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 2025  febbraio 25 Martedì calendario

Biografia di Recep Tayyip Erdoğan

Recep Tayyip Erdoğan, nato a Istanbul il 26 febbraio 1954 (71 anni). Politico. Presidente della Turchia (dal 28 agosto 2014, rieletto nel 2018 e nel 2023). Già primo ministro turco (2003-2014) e sindaco di Istanbul (1994-1998). Leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) (dal 21 maggio 2017; in precedenza, dal 2001 al 2014). «Il 4 luglio 1918, Mehmet VI saliva al soglio della Sublime Porta per certificare la sconfitta nella guerra mondiale e assistere allo smembramento dell’impero ottomano. Qualche anno dopo Mustafa Kemal assicurava Mehmet alla storia come l’ultimo sultano, il 36°. Dopo 623 anni d’impero, nasceva la repubblica. Un secolo più tardi, ricordando il glorioso passato e i “tradimenti” che nei momenti di crisi ogni autocrate imputa agli altri, Recep Tayyip Erdogan vuole resuscitare una versione moderna di quella Turchia ottomana: se Mehmet è stato l’ultimo sultano del XX secolo, lui da “presidente esecutivo” vuole essere il primo del XXI» (Ugo Tramballi) • «Kemal Atatürk […] affrontò nel 1921 la sfida con la modernità, impose uno schema istituzionale di esclusione dell’islam da qualsiasi agibilità politica e statuale, lo relegò alla sfera religiosa e mise a presidio di questa barriera laica il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, in cui i generali turchi sono maggioranza e hanno potere di nomina di… se stessi e addirittura di dimissionamento di un governo che violi la laicità. Non solo: Atatürk tentò di minare alle radici la presa dell’islam: chiuse d’imperio le confraternite islamiche (che però si inabissarono ed elusero i divieti), ne sequestrò i beni, pose le moschee sotto il controllo del governo e cambiò l’alfabeto da arabo a latino: una specie di “genocidio culturale”. Erdogan ha sviluppato tutta la sua impetuosa carriera politica con l’obiettivo di eliminare questa tutela istituzionale dei generali sul potere esecutivo e di far trionfare l’islam politico in tutti gli spazi della società. Questa è la chiave della sua leadership, sviluppata con prudente gradualismo e una forte predisposizione alla “dissimulazione”, tipica arma dell’islam politico» (Carlo Panella) • Umili origini. «Nato […] in una famiglia originaria di Trebisonda (o forse della Georgia) a Kasimpasa, vecchio quartiere di Istanbul che confina col Corno d’Oro, si trasferisce con la famiglia sino ai 13 anni a Rize sul mar Nero, a causa della professione del padre: guardia costiera. Ritornato a Istanbul, viene iscritto in un liceo religioso (Imam Hatip), scelta usuale per le famiglie turche tradizionaliste, che però non permette l’accesso agli studi superiori né alla Scuola superiore di amministrazione cui Tayyip ambisce» (Panella). «Le modeste condizioni della famiglia lo obbligano per mantenersi a vendere ciambelle e limonate» (Alberto Negri). «La prima passione del giovane Erdogan è il calcio, ma deve celarla al padre, che la ostacola (nasconde persino le scarpette nel sacco del carbone). Quando decide di passare al professionismo, in vista di un eccellente ingaggio nella seconda serie turca, il padre lo blocca, e si concretizza la prima “sliding door” della sua vita. Trova infatti un modesto impiego nella società di trasporti urbani di Istanbul – penetrando così nei meandri politici e amministrativi della municipalità più grande d’Europa (12 milioni di abitanti) –, e si iscrive alla Federazione giovanile del Partito della salvezza nazionale (Msp), filiazione della Fratellanza musulmana diretta da Necmettin Erbakan, per poi passare al suo nuovo partito, Refah. In Turchia, però, prendere la tessera di un partito nella prospettiva di farvi carriera impone di muoversi anche su un livello “coperto” misterico. Per un islamista, l’obbligo è di iscriversi a un ramo della confraternita sufi Naqshbandiyya, ed Erdogan sceglie il ramo “Nur”, “Luce”, in cui militano sia il leader Erbakan sia il teologo Fethullah Gülen. Una “copertura” indispensabile: nella confraternita e nei suoi misterici conciliaboli vengono prese le decisioni che contano. Specularmente, se Erdogan fosse stato un laico kemalista, la sua iscrizione al Partito popolare repubblicano (Chp) avrebbe comportato l’iscrizione alla massoneria, baricentro decisionale dei Giovani turchi, di Kemal Atatürk e – sino al governo Erdogan – del quartier generale delle Forze armate. Sono questi i pilastri su cui si basa quello “Stato profondo” determinante nel processo decisionale e nella dinamica di potere in Turchia. […] La sua carriera pubblica inizia con la conquista della municipalità di Istanbul, di cui è sindaco dal 27 marzo 1994 al 6 novembre 1998. Defilato in questo ruolo amministrativo, Erdogan assiste da una posizione protetta al declino del suo leader Erbakan, che pure aveva vinto le elezioni politiche del 1997 e che era stato nominato primo ministro, ma che viene dimesso d’autorità dai generali del Consiglio per aver violato la laicità dello Stato. L’ennesimo “golpe bianco” dei generali turchi. Erdogan termina però la sindacatura di Istanbul con un arresto per “violazione della laicità e incitamento all’odio religioso”, per aver pronunciato durante un comizio questi versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…”. Nulla di eversivo, ma indicativo della volontà dei generali di non concedere il minimo spiraglio all’islam per entrare nella scena politica. Un indubbio sfregio alla libertà di pensiero, ma anche un argine al dilagare dell’islam politico. Erdogan prende atto della condanna e ne trae prudenti conseguenze. Rompe con Erbakan e fonda il moderato Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), assieme all’ex sindaco di Ankara Abdullah Gül e al teologo Fethullah Gülen, leader della Fondazione Hizmet, che controlla migliaia di moschee nel mondo, molti network televisivi e giornali ed è ramificata ai vertici della magistratura e della polizia (Gülen parte subito per un libero esilio americano, per non essere arrestato dai generali). L’Akp di Erdogan e Gül si presenta alle elezioni politiche del 2002 sfruttando tre clamorosi scenari. Innanzitutto la scomparsa dalla scena del Partito democratico (Dyp): travolto dagli scandali finanziari, dalla corruzione e dallo scoppio della enorme bolla speculativa “delle piramidi”, il Dyp non passa la soglia di sbarramento con il 9,6 per cento. In secondo luogo una situazione economica fuori controllo, con l’inflazione al 73 per cento, che spinge l’elettorato alla ricerca di homines novi. Infine, il meccanismo distorsivo indotto dallo sbarramento che la legge elettorale turca fissa al 10 per cento (per escludere la rappresentanza della minoranza curda, appunto il 10 per cento della popolazione), sorpassato dall’Akp con un 34,3 per cento che però gli assegna la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, perché deve condividerli con una sola altra forza politica, il laico Chp, che si ferma al 19,38 per cento. Questo primo trionfo di Erdogan è oscurato dall’umiliazione personale che gli viene inflitta dai generali: la sua elezione in Parlamento è annullata a causa della sentenza del 1998. Con spirito realpolitiker, il leader dell’Akp rispetta il verdetto (si farà eleggere in seguito in un turno suppletivo), nomina premier Abdullah Gül e inaugura una fase di moderazione in politica estera e di straordinaria efficienza nella politica economica. Nel 2003 Erdogan [ammesso in Parlamento il 9 marzo e divenuto primo ministro quattro giorni dopo – ndr] invia la flotta turca a difendere le coste di Israele da un eventuale attacco missilistico di Saddam Hussein (mossa incredibile con gli occhi di oggi) e assicura all’America l’uso delle basi turche per un contingente di 60 mila militari americani che invaderanno l’Iraq da nord. L’assicurazione però è vanificata in Parlamento dall’Akp, non è chiaro se con l’approvazione o no dello stesso Erdogan. Il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, intanto, condensa la nuova strategia di politica estera della Turchia nello slogan “Nessun problema con i vicini”, inclusi Cipro e la Grecia, nemici secolari. Quanto a Israele, durante i primi anni del governo Erdogan, continuano le manovre militari congiunte turco-israeliane, Ankara acquista carri armati israeliani e soprattutto firma un mega-contratto per la fornitura a Israele di acqua potabile, via mare, per decine di milioni di dollari. Un prezioso aiuto strategico a Gerusalemme. Si consolida così la fama di Erdogan (che ha portato in tre anni l’inflazione turca dal 70 al 5 per cento) quale leader di un islam moderato. Erdogan, nel frattempo confermato premier vincendo nel 2007 col 46,58 per cento le elezioni, avvia quel radicale ribaltamento del modello democratico turco che aveva dissimulato per anni. Incredibilmente è l’Unione europea a chiederglielo, perché per l’ingresso della Turchia in Europa è indispensabile che Ankara applichi i “parametri di Copenaghen”. Bruxelles chiede a Erdogan di eliminare i poteri sovraordinati al governo esercitati dai generali turchi attraverso il Consiglio per la sicurezza nazionale: violano i princìpi definiti da Montesquieu, ma Montesquieu non pensava a una società islamica. L’Europa, senza neanche rendersene conto, concorre a eliminare il formidabile impedimento istituzionale all’esondare dell’islam politico in Turchia. Da parte loro, i generali del Consiglio si trovano con le spalle al muro di fronte alla spada dell’ingresso nell’Ue brandita da Erdogan. Man mano che la Costituzione turca viene modificata, eliminando il potere politico dei militari a difesa della laicità dello Stato, il vero Erdogan mostra il suo inedito, autoritario volto islamista. Nel 2008 inizia a smontare i rapporti di alleanza con Israele a seguito della guerra di Gaza. Continua nel 2010, sponsorizzando l’avventura della Freedom Flotilla che origina il disastroso incidente della Mavi Marmara. Rompe l’alleanza con Fethullah Gülen, che critica le sue scelte anti-israeliane e che via via si schiera tra la sua opposizione. Ma soprattutto – è il suo capolavoro machiavellico – a partire dal luglio del 2008 spinge la magistratura a incarcerare centinaia di generali e alti ufficiali delle forze armate, accusandoli di avere complottato contro il governo nelle cospirazioni Ergenekon e Balyoz. Sostituiti con fedelissimi i vertici militari, stravinte le elezioni del 2011 col 49,83 per cento, forte di un incremento del Pil che supera il 10 per cento, Erdogan sviluppa sempre più chiaramente la visione autoritaria implicita nell’islam politico. Con le “primavere arabe” del 2011 vede la possibilità di estendere l’egemonia della Turchia e sua personale al mondo arabo. In primis all’Egitto, in cui sposa il governo dei Fratelli musulmani e Mohammed Morsi. Ma non controlla le dinamiche create dal collasso per spinte interne dei regimi arabi. Infine, è proprio lui a determinare una clamorosa spaccatura nel mondo sunnita, in cui un ampio fronte, che fa perno sull’Arabia Saudita, contrasta ad alzo zero quella Fratellanza musulmana di cui il presidente turco (passa a questa carica nel 2014) si sente leader morale mondiale. La rivoluzione popolare che scuote la Siria e che si trasforma in guerra civile lo spinge a ribaltare la strategia di Davutoglu […] e a “rompere con tutti i suoi vicini”, inclusi la Russia e l’Iran, per abbattere il regime baathista di Bashar El Assad. Erdogan appoggia i ribelli anti-Assad, li rifornisce d’armi, senza fare distinzione tra quelli che può controllare e quelli che poi confluiscono nello Stato islamico. Con la rivolta di Gezi Park del 2013 i suoi tratti autoritario-islamisti si dispiegano in pieno: governa la Turchia con la repressione acuta delle piazze e delle opposizioni politiche e culturali, di cui fanno le spese soprattutto i giornalisti, arrestati a decine. Con Gezi Park, Erdogan rompe definitivamente con Fethullah Gülen, che si schiera con i manifestanti e che subito dopo è accusato – non a torto – di avere ispirato le inchieste per corruzione che toccano due ministri dell’esecutivo di Erdogan e persino i suoi figli. I magistrati che indagano vengono sostituiti, alcuni alti funzionari di polizia arrestati. L’unica mossa lungimirante di Erdogan è una accorta politica nei confronti dei curdi. Il Kurdistan iracheno diventa di fatto uno Stato satellite di Ankara e il suo presidente Massud Barzani un alleato. Ma la mossa più coraggiosa di Erdogan è l’accordo stipulato nel carcere dell’Isola di Imrali, tramite il suo fiduciario Hakan Fidan, capo dei servizi segreti (Mit), con Abdullah Oçalan, per una road map che chiuda la guerra civile turco-curda (35 mila morti). Ma la tregua proclamata nel 2014 non regge. Nelle elezioni del giugno 2015 Erdogan subisce un tracollo di voti e scende al 40,86 per cento. Soprattutto, subisce il trionfo dell’Hdp del curdo Selahattin Demirtas, una geniale federazione politica che fa perno sui curdi e che aggrega verdi, ambientalisti intellettuali e persino il movimento gay. Con il 13,12 per cento, Demirtas supera la soglia di sbarramento del 10 e la ripartizione dei seggi toglie a Erdogan la maggioranza in Parlamento. Il presidente deve, dovrebbe entrare in coalizione. Ma questo bloccherebbe la sua ultima aspirazione: modificare la Costituzione in senso presidenzialista. Per questo impedisce una soluzione di coalizione, convoca elezioni anticipate per il 1° novembre e gestisce la campagna elettorale con arresti, e pressioni sulla stampa, soprattutto facendo sì che l’Hdp non possa fare campagna elettorale. […] Il Pkk curdo riprende la guerra civile, e così facendo favorisce Erdogan, che non vede l’ora di presentarsi come unico baluardo per la sicurezza dei turchi e ne bombarda le basi in Iraq» (Panella). Dopo che il suo partito ebbe vinto le nuove elezioni con il 49,50% dei voti, riconquistando così la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, Erdoğan si accinse a varare la riforma istituzionale presidenziale cui mirava da tempo, ma trovò un ostacolo nel primo ministro Ahmet Davutoğlu, il quale il 4 maggio 2016 decise quindi di rassegnare le proprie dimissioni, cedendo il passo a Binali Yildrim, favorevole ai disegni del presidente. Tale ulteriore rafforzamento della posizione di Erdoğan acuì però le tensioni con le opposizioni e con l’esercito, che deflagrarono la notte del 15 luglio 2016 in un goffo tentativo di colpo di Stato, la cui repressione fu talmente rapida, brutale ed efficace da indurre numerosi commentatori a ipotizzare che la congiura fosse stata in realtà una messinscena organizzata dallo stesso presidente, nell’ambito di una sorta di «strategia della tensione». «Il governo del presidente Erdogan ha dichiarato lo stato di emergenza il 20 luglio 2016, cinque giorni dopo il tentato colpo di Stato attribuito al predicatore islamista Fethullah Gülen, l’ex alleato del capo dello Stato diventato il suo peggior nemico. Tra l’entrata in vigore del regime speciale e la sua revoca effettiva, il 25 luglio 2018, circa 170 mila persone accusate di legami con l’organizzazione gülenista Fetö sono state perseguite in giudizio, e tra loro più di 50 mila sono finite in prigione. Circa 130 mila dipendenti pubblici sono stati inoltre costretti a lasciare i loro posti di lavoro, nella maggior parte dei casi senza alcuna spiegazione. Una caccia alle streghe che ha permesso al governo di sbarazzarsi anche di numerosi sindacalisti e militanti di sinistra e pro-curdi» (Nicolas Cheviron). A rafforzare ulteriormente la posizione di Erdoğan fu, nelle settimane successive, la clamorosa riconciliazione con il presidente russo Vladimir Putin, apparentemente indotta dalla freddezza con cui gli alleati occidentali avevano salutato la vittoria del presidente turco sui presunti congiurati, ma più realisticamente dovuta al contesto bellico mediorientale: rimasto ormai l’unico antagonista di Assad in seguito al manifesto disimpegno di Obama, Erdoğan aveva infatti pragmaticamente risolto di cambiare fronte, per partecipare insieme ai russi e agli iraniani alla battaglia finale contro l’Isis, in cambio di garanzie contro l’istituzione di uno Stato curdo. Nei mesi successivi, inoltre, Erdoğan riuscì finalmente a portare in Parlamento la riforma presidenziale della Costituzione, approvata in sede legislativa nel gennaio 2017 e convalidata da una votazione referendaria il 16 aprile successivo, sia pure con appena il 51,41% dei consensi (a fronte della partecipazione al voto dell’85,43% degli aventi diritto). Definitivo coronamento di tale parabola fu, il 24 giugno 2018, la sua rielezione alla presidenza della Turchia (con il 52,59% dei voti, a fronte di un’affluenza pari all’86,23% degli aventi diritto), per la prima volta con i poteri riconosciutigli dalla nuova Costituzione, che ne fanno sostanzialmente un autocrate. «Il fallito golpe del luglio 2016 ha permesso a Erdogan di cacciare o arrestare migliaia di ufficiali, giudici e insegnanti: lo Stato profondo turco è finalmente nelle sue mani. Le elezioni presidenziali di giugno sono state l’atto finale della conquista dello Stato. “Una lezione di democrazia al mondo intero”, secondo Erdogan» (Tramballi). «Al potere dal 2003, Erdogan avrà ora le mani libere per portare avanti le sue riforme, economiche e sociali, molte delle quali viste con forte preoccupazione dai Paesi europei» (Roberto Bongiorni) • «Oggi praticamente è il sultano della Turchia, e non dobbiamo credere che le recenti [...] amministrative abbiano cambiato granché […] tutto molto relativo, considerando che [tra i principali esponenti dell’opposizione c’è, ndr] uno che recita il Corano durante i comizi, mentre l’ex avversario di Erdogan alle presidenziali è uno che accusa il Sultano di non aver scagliato le Forze armate turche contro Israele. Non c’è turco, per farla breve, che non auspichi il ritorno a una grandeur ottomana come nei secoli passati […]. Nel frattempo lui, Erdogan, mostra infinite facce che ogni volta presenta come l’unico e orgoglioso volto della Turchia, ottenendo tutto quello che vuole con ricatti diplomatici e militari che scivolano morbidi come scimitarre nel burro. Il burro siamo noi Occidente, che trattiamo questa Turchia coi guanti come se fosse uno staterello lontano e invece non bussasse alle nostre porte con rancori secolari mai sopiti, e come se non si trattasse di un altezzoso neo Stato «forte» che ha sostanzialmente abrogato la democrazia e appaia più che mai intenzionato, come è, a tenere alta una generica difesa dell’Islam funzionale all’affermazione degli interessi geopolitici di Erdogan e all’espansione della sua influenza in Asia e nel Mediterraneo. Per un po’, in Europa, ha resistito la Francia, bellicosa con la Turchia sulla Libia, sul Mediterraneo Orientale, sulla regione armena del Nagorno Karabakh (attaccata dall’Azerbaigian) dove Erdogan nel tempo ha perfezionato un odio per gli armeni che è perfettamente sovrapponibile a quello di Hitler per gli ebrei. Meno di quattro anni fa, in un discorso presidenziale ad Ankara, Erdogan denunciò “l’islamofobia” quale “peste dei Paesi europei” che sono “i veri fascisti, eredi dei nazisti” e invitava a boicottare i prodotti francesi. Ma Erdogan ne ha sempre avuto per tutti: persino per gli Stati Uniti e per la Nato, di cui la Turchia fa parte: quattro anni fa, dopo la minaccia di sanzioni perché Erdogan aveva comprato il sistema anti-aereo S-400 dalla Russia, Erdogan rispose agli Usa così: “Applicatele pure, noi non siamo uno Stato tribale, siamo la Turchia”. Loro sono la Turchia, e alla Turchia, non fosse chiaro, importa zero se non entrerà nell’Unione europea: in compenso, da tempo, agita questa esclusione come uno spauracchio, come una prova del grande pregiudizio contro l’Islam e contro la “umma” di cui Erdogan è divenuto leader fondamentalista in giacca e cravatta. Uno che, nel 2016, disse che uomini e donne non possono ricoprire le stesse posizioni “per natura e per indole”. La figlia di Erdogan, Summeyye, erede politica, in compenso dice che compito dell’uomo è “portare il pane a casa e mantenere la moglie e i figli”, sicché è giusto che “alle figlie spetti una quota minore di eredità”. La moglie di Erdogan, Emine, invece sostiene che la donna “è soprattutto madre” e che le turche dovrebbero trarre “ispirazione” dagli harem “che preparavano le donne alla vita” (non è chiaro quale, visto che le concubine erano praticamente incarcerate) e comunque le due, figlia e moglie, girano entrambe a capo coperto. Diceva questo, Erdogan, mentre incassava altri tre miliardi di euro (tre ne aveva già presi) nel secondo anniversario dell’accordo Ue-Turchia sui migranti seguito alla sua cordiale minaccia di riversare milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia in direzione dei Paesi membri dell’Europa. Intanto faceva il pesce in barile sull’Isis, esportava armi in Siria (prima di invaderla) e continuava a negare il genocidio turco degli armeni e di passaggio chiudeva giornali, incarcerava giornalisti e scrittori, censurava internet, e lasciava scrivere, nei suoi libri di Storia, che l’America la scoprirono i musulmani nel 1178: non Cristoforo Colombo. Nulla di strano se Erdogan sia diventato anche un riferimento internazionale per squilibrati con la decapitazione facile» (Filippo Facci) • «Il rifiuto di condannare Hamas come organizzazione terroristica è molto grave. Tuttavia, Erdogan non è Putin. Si è sottoposto più volte al vaglio del consenso popolare; anche se elezioni che si tengono con oppositori in carcere non sono pienamente libere. Eppure nel suo ventennio Erdogan ha rimesso il suo Paese al centro della scena internazionale. Non c’è crisi in cui Ankara non giochi un ruolo, dai migranti all’Ucraina, dalla Libia al Medio Oriente. Ovviamente noi europei dobbiamo tenere il punto ed esprimere il nostro dissenso da Erdogan, su Hamas e sul rispetto dei diritti umani, compreso il diritto di Israele a difendersi. Quel che non possiamo fare è fingere che Erdogan non ci sia, e che la maggioranza dei turchi non sia con lui» (Cazzullo).