17 febbraio 2025
Tags : Carla Vanni
Biografia di Carla Vanni
Carla Vanni, nata a Livorno il 18 febbraio 1936 (89 anni). Giornalista. Ex direttrice di Grazia (1978-2006) e del Grazia International Network (2005-2023). «La moda come avventura di vita, il vestito come espressione di sé, la scelta dell’abito come desiderio di mostrare la propria personalità più nascosta. E per me la voglia di raccontare tutto questo, cercando di avvicinarmi alla verità» • «I ricordi che ho della mia prima infanzia non sono felici ma neanche tristi: piuttosto, direi impauriti. Eravamo sfollati a Castiglioncello: […] quello che mi è rimasto dentro è la visione di mio padre che ogni giorno faceva in bicicletta il percorso Livorno-Castiglioncello-Livorno, portando in una sacca pane e chili di cipolle. Era il nostro cibo, quello di cui ci siamo nutrite per tutto il tempo della guerra. Ricordo la sacca di grossa tela verde dove faceva entrare tutto quanto: ce l’ho ancora, e ha resistito ai vari traslochi della mia vita. Ricordo l’attesa e la paura che avevamo quando tardava anche di pochi minuti. E poi il rumore delle cannonate che arrivavano dal mare, le corse per raggiungere una casa vicina dove scendevamo in una specie di cantina e, stesi per terra, coperti ognuno da un materasso, aspettavamo la fine del bombardamento, l’urlo della sirena, il cessato allarme. Ho tenuto una scheggia, raccolta ancora bollente, che si era conficcata nel mio materasso. L’ho avuta con me per anni e poi, non so come e dove, è scomparsa». «Ho avuto la fortuna di avere genitori molto severi. Mio padre era ingegnere, direttore generale di una grande azienda e nel consiglio d’amministrazione di non so quante società. Mia madre era una donna speciale, intelligente, colta, con grande curiosità per tutto quello che riguardava la mente, il cervello e i temi scientifici, e con una forte passione per il teatro. […] Aveva un chiodo fisso che ci ribadiva quasi ogni giorno: bisogna studiare, laurearsi e poi lavorare, guai a non avere un lavoro e la propria indipendenza. “Meglio mangiare pane e cipolla sui gradini di una chiesa che essere ignoranti”, ci diceva». «C’era tutta Livorno alla stazione quando ci siamo trasferiti a Milano. Mi ricordo gli abbracci, le lacrime, le promesse di non perderci, di rivederci appena possibile. Durante la guerra mio padre aveva salvato la filiale dell’azienda di cui era direttore, continuando a lavorare nonostante i bombardamenti e gli attacchi dei tedeschi. E adesso era stato richiamato in sede, con un incarico importante. C’era grande euforia in famiglia. […] Ma io e le mie due sorelle non eravamo contente. A Livorno stavamo bene. Avevamo gli amici, tanti, e soprattutto avevamo il mare, a portata di sguardo, estate e inverno. Lasciare il mare per me è stato un grande dolore. […] Quando ci trasferimmo facevo la terza media. […] Arrivammo a Milano in dicembre. Era la prima volta che la vedevo ma non mi fece impressione. Mi piaceva. Abitavamo in centro, in via Visconti di Modrone, in una casa con un grande terrazzo da cui in teoria si sarebbe vista tutta la città, se non fossimo stati circondati da una nebbia fittissima». «Gli anni passavano. Ero entrata a poco a poco a far parte della vita milanese. […] Finito il liceo, m’iscrissi all’università. Avevo scelto Legge e volevo fare l’avvocato. […] Ma il giornalismo e la moda forse sono in agguato. Il primo incontro è divertente. Un giornale di nicchia, “Novità” (che sarebbe poi diventato “Vogue Italia”), mi sceglie insieme a un’amica per essere fotografata, come prototipo dello chic milanese. Io che sono nata a Livorno. […] Il secondo incontro è inaspettato ma determinante. Addobbata per l’occasione, sono al matrimonio di mia sorella. Conosco un signore. È Renato Olivieri, il direttore di Grazia, il giornale dove mia sorella lavora alla cultura. Mi parla di moda. Il discorso si fa lungo. Alla fine, mi propone di diventare redattrice di moda per Grazia. Rifiuto. Voglio continuare a studiare. Mi laureo in Giurisprudenza e comincio a lavorare in uno studio. Ma quel signore insiste. E allora decido di concedermi due mesi di vacanza prima di dedicarmi alla mia carriera seria di avvocato. Due mesi di stage che avrebbero cambiato la mia vita. Lo stage è durato più di sessant’anni. Ho scoperto subito il perché di quell’offerta. Volevano liberarsi di una persona non più giovane e soprattutto antipatica ai più, e cercavano una sostituta. […] I due mesi sono passati. Ero lacerata, così sono entrata dal direttore per decidere – e per dire di no alla sua eventuale proposta definitiva. Bene. Sono uscita dicendo di sì. Guai a chi non ha dubbi. Da quel momento la mia vita sarebbe cambiata, e non potrò mai sapere come sarebbe stata se avessi deciso diversamente». «Fare la redattrice di moda mi piaceva. […] Il lavoro mi divertiva, anche se all’epoca si partiva proprio da zero e si faceva una dura gavetta. Non avevo seguito una formazione specifica, […] ma dal primo giorno mi misurai con le didascalie, le telefonate, i rapporti con i colleghi e con il mondo esterno. S’imparava sul campo. Ricordo come il redattore capo Guido Milli fosse intransigente sulle didascalie. Me le faceva riscrivere mille volte: “Taffetà? Ma che cosa vuol dire? Cosa ne capisce la lettrice di Canicattì? Vanni, telefoni da Ghidoli! E si faccia spiegare bene che cos’è il taffetà”. (Ghidoli era un famoso negozio di tessuti del centro)». «Se vogliamo essere sinceri, la r.o., cioè la redattrice ordinaria, era una specie di tuttofare che doveva magari alzarsi alle quattro del mattino, stirare, truccare la modella, creare l’atmosfera. Era un lavoro duro, faticoso, rallegrato però da alcuni momenti magici che ti facevano dimenticare quelli che così magici non erano. Quando vedevi che quel vestito, quei pantaloni, quella t-shirt che avevi mixato tu prendevano vita addosso a una ragazza bella, piacevole, ma normale, raggiungibile, e il fotografo arrivava a quello che io chiamavo “lo scatto fatale”, ti sentivi felice. Ti sentivi parte di un mondo speciale, quello della moda. […] Dopo poco tempo, da r.o. diventai caposervizio. […] Il fatto è che io non volevo. Andai da Olivieri a protestare. Risposta: “Certo che diventa caposervizio. Non solo: le do anche una stanzina tutta per lei”. Non c’ero abituata, mi piaceva lavorare con gli altri. Protestai ancora, e tornai in mezzo ai colleghi». «Alla mia prima sfilata di moda di Parigi mi sono trasformata in una bottiglia di profumo. Lunedì pomeriggio, ore 14.30, Carven, primavera-estate 1960. […] Finalmente assistevo a una sfilata. […] Entrata nell’atelier, ho scoperto che non solo non avevo un posto, ma che a sfilata cominciata non potevo nemmeno rimanere in piedi. E allora? Il modo, lo trovò una ragazza deliziosa che, scusandosi per “l’incidente”, mi disse che, se volevo, l’unica soluzione era entrare nella nicchia nel muro dove normalmente veniva esposta un’immensa bottiglia di profumo Carven, e che in quel momento era vuota. E così, salendo faticosamente nella nicchia, che non era a terra, ma sollevata perché tutti potessero vedere il profumo, sono diventata una bottiglia. […] Con gli anni, poi, avrei ottenuto tutti i posti. E soprattutto la prima fila, considerata un po’ il Nobel delle sfilate». «La mia vita aveva preso un ritmo sempre più avvincente. Le cose da fare erano tante, i servizi da preparare, i viaggi, le location da individuare, i rapporti con i fotografi, con le modelle, con gli stilisti. […] Erano gli anni d’oro del Made in Italy: Armani, Krizia, Missoni, Ferré, Versace, Fendi erano già nomi importanti, nati velocemente e altrettanto velocemente diventati famosi. Forse eravamo tutti accomunati dallo stesso spirito: eravamo appassionati di ciò che facevamo, e forse proprio per questa passione che ci teneva uniti ci riuscì più facile diventare amici». «Mi è sempre piaciuto fare i servizi di moda e ne ho sempre avuto nostalgia. Il taglio da dare all’ultimo momento a “quel” servizio, la ricerca della location, la gioia di arrivare con il fotografo allo scatto giusto, la soddisfazione di vedere il fil rouge che si componeva, per sottile che fosse, scatto dopo scatto, per arrivare alla fine della storia: è qualcosa che ho sempre rimpianto. Arrivare a uno stile preciso, lo “stile Grazia”, è comunque stato sempre il mio obiettivo, da qualunque parte della scrivania io fossi». «Con gli anni, diventai redattore capo, non solo della moda ma della parte più femminile del giornale, l’interior, la cucina, i viaggi. E poi, dopo che l’allora direttore andò via e dopo la pausa di due-tre anni con un altro direttore, che ricordo con orrore, fui chiamata dal nuovo a diventare suo condirettore. Sono state tappe contrassegnate da eventi importanti. Ero a Parigi per le sfilate di moda – evento ormai diventato una routine – quando mi chiamarono perché tornassi subito a Milano. C’era bisogno che io fossi lì. Sul mio tavolo trovai una lettera. Il direttore lasciava il giornale, mi chiedeva di salutare tutta la redazione e mi affidava Grazia per un interregno. Rimasi condirettore insieme a un altro collega e poi fui fatta direttore. Senza votazione! E fu un grosso successo. Ero terrorizzata. Dai voti contro, dai voti a favore, da ciò che mi aspettava. Ho diretto Grazia per 29 anni». «Il cuore di Grazia era la moda, quindi bisognava cominciare da lì dando alla moda un connotato speciale. E intorno bisognava costruire un mondo, raccontare quello che succedeva e attraverso i nostri occhi farlo conoscere anche alle donne che allora non avevano ancora l’abitudine di leggere un quotidiano». «Avevo l’abitudine, una specie di mania a cui non ho mai rinunciato, di guardare le varie pagine del giornale stese per terra, perché mi riusciva più facile dare il giudizio». «Negli stessi anni sarei diventata direttore editoriale dei femminili, e così Marie Claire, Donna moderna, Cento Cose Energy entrarono nella mia sfera. Avrei inventato un altro giornale, il mensile Easy Shop, secondo me il prototipo del femminile che avrebbe avuto qualche anno più tardi un grande successo, ma che per miopia editoriale a un certo punto fu chiuso. In seguito avrei ideato Grazia Casa, e dopo ancora sarei diventata editor in chief del network internazionale, con 21 edizioni di 21 Paesi». «Dopo un test formato mensile in Bulgaria, […] la prima edizione di Grazia nel mondo è stata Grazia UK. […] Il successo in Inghilterra fu immediato. In breve si cominciò a parlare di una “Grazia girl”: il giornale faceva status. Poi sono arrivati gli altri: la Russia, la Cina, l’India, la Corea, la Germania, la Francia e la grande sfida vinta con Elle. Ha quasi dell’incredibile… Mi devo fermare. Ma sono stati tutti dei successi, ed ero molto felice d’essere l’editor in chief del network. L’ultimo è stato il Pakistan». «Sono stati anni entusiasmanti, di incontri interessanti. In ogni Paese incrociavamo persone che avevano voglia di lavorare con noi, di essere partecipi, di essere vicine al Made in Italy, a quella moda che fino ad allora avevano visto da molto lontano e di cui adesso, improvvisamente, sentivano di far parte. La storia per me finisce qui. Il Covid, la crisi economica, il minor interesse per la carta stampata, le nuove tecnologie… Mondadori ha deciso di vendere. Grazia e il suo network adesso sono francesi». «Ho lasciato Grazia. È così. Una sera sono uscita dal Palazzo Niemeyer della Mondadori, senza alcun segno a sottolineare il fatto che fosse l’ultima volta per me lì dentro, con un’identità precisa, e che, da quel momento, di identità, avrei dovuto – e lo volevo, senza rinnegare niente del mio passato e del mio lavoro appassionante – trovarne una nuova. […] Non ho più etichette. Non ho una crisi d’identità. Con lo stesso entusiasmo sto iniziando un’altra vita, in cui ritrovare le mie radici, i miei affetti più privati. Sono una persona nuova. Sono Carla Vanni alla riscoperta di se stessa» • Un’autobiografia (a cura di Egle Santolini) pubblicata presso Rizzoli nel 2023, Diario incompleto [di giornalismo e di moda] (da cui, in assenza di altre fonti, è tratta la quasi totalità delle citazioni qui riportate) • Due figli, Carolina e Niccolò, da Vincenzo Nisivoccia, con cui è stata sposata dal 1963 fino alla morte di lui, occorsa nel 2019. «Ci eravamo conosciuti all’università, davanti ai Giardini della Guastalla. Cercavo un certo libro usato, lui ce l’aveva. Gli chiesi “Me lo vendi?”, e finimmo per scambiarci i numeri di telefono. Dopo la laurea, io ero convintissima che avrei fatto l’avvocato, ma ho finito per prendere una strada completamente diversa; lui voleva fare il pittore ma per quasi tutta la vita si è dedicato a una carriera differente. Con lui ho avuto due figli meravigliosi – e una vita altrettanto meravigliosa, anche se attraversata, come tutte le vite, da fasi complicate. Mio marito non c’è più, […] ma per me è sempre qui con me» • «“Quanti comunisti ha nella sua redazione?”. “Nessuno.” Questo fu il mio primo incontro con Silvio Berlusconi. Un incontro cui ne seguirono altri durante la sua permanenza in Mondadori. Continuai in totale libertà a fare il giornale, e, non essendo Grazia un giornale politico, non ebbi alcun obbligo di pubblicare o no certi articoli. […] Facevo parte del gruppo di trentacinque persone che il presidente riuniva ad Arcore ogni mese, di sabato, per parlare di ciò che era successo in quel mese e che ci toccava da vicino per le possibili, eventuali conseguenze. Erano incontri interessanti con la forza maggiore, giornalisti della carta stampata e della televisione al completo, tutti riuniti intorno al grande tavolo, più i principali dirigenti del gruppo. […] Tra un argomento impegnato e l’altro, c’erano i momenti di distensione. “Alzi la mano chi tiene al Milan!”. Io, la mano, non l’alzavo: al Milan non tenevo, e, soprattutto, non m’interessava assolutamente il calcio. Ma l’orrore fu scoprire che improvvisamente tutti, nessuno escluso, tenevano al Milan e mi guardavano con aria di disapprovazione. […] A distanza di anni mi sembra ancora tutto surreale e, allo stesso tempo, divertente» • «Mi piaceva rivolgermi al pubblico femminile, anche se dalle ricerche risultava una presenza molto alta di lettori uomini, perché ho sempre pensato che le donne abbiano una marcia in più. La parola “femminismo” però non mi è mai piaciuta, o almeno la penso come Margaret Atwood: di femminismi, ce ne sono di tanti tipi, e forse è il caso di trovare una parola nuova. Che abbia un significato più netto, meno banalizzato» • «Adoro andare al cinema. A volte, con la mia amica Rachele Enriquez, riuscivamo a vedere anche tre film nello stesso giorno. Erano pomeriggi di felicità» • «Sono convinta che i sassi parlino, e che raccontino delle storie. L’ho sempre pensato. E così, da anni, da qualunque Paese che per me sia nuovo o insolito riporto un sasso. […] Perciò, sul mio tavolo ho sassi provenienti da molte parti del mondo e di tutte le forme e misure, quasi piccole sculture che mi riportano a quei luoghi lontani che forse non rivedrò più, se non nella memoria e nel cuore» • «Possibile che io mi vesta, salvo rare situazioni e rari momenti, sempre nello stesso modo? Amare la moda, esserci dentro, analizzarla, semplificarla, mescolarla, odiarla… La amo ma sono sempre qui, con la mia camicia bianca, che adesso a volte assume anche qualche altro colore, e i pantaloni larghi, ai quali mi iniziò Giorgio Armani, quando in una lontana estate a Pantelleria mi bocciò le gonne senza mezzi termini. I colori? Li amo tutti. Ma il mio resta il nero, la summa: quello assoluto, che è la mia cifra» • «Somma sacerdotessa del giornalismo di moda italiano» (Alberto Mattioli) • «Andare a cena dagli stilisti era sempre divertente. […] La cena forse più scapestrata fu la mia prima da Dolce & Gabbana. Erano gli ultimi arrivati nel gruppo privilegiato del Made in Italy, erano ancora agli inizi e stavano in un monolocale in via San Damiano. Domenico preparò una pasta con le melanzane. In cucina c’era un altare alla Madonna in linea con la loro moda mediterranea, allora una completa novità. […] Mi raccontarono di avere una grande ammirazione per me, e che in atelier, per prendere in giro la mania di controllo di Stefano, lo chiamavano “signora Vanni”». «Mastroianni per tutti è il latin lover. Io, prima d’incontrarlo, non sapevo che mi avrebbe sedotto. Mi ricordo una sera a Roma, a una cena importante. Siamo in casa Fendi. Tutti aspettano la star. Finalmente quello che le donne speravano si avvera. Arriva. Sono seduta accanto a lui. Discussioni? Seduzioni? No. La star è affaticata e diventa un po’ nostalgica. Che cosa può sognare quest’uomo che ha tutto, questo attore incredibile? Dixit Mastroianni: “Sogno solo di essere a casa, e di appoggiare la testa sul seno della mia vecchia governante, che sa prepararmi la buona pasta che amo”. Fine del mito e scoperta di un uomo pieno di charme, semplice: un vero sentimentale. Non avevo incontrato Mastroianni il latin lover. Meglio: avevo incontrato Marcello» • «Per me l’eleganza è portare un abito vecchio come se fosse nuovo, e uno nuovo come se fosse vecchio. […] Non ho mai messo un paltò appena comprato: ho aspettato sempre l’anno dopo. […] Entra in gioco il tempo, la patina del tempo, che aggiunge qualcosa a quel capo: quasi una riflessione. E allora l’eleganza è un pensiero? Forse. Di una cosa però sono certa: eleganti si nasce, non si diventa» • «Non posso pensare a un mondo senza la fantasia della moda. Senza le sue assurdità, i suoi divertimenti, le sue stravaganze, le sue provocazioni» • «Sessant’anni di lavoro. Due fashion week all’anno, autunno-inverno e poi primavera-estate. 120 sfilate a stagione, cioè 240 sfilate ogni anno. 240 per 60 anni uguale 14.400 sfilate? E quanti vestiti ho visto per ogni sfilata? […] Sessant’anni sono lunghi da raccontare, brevi da ricordare. Mi fermo qui. Tutto è cambiato, e la voglia di libertà, che per tanto tempo era stata soffocata dalla passione che mi travolgeva, adesso è più presente, è molto forte. La passione, ora, ha orizzonti diversi».