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 2025  febbraio 24 Lunedì calendario

Biografia di Paolo Mieli

Paolo Mieli, nato a Milano il 25 febbraio 1949 (76 anni). Giornalista. Storico. Docente universitario. Ex presidente di Rcs Libri (2009-2016). Ex direttore del Corriere della Sera (1992-1997; 2004-2009) e de La Stampa (1990-1992). «Il giornalismo […] è relativo. È quando sto in cattedra o correggo una tesi e ho a che fare con gli studenti che mi sento veramente un padreterno» (a Barbara Romano) • «Lei è figlio d’arte. Crede che il suo destino sarebbe stato lo stesso se suo padre non fosse stato Renato Mieli? “Mio padre era un ebreo di Alessandria d’Egitto che venne in Italia. Ma durante le leggi razziali si rifugiò in Medio Oriente. Rientrò cambiando identità, nei panni di un colonnello dell’esercito inglese di nome Ralph Merrill. Non considero mio padre un giornalista. Quindi non mi considero un figlio d’arte”. Suo padre fu anche il fondatore dell’Ansa. “Fondò l’Ansa perché gli inglesi sapevano che era un intellettuale di spessore. Entrato nel Pci, divenne anche direttore dell’Unità nel ’49, l’anno in cui nacqui io. Ma poi lasciò la direzione nel ’54, per andare a Roma a dirigere la sezione Esteri del Pci. Nei primi tempi fummo ospitati da Maurizio e Marcella Ferrara, i genitori di Giuliano, che per me è stato un fratello per tutta l’infanzia e l’adolescenza”. […] Che rapporto aveva con suo padre? “Molto forte. Anche se era più forte il rapporto con mia madre, perché da quando avevo sette anni, quando i miei si separarono, ho vissuto con lei”. […] Cosa sognava di fare da bambino? “Il professore universitario. Facevo attività politica. Mi iscrissi prestissimo alla federazione giovanile comunista. Ero dissidente da destra e poi fui travolto dal ’68. Ma non sono mai stato maoista. Anche se per vezzo nel mio ufficio tengo un manifesto della rivoluzione culturale di Mao, come una citazione forzata di quello che sono stato”. Doveva essere un secchione… “No. Fui anche rimandato in storia in quinta ginnasio. Ma ero stato malato, quindi sono giustificato. Anche all’esame da giornalista sono stato bocciato, all’orale”. Paolo Mieli bocciato all’esame da giornalista? “Cominciarono a torchiarmi con delle domande giuridiche, ma io sapevo poco o niente perché avevo saltato quella parte del programma. Provai a bofonchiare qualcosa. Mi bocciarono”» (Romano). «Quando fu preso dal sacro fuoco del giornalismo? “Nel 1967, l’anno in cui feci la maturità classica al Tasso, complice il papà della mia fidanzata dell’epoca, che era un giornalista dell’Espresso, Enrico Marussig. A settembre mi presentò, feci l’abusivo qualche mese e mi assunsero”. […] Come ha fatto a inanellare una carriera così strepitosa? “Ho cominciato a lavorare molto giovane in un’Italia che era molto diversa. Nel 1967, un diciottenne appena uscito dal liceo poteva essere assunto in un giornale prestigioso come L’Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari. Tutto un altro mondo il giornalismo a quei tempi. Pensi: si poteva persino licenziare. Tant’è che quattro anni dopo io fui licenziato”. Perché Scalfari la licenziò? “Perché l’azienda viveva un momento di difficoltà economica. Ma mi tennero con un contratto di collaborazione e due anni dopo mi riassunsero”. Cosa fece nel frattempo? “Ne approfittai per laurearmi in Storia contemporanea con Renzo De Felice, il grande storico del fascismo, e divenni suo assistente. Mi laureai nel 1972 con una tesi sul corporativismo fascista in pieno periodo di contestazione”. Come visse il ’68? “Dentro il movimento studentesco. Negli anni tra il ’68 e il ’72 io ero tre cose contemporaneamente. Primo: ero giornalista dell’Espresso, dove tenevo un diario sulla sinistra extraparlamentare. Secondo: militavo in un gruppo che precedette la costituzione di Potere operaio, dove c’erano Oreste Scalzone, Franco Piperno, Toni Negri, con i quali rimanemmo amici anche negli anni successivi. Terzo: facevo lo studente applicato di De Felice”» (Romano). «Paolo alla vigilia del 1968 si è infilato tra le iraconde bandiere di Potere operaio. Rinnegherà tutto di quella brevissima stagione (“fu una delle sue cento incarnazioni”, dirà Giampiero Mughini, compresa quella di firmatario del manifesto contro il commissario Luigi Calabresi, anno 1971) tranne gli amici incontrati allora e per sempre, […] e soprattutto le amiche, persuaso, come scriverà anni dopo, che “il ’68 lo hanno fatto le donne”, rendendoglielo ancora più accogliente» (Pino Corrias). «Come mai un militante di Potere operaio decide di fare una tesi sul fascismo? “Perché successe la cosa più importante della mia vita: l’incontro con De Felice, la rivoluzione copernicana della mia esistenza giovanile. Me lo presentò mio padre. De Felice mi affascinò, convincendomi che il centro della vita di un individuo è interessarsi in profondità dell’altro da sé, di quella porzione di ragione che ha chi si trova nel campo opposto, politicamente e culturalmente, perché lì puoi scoprire un tesoro”. […] Quando nell’85 Piero Ostellino volle assumerla al Corriere, lei disse no. Perché? “Preferii andare a Repubblica, dove mi aveva chiamato Scalfari, con cui avevo lavorato 18 anni all’Espresso. Ma non mi trovai bene”. Perché? “Perché il passaggio dal settimanale al quotidiano fu un trauma. Il caos e la competitività mi davano ansia e resistetti poco”. Se soffriva d’ansia, come ha fatto nel giro di pochi anni a diventare direttore di due quotidiani, prima della Stampa e poi del Corriere? “Tutto cominciò con un’intervista che feci a Gianni Agnelli per Repubblica nell’85. Andai da lui a Torino e passammo una giornata intera insieme. Da allora mantenemmo un rapporto di amicizia. E tutte le volte che lui veniva a Roma mi invitava a cena. Ogni tanto andavamo anche in vacanza e a sciare insieme. Quando, nell’86, il direttore della Stampa, Gaetano Scardocchia, propose di assumermi, Agnelli si dichiarò molto contento e il nostro rapporto si intensificò. Nel maggio del ’90, Scardocchia lasciò. E Agnelli mi chiamò a dirigere La Stampa, nonostante avessi 41 anni. Nell’autunno del ’92, siccome la proprietà era la stessa e l’Avvocato aveva grande voce in capitolo, mi mandarono a dirigere il Corriere”» (Romano). «In via Solferino Mieli si insedia il 10 settembre del ’92, all’inizio del periodo di Tangentopoli, con un editoriale di presentazione ai lettori in cui sottolinea la responsabilità di prendere “un’eredità preziosa in termini editoriali” e sottolinea che “l’autorevolezza di un grande quotidiano di informazione e il suo peso nella vita nazionale dipendono dalla capacità di far pervenire al Palazzo la voce del Paese, di essere l’espressione fedele dell’opinione pubblica, che in una società democratica rappresenta la difesa naturale contro ogni pericolo di arroganza dei centri di potere”. Una linea che avrà modo di ripetere più volte e nella quale si inserisce anche il famoso episodio della notizia pubblicata dal Corriere sull’avviso di garanzia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel giorno in cui Berlusconi presenzia all’apertura del G7 a Napoli» (Francesco Manacorda). «Poco prima delle elezioni del 1996, insediato sulla massima poltrona di via Solferino, Mieli si era espresso con franchezza: “Val la pena di dire subito il più chiaro possibile quel che pensiamo noi: noi non ci auguriamo la vittoria del Polo se, come sembra, questo sarà guidato da Silvio Berlusconi e questi si candiderà a tornare a Palazzo Chigi. Inutile far giri di parole: come questo giornale non si è stancato di ripetere dall’inizio del 1994, Berlusconi non può fare il presidente del Consiglio”» (Edmondo Berselli). «La prima direzione di Mieli al Corriere della Sera finisce nel maggio ’97, quando assume la carica di direttore editoriale di Rcs. Da quel momento ha posizioni di rilievo nel gruppo fino ad assumerne la vicepresidenza, pur non perdendo mai il contatto con il giornalismo: prima con le pagine nella sezione “Società e Cultura” de La Stampa, poi con le risposte alla posta dei lettori nello spazio che era occupato dalla “Stanza” di Indro Montanelli sul Corriere. Da queste esperienze arrivano anche libri di successo» (Manacorda). «Fu così che Mieli, a meno di cinquant’anni, poté realizzare, forte della sua direzione editoriale della Rcs, il sogno di coltivare il secondo mestiere che si portava appresso da una vita: quello dello storico. Un mestiere che Mieli non avrebbe accantonato in gioventù se una legge, nei primi anni Settanta, non avesse sancito l’incompatibilità tra l’insegnamento universitario vicino a Renzo De Felice e Rosario Romeo e l’essere redattore di un giornale, nella fattispecie L’Espresso» (Pierluigi Battista). Designato alla presidenza della Rai il 7 marzo 2003 dai presidenti di Camera e Senato (rispettivamente Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera), rinunciò all’incarico pochi giorni dopo, prendendo atto del rifiuto opposto dal governo (Berlusconi II) alle sue richieste, prima delle quali che ritornassero «sugli schermi della Rai, in orari di massimo ascolto, Enzo Biagi e Michele Santoro». Il 23 dicembre 2004 tornò – primo nella storia del quotidiano – alla direzione del Corriere della Sera, ove sarebbe rimasto fino al 9 aprile 2009. Molto clamore – nonostante il citato precedente del 1996 – suscitò l’8 marzo 2006 il cosiddetto «endorsement», cioè l’editoriale con cui Mieli, in vista delle imminenti elezioni politiche, schierò il giornale in favore dell’Unione, la coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi, che riuscì poi a prevalere di strettissima misura su quella di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi. «Quanti elettori fece perdere al Corriere? “In quella primavera-estate ci fu uno scostamento di qualche decina di migliaia di copie”. Il suo vicedirettore Massimo Mucchetti, nel libro Il baco del Corriere, racconta che furono 40 mila le copie perse. “Confermo. […] Ma quei lettori, col tempo, sono rientrati”. […] “Penso di aver fatto bene”. Quindi lo rifarebbe? “No, col senno di poi non lo rifarei”. Si è pentito dell’endorsement? “No, perché ho fatto una scelta che rientra nei canoni del giornalismo più moderno”. […] Se non si è pentito, perché dice che non lo rifarebbe? “Se tutti i lettori fossero in grado di capirne il senso, lo rifarei. Ma, se c’è anche una piccola minoranza che fraintende, non ne vale la pena. I direttori degli altri grandi giornali fanno continuamente l’endorsement, ma con la mano sotto il tavolo”» (Romano). Conclusa la seconda direzione del Corriere della Sera (ove fu per la seconda volta sostituito da Ferruccio De Bortoli: altro unicum nella storia del quotidiano) con il passaggio alla presidenza di Rcs Libri, da allora Mieli si dedicò principalmente alla sua antica passione per la storia, tanto nelle forme della docenza universitaria quanto in quelle della divulgazione, conducendo o curando varie trasmissioni culturali della Rai (tra cui Correva l’anno, La grande storia, Italiani e Passato e presente) e licenziando numerosi libri (tra cui I conti con la storia. Per capire il nostro tempo, Le verità nascoste. Trenta casi di manipolazione della storia, Ferite ancora aperte. Guerre, aggressioni e congiure, Il secolo autoritario. Perché i buoni non vincono mai e, da ultimo, Fiamme dal passato. Dalle braci del Novecento alle guerre di oggi, tutti pubblicati presso Rizzoli), senza peraltro rinunciare a frequenti interventi sui temi dell’attualità, in televisione, in radio e sulla carta stampata • Tre figli da altrettanti matrimoni (l’ultimo dei quali con la nota giornalista Barbara Parodi Delfino). «Una schiera pressoché infinita di fidanzate, sempre presunte» (Corrias). Attualmente legato alla gallerista Camilla Grimaldi • «Che rapporto ha lei con l’ebraismo? “Io mi sento ebreo, anche se ‘tecnicamente’ non lo sono, essendo figlio di padre e non di madre ebrea. Pur non professando alcuna religione, mi sento molto vicino al mondo ebraico”» (Romano) • In ambito giornalistico, ideatore del cosiddetto «mielismo», termine accolto persino dal Vocabolario Treccani (insieme al correlato aggettivo «mielista») e che però «non gli piace: “È stato usato per mettere alla berlina il mio stile, esagerandone i tratti, a partire dalla sdolcinatura del cognome che porto”. Lui lo chiama “metodo Mieli”. Filippo Ceccarelli ne ha dato una definizione memorabile, che cominciava così, “inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassa”, e si concludeva citando il gusto per il gossip e il mielistico “spargimento di polpettine di zizzania” fra intellettuali e politici» (Berselli). «Mieli ha messo la minigonna a una vecchia signora» (Gianni Agnelli) • «Uno dei princìpi cui da sempre tiene di più: l’esaltazione della “controversialità”, l’idea che non dalla diplomatizzazione del dissenso, ma dal conflitto delle idee, dallo scontro tra posizioni diverse, dalla varietà delle opinioni anche estreme ed estremiste nasce un buon giornale. […] Nelle polemiche storiografiche e giornalistiche […] si è affacciata spesso la rivendicazione del termine “terzismo”. […] Il “terzismo”, o meglio la rivendicazione della “terza Italia”, viene difeso da Mieli come la possibilità per un intellettuale della sinistra liberale e non forcaiola, democratica e non estremista di rifiutare le convulsioni, gli oltranzismi del muro contro muro, della delegittimazione politica o addirittura morale dell’avversario, ridotto e massacrato come un Nemico cui riservare un trattamento incivile e irrispettoso» (Battista). «Fu proprio per lui, a causa del suo “mielismo”, che coniai il termine “cerchiobottismo”: un atteggiamento mentale che non significa equidistanza o neutralità, bensì doppiezza, ambiguità. La tendenza, appunto, a dare un colpo al cerchio e uno alla botte» (Giovanni Valentini). «Assai labile mi appare il confine tra terzismo, opportunismo e trasformismo» (Eugenio Scalfari) • «Sornione, felpato e apparentemente onnisciente» (Camilla Baresani). «Disincantato. Al punto di essersi accorto con un ritardo di sei anni del fatto che Mani pulite gli aveva occupato il Corriere. Il suo distacco dagli umani affanni lo avvolge di mistero» (Pietrangelo Buttafuoco). «L’uomo non ha spine visibili, non ha spigoli, ma specchi rotondi che tiene sulla punta delle dita, sorrisi che accolgono, gentilezze che a malincuore congedano. E una sua frase standard, “Guardi, lei mi ha davvero convinto”, che sembra sempre verosimile e che disarma i quattro quinti degli interlocutori. Come dice Carlo Rossella: “Paolo non è un uomo, ma una visione del mondo”» (Corrias) • «De Felice ci parlava molto del suo lavoro di ricerca sul fascismo, spesso ci mostrava carte preziose provenienti da archivi personali. […] Ma ci invitava a diffidare del documento-rilevazione. […] Per effetto di questa idiosincrasia nei confronti del sensazionalismo storiografico, […] ci fece capire come si individuano i risvolti minori delle grandi vicende, come si scoprono i significati nascosti tra le pieghe degli eventi» • «Il suo maestro professionale è stato Livio Zanetti, che trasformò L’Espresso in una lanciamissili con vista sugli anni ’70 e ’80. Da lì Mieli imparò a maneggiare le rotte del potere, compreso quello del giornalismo» (Corrias) • «È un indefesso ribaltatore di certezze acquisite, di teoremi condivisi, di punti di vista assodati. Paolo Mieli esercita questa sua inclinazione con una tale scaltra pacatezza da riuscire a prendere all’amo le persone più faziose e portarle a concludere che in realtà la sua opinione è proprio quella che loro stessi nutrivano. […] Come storico e giornalista, è più importante raccontare presunte verità o svelare bugie? “La cosa più importante è cercare la verità sapendo che quella assoluta non esiste, che si tratta di un’approssimazione progressiva e continua. I fatti possono essere incontrovertibili grazie alle testimonianze dirette, ma sono l’analisi e l’interpretazione dei fatti a interessare la storia, che invece è controvertibile. Il mestiere del giornalista e quello dello storico sono intrecciati, applicano le stesse tecniche, perché interpretare e raccontare richiede la ricerca e la comprensione dei motivi profondi”. […] “Laddove si è affermato un dogma ci vuole più di una generazione prima che venga messo in discussione. Le faccio due esempi. Il dogma della positività della Rivoluzione francese: ci è voluto più di un secolo perché si accettasse che alcuni temi della storiografia controrivoluzionaria, tra cui quello del genocidio della Vandea compiuto dai rivoluzionari, erano reali e andavano immessi nel dibattito della storiografia ufficiale. L’altro esempio, a noi più vicino anche se di minore portata, riguarda i crimini commessi dai ‘buoni’ sulla frontiera orientale: l’indicibile questione delle foibe. Esisteva una storiografia nostalgica e locale che aveva posto la questione sin dall’inizio, ma la storiografia ufficiale non teneva in nessun conto le ragioni dei perdenti. In Italia ci sono voluti cinquant’anni perché questo tema venisse dibattuto. Non si tratta di creare un controdogma, ma bisogna smantellare le certezze correnti e aprirle a interpretazioni che sono in grado di minarne le fondamenta”» (Baresani) • «C’è sempre più bisogno di una memoria condivisa. “Sì, perché, avendo in tasca un pc con gli odierni smartphone, si atrofizza la memoria di tipo scolastico e si tende anche a non selezionare più. Si crede di sapere e non si sa, si abbocca alle false credenze. Memoria condivisa non significa memoria ‘unica’, ma che la mia e la sua memoria, che possono essere diverse, per orientamento culturale e politico, convergono pacificamente su alcuni dati di fatto. […] Memoria condivisa significa riconoscere delle verità nel campo opposto al proprio”» (Goffredo Pistelli) • «Considero più elegante guardare la trave nel mio occhio, anche se l’avversario ha negli occhi una fabbrica di legname. Si chiama fair play, ma è anche un modo per essere credibili».