Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  febbraio 14 Venerdì calendario

Biografia di Domenico Starnone

Domenico Starnone, nato a Saviano (Napoli) il 15 febbraio 1943 (82 anni). Scrittore. «Un uomo tranquillo che avrebbe potuto essere un botanico o magari un osservatore di uccelli» [Antonio Gnoli, Robinson 17/10/2020] • Ex insegnante nelle scuole superiori, ex redattore delle pagine culturali del manifesto, debuttò in narrativa a metà anni Ottanta, quando il giornale gli chiese di tenere un diario pubblico dell’anno scolastico • Nel 2001 vinse il Premio Strega con il romanzo Via gemito (Feltrinelli, 2000) • In quarant’anni di carriera letteraria ha curato rubriche per i giornali (Tango, Cuore, Repubblica, Corriere), scritto sceneggiature pe il cinema e la televisione; dai suoi libri sono stati tratti i film La scuola (Daniele Lucchetti, 1995), Auguri professore (Riccardo Milani, 1997) e Denti (Gabriele Salvatores, 2000). Tra i suoi libri: Autobiografia erotica di Aristide Gambía (Einaudi, 2011), Lacci (2014), Scherzetto (2016), Le false resurrezioni (Einaudi, 2018), Confidenza (Einaudi, 2019). Ha vinto il Mondello Giovani con Vita mortale e immortale della bambina di Milano (Einaudi, 2021), Premio Mondello Giovani). Da ultimo: la raccolta di saggi L’umanità è un tirocinio (Einaudi, 2023) e il romanzo Il vecchio al mare (Einaudi, 2024) • «Quando gli si dice che i suoi romanzi hanno il sapore dei classici, risponde che “viviamo tempi in cui tutto invecchia in modo straordinariamente veloce così è già un miracolo se un libro dura quanto la tua vita”» [Fatto 16/10/2021] • Da tempo si sospetta che ci sia lui, da solo o assieme alla moglie, la scrittrice Anita Raja, dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante. Lui ha sempre negato, prima con irritazione, ora con rassegnato fastidio.
Titoli di testa «Roma, Prati, undici e mezzo del mattino. Domenico Starnone ordina un chinotto. Fa molte domande. È alto, è serio, ha gli occhi allegri. Dice: “Non possiamo fare questa intervista”. Sul tavolo c’è un pacco di sigarette che non è suo, lui non fuma più da anni, da quando viveva in una casa che era soltanto una stanza e faceva l’insegnante» [Simonetta Sciandivasci, Sta 19/3/2023].
Vita «Abitavamo in un caseggiato affacciato direttamente sulla stazione di Napoli. Due stanze e cucina, cinque figli, mamma sarta. E un padre eccezionale, un ferroviere certo di essere venuto al mondo per un’altra ragione: fare l’artista, il pittore. Mia madre era abbacinata da quest’uomo prepotente, persuasivo, simpatico. E violento. Non ci ha mai toccati, ma lei è stata picchiata sotto i nostri occhi. Sempre per lo stesso motivo: la gelosia. In veletta e tailleur vestiva come una diva del cinema, secondo lui mettendo troppo in scena la sua bellezza». E un bambino da che parte sta? «Hai una subalternità assoluta verso il padre, eppure non riesci a dargli ragione. Ti senti in colpa e però lo odi intensamente per quello che fa a tua madre, oggetto della tua idolatria. Un groviglio infinito di adesione e ripulsa. Nelle case dei miei amici, povere ma con aspirazioni all’ordine, si mangiava col tovagliolo. Da noi tutto era disordine. Mi esercitavo a essere sottotono, volevo la normalità». Eppure, nella smania di un artista autarchico c’è anche un’idea di sé rispetto al mondo che contagia la famiglia: si è diversi perché si è speciali. «Per lui senza una vocazione artistica c’era solo imbecillità: questo contava, il resto era niente. E credo che la voglia di scrivere sia nata così, per definirmi senza sconfinare nella pittura, il suo terreno» [Raffaela Carretta, iO Donna 7/2013] • Il piccolo Domenico, timidissimo. Primo ricordo: la paura della cicogna. «Era la notte in cui nacque il suo fratellino più piccolo: lui e il fratellino di mezzo sentendo gridare la madre si avvicinarono alla stanza da cui provenivano le urla, e ne uscì la levatrice (o forse era una vicina) con delle lenzuola insanguinate. Non sapendo come spiegare l’accaduto, disse che il bimbo era talmente bello che “la cicogna se lo voleva riprendere, allora il vostro papà l’ha ammazzata”. Doveva essere un evento lieto, e invece per i due piccoli in attesa fuori dalla porta fu un momento da incubo» [Federica Pellas, Sta 22/5/2023]. «Ero quasi muto, sempre per i fatti miei, buio dentro e fuori» • In Vita mortale e immortale della bambina di Milano, ha scritto: da bambini, si può essere tutto, l’esploratore o il mozzo, il naufrago o il «caubboi»... «Io ero un malinconico, che si metteva in un angolo ed entrava in un’altra realtà, dove si poteva essere il cavaliere e il cavallo, la tigre e il cacciatore. Uno dei grandi piaceri dell’infanzia è potersi inventare mondi diversi da quello in cui sei capitato. Leggere e scrivere diventano la prosecuzione di quel piacere» [Candida Morvillo, Cds 8/1/2025] • La grande fascinazione del piccolo Domenico per la morte. Da bambino una delle sue attività preferite è andare in cerca delle tombe. «Non riuscivo ad accettare, per esempio, la morte di Anita, la fidanzata di Garibaldi. Tenevo molto a lei e nei giochi, ma soprattutto nelle storie che mi raccontavo, finivo sempre per salvarla. Allora avevo già dieci anni. Ma il mio tirocinio era cominciato prima». Ovvero? «A sette otto anni. Morti veri non ne avevo mai visti, però mi bastava sentire i racconti dei grandi e apparivano negli angoli bui della casa». La casa. «Sì. Le case del Dopoguerra me le ricordo sempre in penombra. Le lampadine erano fioche, mancava spesso l’elettricità. Oggi direi che la fossa dei morti era l’intero appartamento». E? «E le parole. Mia madre raccontava spesso, con grandissimo dolore, come le era morta tra le braccia una sua amatissima e giovanissima cognata. Tirai fuori dalle sue parole quella ragazza e pur non avendola mai conosciuta cominciai a incontrarla di sera, in corridoio o negli armadi» […] «Il maestro di prima elementare si presentò così: “Vedete? Questa è una bacchetta di ebano. Vi punirò per ogni errore o cattivo comportamento colpendovi sul palmo o sulle nocche”. Non ci disse mai cos’era l’ebano. Per molto tempo ho pensato che Ebano fosse il crudele proprietario della bacchetta […] Quelli della mia generazione non potevano fare nessuna delle cose che il senso comune attribuiva alla sfera femminile. Sennò eri automaticamente una femmina, insulto che nella classificazione degli insulti era il più sanguinoso. L’educazione a essere maschio è stata spietata». Esempio?«Avevo tra i dodici e i tredici anni, quando una sorella di mia nonna mi colse in una posa che le sembrò femminile. Si allarmò, mi disse: non si sta così e mi denunciò a mio padre. A me quella posa pareva comoda – mi appoggiavo una mano sul fianco – ma da quel momento mi spaventai e non l’assunsi più». Sensazione? «Mah. Ci piacevano tantissimo le ragazze, ma dovevamo stare attenti a non prendere nemmeno un loro tratto. Cosa che, tra l’altro, forse ci avrebbe giovato» […] Ci dà le foto della sua infanzia? «Ne ho pochissime, venivamo fotografati di rado. Ne ho una dove non mi si vede, sono nella pancia di mia madre». Quelle dove si vede? «In una ho due anni, sono a piazza della Borsa a Napoli. In un’altra ne ho cinque, è stata scattata in via Luigia Sanfelice, al Vomero, la strada preferita di mia madre. Mi piace perché si vede bene il lavoro di sarta che lei faceva su sé stessa, sui miei fratelli e su di me». Cioè? «Mi ha cucito pantaloni e giacche fin verso i diciotto anni. Li faceva abbondanti per via della crescenza, come si può vedere in una foto in cui ho diciassette anni». Altre? «Per le foto c’era bisogno di luce. Ce ne facevano al mare. Ce n’è una che amo molto. È dei primi anni Cinquanta e lì i miei genitori giocano a fare i divi del cinema» [Teresa Ciabatti, 7 28/11/2021] • Deve a un libro in particolare la molla che l’ha spinta a scrivere? «Non so, forse, tra l’altro, a un incipit di Italo Calvino che mi causò un magnifico sbandamento. Avevo 17 anni, in casa non c’erano libri. Guadagnavo qualche lira dando ripetizioni e compravo libri alle bancarelle dell’usato. Era tutta roba ottocentesca, dai Misteri di Parigi ad Anton Cechov, da Rocambole a Lev Tolstoj. Entro nel ’900 perché il padre di un mio amico era amico di un libraio che gli prestava qualche volume appena uscito. Il mio amico li passava a me, facendomi giurare che non li avrei rovinati. Così lessi I racconti di Calvino tra cui Luna e Gnac: “La notte durava venti secondi, e venti secondi il Gnac” è un incipit strepitoso, se hai 17 anni e un minimo di vocazione per la scrittura» [Morvillo, cit.] • A bloccarla era anche il timore di non avere «lo spessore dell’intelligenza e dell’immaginazione che arriva da generazioni precedenti». Scrivere è un mestiere di classe? «Ho cominciato a pensarci su intorno ai vent’anni, quando diventò urgente scegliere tra puntare a scrivere soltanto o trovarmi un lavoro. Stavo scoprendo allora il peso delle eredità immateriali, quella disposizione creativa che proviene non solo dal talento ma anche dall’ambiente che ti ha generato ed educato. Per un lungo periodo questa idea mi ha paralizzato. Mi sembrava di non avere cultura ed energie sufficienti per essere scrittore». Sentiva di non appartenere al lignaggio giusto? «Non so se si possa dire così […] In compenso il mio umanissimo padre mi ha influenzato molto. Senza di lui non avrei mai pensato di diventare scrittore: non avevo modelli intorno a me, se non lui che cocciutamente voleva dar forma al suo talento e fare il pittore. Ma è stato importante anche nel modellarmi alla rovescia». In che senso? «Mentre mio padre reagiva alle disillusioni e alle frustrazioni rappresentandosi come una figura artistica importante, io per reazione ho cercato di tenermi il più possibile dentro i confini che mi ero dato: evitare l’auto-esaltazione, ricorrere sempre all’autoironia, cercare di dare il massimo senza però attribuire al mio massimo chissà quale superlativo valore» [Simonetta Fiori, venerdì 17/2/2023] • «Avevo ventidue anni quando, a sei mesi di distanza l’una dall’altra, morirono prima mia nonna, poi mia madre. Fui travolto dalla malattia improvvisa di mia madre e mi dimenticai di mia nonna, la lasciai andare. Mia madre invece cerco ancora oggi di riportarla in vita, non mi sono mai rassegnato» [Ciabatti, cit.]. «Mia mamma aveva solo 44 anni. E per me, con la sua scomparsa scompare la famiglia. Come se tutti i legami si reggessero sul suo corpo bellissimo, devastato in sei mesi dalla malattia. Subito accadono due fatti. Mi sposo, ancora studente all’università: sono innamorato ma il colpo di testa è nell’emancipazione dalla tribù d’origine. E scrivo il mio primo romanzo, titolo L’interno della coppa. Nessuno lo legge, decido io che è una porcheria. Ed è quasi un sollievo. Ci ho provato, ora devo entrare nella norma, fare domanda per insegnare» • Prima cattedra: a Castelgrande, 900 abitanti, Basilicata. «Scuola media, ragazzini di campagna, occhi opachi: fuori c’è la neve, dentro c’è una stufa. Io mi sento col cappio al collo. Eppure, in poche ore tutto diventa magnifico. Scopro che quella è la cosa che so fare. Come passare una soglia mentale: gli occhi che hai di fronte a te diventano vivi e tu stesso sei più vivo di quanto non fossi mai stato prima. Un affiatamento forte, un potenziamento simile alla felicità». Per vent’anni i romanzi spariscono. Starnone fa il prof, si occupa di racconti orali, comincia a collaborare con Il Manifesto. E nell’85, un caporedattore gli chiede una rubrica sulla scuola. «Un testo politico nello stile del giornale. Però quella sera ho una tale stanchezza che mi abbandono: e viene fuori un tono personale da diario del primo giorno di scuola. A 42 anni, dal nulla, riemerge prepotente il piacere di narrare, mescolare vita e immaginazione, smarrirsi e non sapere più dove stai». Un momento di perfetta felicità, speculare a quello di vent’anni prima, nell’aula di Castelgrande. Non solo perché «insegnare e scrivere in assoluto si somigliano e possono funzionare a patto che te ne lasci travolgere»: in entrambi c’è un’eco, una risonanza più antica. Qualcosa che c’entra col perdere la testa, abbandonare l’ordine per il disordine, uscire dalla normalità così desiderata da bambino. Ritrovando dentro di sé il meglio del padre» [Carretta, cit.] .«Ero sposato, avevo un figlio, cominciai a insegnare: la scrittura se ne andò dall’orizzonte. Poi risbucò attraverso il giornalismo» [Annalena Benini, Foglio 17/7/2017].
Bevitori «È un quadro di mio padre, che ha avuto una vocazione per la pittura sin da ragazzo. Si tratta di un’opera di discrete dimensioni a cui si dedicò nel 1952, quando io avevo 9 anni. Nella parte centrale di Via Gemito racconto la storia di quel quadro. Secondo mio padre I bevitori era stato esposto in una grande mostra napoletana e poi acquistato dal comune di Positano per centomila lire. Sia come persona che come personaggio del libro, io credevo poco a questa storia, perciò cercai di verificarne la veridicità chiamando il comune di Positano. Mi dissero che il quadro non c’era e questo scrissi nel libro» [Daniele Rielli, Domani 13/2/2021].
Amori Tre figli, da due matrimoni diversi. Com’è fare il padre? «Difficile. Ora mi impiccio troppo, ora troppo poco» [Sciandivasci, cit.].
Ferrante Attuale moglie: Anita Raja, traduttrice e studiosa di letteratura tedesca (e curatrice della collana in cui venne pubblicato il primo romanzo della Ferrante).
Ferrante/2 Nel 2016 un’inchiesta condotta dal 2016 dal Sole 24, e pubblicata anche dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito di giornalismo investigativo francese Mediapart e da quello della rivista americana The New York Review of Books, analizzò i flussi di cassa della moglie e evidenziò che a ogni successo editoriale della Ferrante corrispondevano copiose entrate per la signora Starnone.
Ferrante/3 Mentre ascolto quello che dice, so che dovrei chiedergli della Ferrante: sei o non sei quella scrittrice che ormai ha un successo planetario? Ma non me la sento. Non voglio. Perché conosco già la risposta. Però una cosa gliela devo chiedere. Caro Domenico dopo tutto quello che ti ha combinato, la Ferrante si è mai scusata per l’imbarazzo in cui ti ha messo? Per le noie che involontariamente ti ha procurato? Per gli agguati giornalistici che hai dovuto subire? «Che ti devo dire? Sono stato perseguitato da questa storia. Ma non mi sento colpito e infastidito. Oltretutto, mi piacciono a tal punto le scelte radicali di Ferrante, che non l’ho mai sentita in torto nei miei confronti. Lei sicuramente sì, lo ha dichiarato, ma secondo me non ne ha motivo. È il gioco dei media che mi ha spesso disturbato. Ma ormai sono passati tanti anni, non me ne importa più» [Gnoli, cit.].
Politica «A partire dai vent’anni, e fino a oggi, mi sono immaginato, anticapitalista, antistalinista e antistatalista, un marxista riveduto e corretto di continuo dalla buona letteratura, che per sua natura non dà nessun peso agli “ismi” come agli "anti" e fa sempre e soltanto quello che le pare». Perché agli italiani piacciono tanto i proclami di linea dura, se poi non sanno neanche rispettare una fila alle Poste? «Perché proclamare che bisogna rispettare la fila alle Poste è più facile che pretendere uffici postali, ed altro, organizzati in modo da non fare file» [Sciandivasci, cit.].
Religione L’esistenza di Dio, un’ipotesi che non prende più in considerazione dalla fine dell’adolescenza. «Ma il cervello con la vecchiaia si indebolisce e non si può mai sapere. Oggi come oggi, se a cose fatte dovessi scoprire che Dio esiste, chiedo scusa ai credenti ma sarei soprattutto indignato. Coi guai terribili che siamo in grado di causare a noi stessi, al nostro prossimo e al resto del creato, cosa fa il creatore, gioca a nascondino?».
Curiosità Casa a Roma, dietro villa Torlonia • Nonno di tre nipoti • Detesta farsi fotografare • Va da un chiropratico per farsi curare i dolori alla cervicale • Ancora oggi gli ex alunni lo riconoscono per strada • Da bambino collezionava tappi di bottiglia «È su questo che si fa letteratura: non sulla bottiglia in sé, ma sull’impatto tra me e la bottiglia, l’urto tra me e la parola chinotto, l’emozione che mi dà» • La prima cosa che guarda in uno sconosciuto che le siede davanti? «Le orecchie». Scrive che le piacciono gli errori perché sono bugie inconsapevoli e dicono molto della verità. Le interessa la verità? «Mi piace lo sforzo sincero di approssimazione a ciò che chiamiamo l’altro da noi, gli altri. Ce ne facciamo rappresentazioni, che spesso però si rivelano fantasiose cantonate. Le cantonate piccole e grandi, specie quando sono generose e persino utili, secondo me dicono della condizione umana molto più di quelle che per un lasso di tempo, in genere breve, consideriamo scientifiche certezze». Flaubert ha detto che uno scrittore deve comportarsi in modo che i posteri credano che non abbia vissuto. Che ne pensa? «L’essenziale è che dai libri risulti il contrario» [Ciabatti, cit.] • «La letteratura diventerà non necessaria quando qualcuno inventerà un’app che ci renderà tutti trasparenti. Il problema che la letteratura affronta è la sostanziale inconoscibilità dell’altro» [Morvillo, cit.] • Ha smesso da tempo di scrivere per i giornali. Dice che ai suoi tempi i quotidiani avevano una grossa differenza rispetto a quelli di oggi. «Erano letti. Ed erano scritti per essere letti. Ci si sentiva ancora i primi a dare ogni giorno una forma al mondo. Ma era già un orgoglio residuale. Quel primato era da tempo al tramonto e non ce ne accorgevamo» [Sciandivasci, cit.] • Il suo ultimo titolo, Il vecchio al mare, fa la parodia a Ernest Hemingway. Che vecchiaia ha voluto raccontare? «Quella che conosco: agiata e colta. È una vecchiaia che non si prende sul serio, che si prepara alla fine prossima senza epica ma anche senza lagne» [Morvillo, cit.] • La morte la spaventa? «No, non più. Ma mi ha spaventato molto fino a una ventina d’anni fa. Poi di colpo mi sono sentito sazio di giorni – espressione che amo – e lo spavento se n’è andato» [Sciandivasci, cit.] • «Quando me ne andrò si scriveranno sei righe. Nelle prime tre: ha fatto l’insegnante. Nelle ultime: a lungo si è sospettato che fosse Elena Ferrante. Quello che sta in mezzo, romanzi, sceneggiature, pezzi di vita, tutto spazzato via».
Titoli di coda Quando vinse lo Strega, un giornalista fece un’indagine e riuscì a trovare il quadro di Federico Starnone nel deposito del comune di Positano. Da allora è esposto nella sala del consiglio comunale [Rielli, cit.].