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 2025  febbraio 20 Giovedì calendario

Biografia di Eraldo Affinati

Eraldo Affinati, nato a Roma il 21 febbraio 1956 (69 anni). Scrittore. Insegnante. Educatore. «Un autore che non delude mai. Perché nei suoi libri c’è sempre “sostanza”. Non vuote chiacchiere o belle parole. La sostanza di cui parliamo è fatta, insieme, di vita e di letteratura, o meglio di un loro vivace intreccio» [Roberto Carnero, Avvenire 8/8/2023] • Insegnante di italiano e storia nell’Istituto tecnico della Città dei ragazzi, alla periferia della Capitale, «dove ha scelto di dedicarsi ad alunni slavi, arabi, africani e asiatici, che hanno tra i 14 e i 18 anni, vengono raccolti dalla Caritas o dalla polizia intorno alla stazione e portati in questa Città in via Pisana, che ha un sindaco, degli assessori, una moneta locale» (Lauretta Colonnelli) • Fondatore della Penny Wirton School, scuola di italiano per stranieri, dove volontari insegnano i rudimenti della nostra lingua agli immigrati • «Il nonno di Affinati si chiamava Alfredo Cavina. I nazisti lo fucilarono il 26 luglio 1944, a Pievequinta, in provincia di Forlì. Era un partigiano della 36ª Brigata Garibaldi. Le bande fasciste lo catturarono insieme alla moglie e alle due figlie, una delle quali, Maddalena, riuscì a fuggire dal treno che la stava deportando in un lager tedesco. È la donna che poi sarebbe diventata sua madre: “Quando le chiedevo cosa era successo, non riusciva a raccontarmelo. Aveva frequentato la scuola fino alla quinta elementare. Non conosceva le parole per dirmi ciò che aveva vissuto. Ho impiegato il resto della vita a cercare quei vocaboli. Sono diventato scrittore per questa ragione. Ho scritto un libro – Campo del sangue – per raccontare la sua storia e quella di mio nonno. E ancora oggi, insegnando l’italiano agli stranieri, facendo il professore nelle periferie, conoscendo decine e decine di borgatari, la mia ossessione è quella di trasmettere il linguaggio che i miei genitori non hanno mai avuto”» [Nicola Mirenzi, HuffPost 25/2/2018].
Titoli di testa «Nel marzo del 2002, Giovanni Raboni, poeta milanese, traduttore di Proust, Baudelaire e Céline, di famiglia cattolica, scrisse sul Corriere che “I grandi scrittori sono tutti di destra”. Ne nacquero discussioni infinite – infine, aveva ragione Raboni. Perfezionando il concetto, dovremmo dire che “i grandi scrittori sono tutti cattolici”» [Davide Brullo, Giornale 2/2/2025].
Vita Nato e cresciuto a Roma, quartiere Esquilino. Da bambino gioca a calcio davanti al Colosseo. «Quando cammino sotto i portici di Piazza Vittorio e ripenso al mercato all’aperto dove mi portava mia madre, o torno al Colle Oppio, nel punto in cui giocavamo a pallone, le pietre mi parlano. Sono stato battezzato a Santa Maria Maggiore. Ho venduto i gelati al Brancaccio. Ho comprato i lupini dal fusagliaro di piazza Dante» [Francesco Musolino, Mess 29/8/2023] • Origini umili. La madre, scampata alla deportazione, «pur non essendo praticante, prima di avermi andò in pellegrinaggio al Divino Amore per chiedere la grazia di un figlio». Il padre, nato da una relazione illegittima, che non aveva mai conosciuto il proprio padre, era rimasto orfano di madre all’età di dodici anni, e si era sempre dovuto arrangiare. «Mio papà non è mai riuscito a confessarmi cosa ha significato, per lui, quell’esperienza». Cosa sarebbe cambiato? «Non sarei cresciuto con l’ombra della sua storia irrisolta. Forse, non avrei vissuto male la scuola. Forse, sarei stato meno asociale e chiuso» [Mirenzi, cit.] • «Essere figlio di queste ferite, per me e mio fratello, ha voluto dire crescere in un vuoto. I miei genitori non avevano studiato, non avevano la possibilità di elaborare questi loro traumi». La povertà culturale è più grande di quella materiale? Essere povero culturalmente ti impedisce di pensare? «Sì. Secondo me, sì. La povertà spirituale, la povertà delle parole, vuol dire non avere gli strumenti per elaborare quello che si vive. Forse è una ferita ancora più profonda della povertà economica. A casa mia non c’erano libri. Io ho dovuto lottare. Strappare la conoscenza fuori e dentro di me […]» (a Monica Mondo) [Soul, Tv2000 7/2/2016] • «Il mio primo libro? Credo che fosse Il giro del mondo in ottanta giorni in una riduzione per ragazzi. O potrebbe anche essere stato Robinson Crusoe, se non addirittura Moby Dick, sempre in versione ridotta. La prima vera opera integrale, I quarantanove racconti di Ernest Hemingway, la sottrassi a un parente perché a casa mia non c’erano libri». «A vent’anni si ha bisogno di maestri e di eroi. Io li ho trovati nella letteratura: i miei compagni segreti erano Tolstoj, Dostoevskij, John Dos Passos, Flaubert, Stendhal, Puškin: ho cercato quegli interlocutori che non trovavo da adolescente» [Mondo, cit.]. «Affinati racconta che da adolescente appuntava in fondo ai libri letti le sue impressioni, brevi riassunti, sintetici giudizi. Un po’ come fanno i lettori di professione, cioè i critici. Ma il suo intendimento era un altro: preservare il ricordo delle cose lette e fare in modo che non fuggissero via col tempo. “Mi domandavo: cosa ne farò dei romanzi e delle poesie che sto leggendo? A cosa mi serviranno? Erano intuizioni sfolgoranti, impossibili da mettere a frutto. Emozioni tutte mie destinate a perdersi appena formate”» [Carnero, cit.]. «Ero un introverso. Non parlavo con nessuno. Mi sceglievo da solo gli scrittori da leggere. Ecco perché oggi quando vedo Romoletto seduto davanti a me con la testa nascosta dentro il cappuccio e lo sguardo spento mi viene il groppo in gola. Allora mi avvicino a lui con delicatezza, sapendo che posso pungermi» [Paolo Perazzolo, Famiglia Cristiana 7/9/2015] • «Sono diventato scrittore e insegnante anche per trovare le parole che i miei genitori non riuscirono a dire a sé stessi, prima ancora che a me e a mio fratello. È una forma di risarcimento per interposta persona». Una vocazione particolare per i ragazzi difficili. «Mi riconosco in questo: fin dal mio primo giorno come supplente a scuola, mi interessava parlare soprattutto a quelli che non mi ascoltavano. Gesù insegna a prendere anche lo scarto, non fa la selezione dei migliori» • «Per me Roma, nel suo fondo oscuro, non è cambiata. Gli autobus hanno spesso funzionato a singhiozzo, le strade sono sempre state piene di buche, l’immondizia la ricordo spesso ai lati dei marciapiedi». Tutto immutato? «L’unica cosa diversa sono gli immigrati. Una volta in Via Carlo Alberto c’era solo un negozio cinese, che vendeva ombrelli, all’angolo con Via Rattazzi. Ora è pieno. E questo, dal mio punto di vista, ha dato una nuova spinta alla nostra città» [Musolino, cit.] • Lei ha fondato le scuole Penny Wirton. Italiano per ragazzi stranieri. Totale gratuità: sia per chi insegna, sia per chi apprende. In Italia ce ne sono ormai 65. Cosa accade in queste scuole? «Il meticciato presenta attriti. Non sempre le persone sono disponibili a superarli. Scattano tensioni legate a identità diverse. A scuola tutto è più semplice». In che senso? «Alla Penny Wirton capita che durante la lezione un ragazzo si interrompa e cerchi un posto per la preghiera. Punta la bussola del cellulare in direzione della Mecca e si inginocchia a recitare la sura». Cosa racconta l’esempio? «Che se nelle città pensiamo solo al colore delle nostre magliette, all’essere con o contro, si crea attrito. Se invece si punta su un’azione da fare insieme, persone diverse fanno la stessa azione oltre gli ostacoli. Nelle città dovremmo trovare più azioni da fare insieme. Nel nostro caso abbiamo scelto la didattica». È comunque una scelta politica. «L’obiettivo invece è cercare azioni, campi liberi, dove tutti si possano muovere oltre la politica». Perché insegnate l’italiano? «Perché crediamo che la lingua non sia solo un mezzo di comunicazione. La lingua è la casa del pensiero. Senza una lingua strutturata il pensiero non è maturo, non si riescono a elaborare emozioni ed esperienze». Che ragazzi vengono da voi? «Ragazzi laureati e ragazzi analfabeti nella loro lingua madre. Per loro l’italiano diventa così la prima lingua per capire chi sono e cosa hanno fatto nella loro vita. Insegnare italiano non significa insegnare i verbi, ma ricostruire personalità, magari con traumi, e trovare una lingua comune». Chi sono i vostri insegnanti? «Tutti volontari, alcuni sono giovani che arrivano dall’ex alternanza scuola lavoro. Fanno i docenti dei loro coetanei immigrati. Tra adolescenti si creano rapporti straordinari» [Gianni Santucci, Cds 26/11/2024] • «Ogni bambino e adolescente ha una passione nascosta, un’inclinazione sopita, una sensibilità speciale; è compito del docente far entrare in contatto il giovane che ha di fronte col suo “maestro interiore”: secondo Sant’Agostino era Dio, ma possiamo utilizzare questa immagine anche in senso greco, come daimon, voce segreta dell’anima, luogo del destino. Non pensiamo a chissà quali stravolgimenti. A volte la nostra piccola via di Damasco consiste nel far brillare gli occhi dei ragazzi che ci sono stati affidati. Magari soltanto per un istante. Ad esempio quando Romoletto, bocciato e negligente, iscritto all’istituto professionale per l’industria e l’artigianato, croce e delizia dell’istruzione italiana, all’ultima ora del martedì, mentre stai spiegando I fiumi di Giuseppe Ungaretti, la classe è stanca e sfinita, quasi nessuno segue, all’improvviso ti rivolge una domanda a bruciapelo: professore, dov’è morto questo poeta? E tu gli rispondi: a Milano, ma è sepolto al cimitero del Verano, a Roma. D’istinto lui ribatte: perché non ci andiamo? Lo prendi in parola: va bene, allora domani vediamoci alla stazione Termini, poi prendiamo l’autobus e facciamo lezione davanti alla sua tomba. Quelle simpatiche canaglie, giunte al cospetto del loculo ingiallito, parevano trasfigurate, nemmeno fossero diventate studenti oxfordiani» [Rep 30/10/2022].
Amori La moglie, Anna Luce Lenzi, critica letteraria, sette anni più vecchia. «Entrambi abbiamo fatto la tesi laurea sullo scrittore Silvio D’Arzo: ci siamo conosciuti grazie a lui».
Politica Perché, nei suoi romanzi, i borgatari parlano agli immigrati senza essere politicamente corretti? «Perché conoscono gli stranieri, hanno un rapporto diretto con loro. E non sentono l’ansia di dover dimostrare di essere buoni. È un rapporto reale, il loro: c’è lo scontro, non la retorica». Il discorso dell’accoglienza è retorico? «Ci sono persone che parlano in continuazione di integrazione e di aprirsi all’altro, ma non hanno mai incontrato un immigrato. È anche questa una mitizzazione. C’è chi si figura lo straniero come una minaccia mortale, chi come un santino salvifico: sono entrambe visioni fasulle». È meglio scontrarsi? «L’immigrazione ci mette in discussione radicalmente. Scava dentro di noi, facendo emergere le paure più profonde. È normale che generi reazioni forti, e anche isteriche». È un bene che si manifestino? «Sì, perché solo se vengono fuori, questi sentimenti di rifiuto, possono essere trattati, conducendo a una vera integrazione. D’altronde, l’Italia non è come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna: soltanto oggi, per la prima volta, si trova davvero a fare i conti con l’immigrazione di massa». Pensa che ci sia chi la fa troppo facile? «Quello che definiamo “buonismo” è un atteggiamento superficiale: credere che il male umano si possa superare con un abbraccio indifferenziato di rose e fiori, è irreale». Perché? «Ho studiato a lungo la Shoah e non mi faccio illusioni. Bisognerebbe accendere le luci anche sulla nostra zona grigia, affrontando l’indifferenza e l’ignoranza da cui scaturiscono le peggiori nefandezze. Tuttavia, non dovremmo cadere nel rischio opposto, ugualmente deprecabile: enfatizzare soltanto il lato negativo, i comportamenti malvagi, lasciandoci oscuramente affascinare dalla violenza e dalla sopraffazione. Allora, soprattutto pensando ai giovani, meglio un buonista che un “cattivo maestro”». Laura Boldrini ha definito così Matteo Salvini. «Io sono interessato a ciò che c’è prima di Salvini. Quando si arriva a lui, è già troppo tardi». Rischiamo davvero il ritorno al fascismo? «Distinguerei tra due fascismi. Uno storico, che va dal 1922 al 1945. E uno antropologico – un tratto del carattere italiano –, presente prima e dopo quel periodo». Quando si manifesta quest’ultimo? «Quando scatta la paura del vero confronto umano e ci si chiude nel fortilizio identitario, senza rendersi conto che, così facendo, ogni valore diventa sterile e tutte le nostre energie si atrofizzano». Siamo in questo frangente? «Siamo in un momento in cui ogni tensione viene strumentalizzata in senso cinicamente elettorale. Non vedo una prospettiva politica di ampio respiro. Il linguaggio dei candidati non possiede la caratura necessaria: le loro parole non sono legittimate dall’esperienza. Il desiderio di ottenere consenso spegne ogni originalità. Lo stereotipo trionfa. Vince il luogo comune. In tali condizioni, nelle personalità più fragili può scattare la violenza» [Mirenzi, cit.].
Religione Ha scritto una versione del Vangelo in 123 capitoli da 5 mila battute l’uno. «Ho fede nel modo dantesco: “Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi, / e questa pare a me sua quiditate” (Paradiso, XXIV)» [Musolino, cit.].
Tifo Romanista.
Curiosità Nominato commendatore da Mattarella • Il 27 gennaio 2021 ha tenuto la prolusione inaugurale sulla Shoah al Quirinale • Autore della canzone Cercare la vita di Antonella Ruggero • Ha collaborato con la Cisl e con Save the Childen • Ha curato l’edizione completa delle opere di Mario Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano (2003), per i Meridiani • Sua giornata tipo quando scrive: «Lavoro soprattutto di pomeriggio a fasi alterne. Ci sono giornate intense, quando posso comporre anche dieci cartelle. E altre in cui mi rilasso andando a correre a piedi oppure in moto». • Gli piacciono i preti di strada • Grande passione per Don Milani. «Oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Afghanistan, dal mondo slavo, dal Magreb» • A Roma la Scuola Penny Wirton è attiva nel quartiere di Casal Bertone, ma «sparse in tutta Italia esistono una cinquantina di associazioni che si richiamano al nostro stile: uno a uno, senza classi e senza voti» • Gli piace vedere che le sue scuole per stranieri attirano moltissimi volontari. «L’Italia non è sempre quella che vediamo in televisione o di cui leggiamo sui giornali. Non c’è solo l’Italia chiusa, egoista, atrofizzata. C’è anche un’Italia che si mette in gioco» • «Una volta domandai a un mio scolaro perché non facesse religione. Dichiarò di essere arrabbiato con Dio. Aveva pregato tanto affinché il nonno non morisse e non era stato ascoltato. Cercai di fargli capire che la preghiera non va considerata come un contratto. La domanda conta più della risposta» [Musolino, cit.] • È anche severo, ogni tanto? Che differenza c’è tra essere buono e buonista? «La differenza è incarnare il limite, che non va superato. Se Valerio entra sempre alla seconda ora, a un certo punto gli devi dire che deve entrare alle otto e mezza. “La scuola inizia alle otto e mezza”. Se tu no glielo dici, sfidando la sua rabbia, non sei credibile. Se lui non ha mai ricevuto un no, da parte né del padre né dalla madre né dal professore, rischia di crescere in un vuoto dialettico. Molti adulti oggi hanno perso questa serietà» [Mondo, cit.] • «Non amo l’eccentricità. Di eccentricità ne abbiamo avuta anche troppa nella cultura del Novecento. Bisognava per forza essere diversi, siamo stati educati alla cultura della provocazione, al delirio, all’ebrezza, allo smarrimento» [Mondo, cit.] • Negli immigrati delle sue scuole rivede i propri genitori, senza un’istruzione, senza una lingua per dare un nome alle proprie ferite. «Sono persone rotte dentro, che non sanno dire nemmeno come sono arrivate in Italia, figurarsi se riescono a nominare le proprie fratture. Mi rivedo in loro. Insegnargli l’italiano, significa dargli la possibilità di curarsi». Sono gli unici che hanno delle ferite? «Qualche tempo fa, un padre e una madre vennero da me disperati a parlarmi di loro figlio. Non sapevano cosa fare. Frequentava CasaPound. D’estate andava a Ostia a scacciare dalla spiaggia gli ambulanti neri. Gli dissi: “Potete farmelo conoscere?”». Lo fecero? «Sì. Lo portai nella nostra scuola a incontrare gli stranieri che odiava così tanto. E quando Salah, un marocchino, si presentò dicendogli come si chiamava, lui rispose: “Come il giocatore della Roma?”» È servito? «Non credo abbia preso la tessera dell’Anpi. Però, gli immigrati li ha incontrati. Ha parlato con loro. Ha conosciuto le loro storie». È sufficiente questo? «Crede che se l’avessi scacciato, trattandolo come un appestato fascista, si sarebbe messo maggiormente in discussione? Io preferisco rivolgermi all’essere umano. Sporcarmi le mani. Guardare, se un ragazzo è fascista, dentro lo scandalo del suo fascismo. Domandargli: “Cosa vuoi dire inneggiando al Duce?”». Cosa potrebbe voler dire? «Non lo so, io non credo nelle statistiche, dipende da persona a persona. Dietro potrebbe anche esserci il desiderio di un rapporto umano vero» [Mirenzi, cit.] • Ripensa sempre a quando aveva otto anni e chiese alla nonna Rosina cosa fosse l’Inferno. «Mi disse di immaginare una stanza piena di cartacce e una scatola senza fondo in cui raccoglierle: una dannazione eterna. Poi aggiunse: però se farai questo con le persone andrai in Paradiso» [iO Donna 23/8/2021].
Titoli di coda «Posto che di uno scrittore non ci importa nulla – che sia buddista o musulmano, di destra o di sinistra, idraulico o del Milan –, dacché conta soltanto lo scritto, un grande scrittore non può non essere cattolico. Al di là di ogni vieta ideologia, di ogni faina fama, soltanto il cattolicesimo permette di indagare la realtà nei suoi aspetti più sinistri, urticanti, feroci. Soltanto il cattolicesimo permette di fare lo scalpo all’uomo, di gambizzare Dio» [Brullo, cit.].