elitista. L’unico modo per capire perché gli americani votino per un tale bugiardo, un tale misogino, un tale razzista, un criminale condannato, qualcuno che in quasi ogni altro Paese sarebbe visto come un paria… l’unico modo in cui riesco a leggere questa scelta è che sono così arrabbiati con le élite che dicono: ‘Ve la facciamo vedere noi, votiamo per qualcuno che è l’antitesi del cosiddetto buon comportamento’. In questo senso c’è anche un certo cinismo, una mancanza di speranza nei confronti delle politiche governative, una convinzione che probabilmente non funzioneranno. Come dire: ‘Le persone responsabili non hanno portato risultati, almeno ora dimostriamo la nostra rabbia’”. […] Che cosa si aspetta dal ritorno di Trump alla Casa Bianca? “Non ha una filosofia economica, tutto è transazionale per lui, ha a che fare con le relazioni interpersonali, e non credo che andrà bene nel lungo periodo. […] Ma non sappiamo davvero quello che farà: non ha mai onorato le promesse”» (Mazza). «Anche la sinistra deve fare autocritica. Compresa la “terza via” di Clinton, che si innamorò della globalizzazione e deregolamentò la finanza. Lei ne era consigliere economico: ha qualcosa da rimproverarsi? “Sui rischi della globalizzazione io e altri consulenti economici raccomandammo di mettere in piedi da subito dei correttivi per alleviare le sue conseguenze sociali su molti lavoratori. Alla fine il presidente si convinse che, anche senza quei correttivi, i vantaggi sarebbero stati superiori agli svantaggi. L’errore più drammatico riguarda però l’abolizione del Glass-Steagall Act, che separava le banche dalle banche d’affari, e la deregolamentazione dei derivati, che poi ci hanno regalato la crisi del 2008. Scelte catastrofiche che portano la firma di Alan Greenspan, Robert Rubin, Larry Summers: io non ero già più della partita. Comunque, sì, anche i progressisti hanno responsabilità”» (Riccardo Staglianò) • Fu tra gli estimatori del dittatore socialista venezuelano Hugo Chávez: nell’ottobre 2007, a Caracas, «Stiglitz arrivò a sostenere, in un Paese che già stava precipitando verso l’abisso, che “la crescita economica del Venezuela è stata impressionante” e che andavano apprezzate “le positive riforme nel campo dell’istruzione e della salute”, dal momento che erano orientate a sconfiggere le diseguaglianze» (Carlo Lottieri) • «Oltre ai testi della sua materia che cosa ama leggere? “L’economia è una scienza che studia come gli individui e le società distribuiscono risorse scarse e va studiata in collegamento con tutte le altre scienze sociali. Per quanto mi riguarda, la cosa più importante è lo studio della storia. La storia non si ripete mai esattamente uguale, ma riflettere sulle vicende del passato ci suggerisce delle intuizioni sul presente”» (Gianrico Carofiglio) • «Nella sua vastità e complessità, l’attività di ricerca di Stiglitz ha fornito un rigoroso fondamento teorico, nonché la necessaria credibilità, a un approccio fortemente critico verso il “fondamentalismo del mercato”» (Bellettini). «Il Premio Nobel si è concentrato nell’analizzare le falle del sistema economico e di alcune delle teorie che lo reggono. Con i suoi lavori, Stiglitz […] ha mostrato come i modelli classici, che parlano di un mercato razionale ed efficiente, possano in realtà dare luogo a risultati instabili con molteplici punti d’equilibrio, non necessariamente efficienti, oppure per nulla in equilibrio. Per l’economista, il neoliberismo sbaglia nel pensare che i mercati portino autonomamente a soluzioni efficaci; e in un mondo in cui la globalizzazione costituisce un fenomeno economico positivo (tema a cui ha dedicato un’opera molto conosciuta, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002) è ancora più cruciale controllare il mercato globale. […] “Nell’economia moderna devi correre per riuscire a rimanere fermo”, il riassunto di una situazione di produzione frenetica che ha spazzato via molte aziende e ha ampliato in molti Paesi la forbice nel divario tra ricchi e poveri» (Reichel) • «L’Unione europea ha fatto un unico, grande errore: l’euro, che non ha funzionato. La Troika (Fmi, Bce e Ue) ha ripetutamente prodotto previsioni errate, e, piuttosto che ammetterlo e riconoscere i suoi errori, ha sempre incolpato le sue vittime. Se i miei studenti avessero prodotto delle analisi come quelle della Troika per i Paesi europei, li avrei bocciati» • Ha auspicato la messa al bando dei Bitcoin, in quanto meri strumenti di elusione fiscale privi di alcuna funzione sociale: «Se i governi mettessero fuorilegge la criptovaluta, il suo valore di mercato crollerebbe immediatamente» • «L’economia del XX secolo, quella basata sulla manifattura, non può più fare molto almeno in termini di posti di lavoro, visti i livelli di efficienza raggiunti. Ma i Paesi devono concentrarsi su un ventaglio più ampio di servizi, ad esempio su salute, cultura. Settori fonte di benessere, senza emissioni. Possono fare parte di una crescita sostenibile». «Ciò che alla lunga frena davvero la crescita e lo sviluppo è l’aumentare delle diseguaglianze, il fatto che chi sta in basso abbia sempre meno opportunità e chi sta in alto possa agire senza vincoli».