Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  marzo 02 Domenica calendario

Le vaghe stelle degli antichi non ci scaldano più

Sono ammonticchiati sul mio tavolo una decina di libri di Maurizio Bettini: i suoi contributi al mondo greco e romano, un paio di romanzi, qualche rapida incursione nell’attualità. Orizzonte, quest’ultimo, spesso presente nelle sue disamine da antropologo e filologo del mondo antico. Come dimostra il suo “Chi ha paura dei greci e dei romani”, libro einaudiano che mette in guardia dei disastri che sui classici ha prodotto la cancel culture. Verrebbe da dire che Bettini passa la vita a scrivere e a insegnare: lo ha fatto all’università di Siena, a Berkeley e all’École des hautes études di Parigi. Dopo “Per un punto Orfeo perse la cappa”, sta per tornare con un altro titolo sull’antropologia del mondo antico per il Mulino, mentre sta per uscire per Einaudi il suo saggio sul mito di Fetonte, “Arrogante umanità”. Non so se i libri di Bettini scavino piste nuove o poco battute, ma le sue competenze sono di prima mano. E poi che dire del “Viaggio nella terra dei sogni” (il Mulino), libro di una felicità onirica assoluta e di erudizione appassionata, dove racconta le proprie visioni e sogni? O – per stare al terreno a lui più consono – “Vertere” (Einaudi) discesa nella cultura antica e moderna della traduzione?
Problema quanto mai complicato e affascinante.
Scrivi tanto.
«È vero. Ma leggo anche tanto».
Sei innamorato della tua scrittura?
«Ho avuto una fase della mia vita in cui ho scritto e
pubblicato romanzi. Era il piacere della scrittura».
Gli antichi come vedevano la scrittura?
«La scrittura diventa importante con l’avvento del libro sacro. Nel mondo antico il rapporto tra scrittura e oralità era molto più stringente, come dimostrano i poemi omerici».
Una certa sacralità il mondo moderno l’ha invece attribuita al romanzo.
«La letteratura borghese secolarizza il sacro. Pensa a
Moby Dick. Per quanto mi riguarda, ho avvertito nel gesto dello scrivere liberamente il complemento alle tante ricerche cui la disciplina filologica mi ha costretto».
So che hai scritto un romanzo su tuo padre.
«È stato come colmare un vuoto creatosi dopo la sua morte. Un gesto che mi ha permesso per una volta ancora di vivere in sua compagnia».
Così importante la sua figura?
«Conoscere il proprio padre è un compito arduo. Ma occorre provare. Farlo anche alla luce della gratitudine che gli dovevo».
Di che cosa si occupava?
«Era un militare di carriera. Ma avrebbe potuto essere qualsiasi altra cosa. La mia decisione, forse, non sarebbe cambiata».
Però hai scelto un altro percorso.
«Non avrei mai potuto abbracciare la vita militare. Ho amato i miti, letto i classici, fantasticato sul mondo antico. Ho seguito in pratica le mie passioni legate a un passato remoto».
Ma non disdegni l’attualità.
«Possiamo occuparci di attualità a condizione di sapere innanzitutto che gli antichi pensano da antichi».
Insomma gli antichi non sono noi.
«Fare antropologia con i greci e i romani significa guardarli il più possibile con i loro occhi».
Non è semplice.
«Non lo è. Ma un buon approccio è osservare e descrivere, oltre alle identità, le differenze tra noi e loro».
L’identità è un problema?
«Può diventarlo quando si trasforma nel culto delle radici. Il mito della purezza ariana vantato dagli ideologi del Terzo Reich ne fu la nefasta riprova».
L’antropologia odierna si occupa di folclore, miti, religioni, rapporti di parentela, legami sociali.
«Sono gli argomenti tradizionali ai quali l’antropologia antica ha aggiunto nuovi temi come la rappresentazione e classificazione umane del mondo animale. Il problema è che l’antropologo del mondo antico non può dialogare direttamente con i soggetti studiati: passa sempre attraverso testi scritti o monumenti. Per questo non può fare a meno di filologia, storia e archeologia».
Cosa distingue l’antropologo dell’antichità dal filologo classico?
«L’antropologo dell’antichità ha o deve avere uno sguardo diffratto. Ossia una visione aperta che rifuggendo da percorsi già tracciati si lascia attrarre dalle “stranezze”».
In pratica uno sguardo “queer”. Che tipo di bizzarrie ti attraggono?«Quelle che consentono di cogliere la diversità degli antichi da noi moderni. James Frazer, il grande antropologo dell’antichità, ne Il ramo d’oro si basa esclusivamente sulle somiglianze dei dati etnografici messi a confronto. Viceversa io credo che, per avviare una riflessione comparativa, la ricerca debba concentrarsi sulle diversità».
Ma che cosa sono queste stranezze?
«Gesti, sintomi, o nuclei culturali che assumono per noi forme inusitate. Pensa al mito di Alcesti».
Avrà una notevole fortuna nelle riletture successive.
«Il sacrificio di Alcesti, la sposa che sceglie di morire al posto del marito, è gravido di significati e ha goduto di una vasta ricezione, da Boccaccio a Rilke e oltre. Ma la stranezza per noi moderni è che Admeto dimentica prima delle nozze di fare un sacrificio ad Artemide. La dea si vendica annunciando la sua morte. Apollo per lui intercede con le Moire, ottenendo un privilegio inaudito: al momento della morte potrà farsi sostituire da qualcun altro».
Qualcuno che ci chiede di morire al suo posto più che un destino scritto è un arbitrio, un atto di egoismo supremo. Come lo giustificano i greci?
«Il destino si chiama “Moira”, significa porzione.
Quando la divinità assegna la moira sta definendo una porzione di vita. Nel mondo greco, almeno teoricamente, si può trasferire la porzione di vita a qualcun altro. Non c’è interdetto etico».
In quello romano?
«A Roma il destino èfatum, cioè parola determinante.
Quella a esempio che pronunciano le Parche e che segna il destino della persona. Si tratta di una decisione che non si può revocare. Nessuno può trasferire ad altri il proprio destino».
Perché questa diversità di vedute sul concetto di destino?
«Sono due culture diverse. Nei greci vige la nozione fondamentale di “ripartizione”. In greco si usa la parola
áisache è un altro modo per designare il destino. L’áisa oltre ad assegnare una porzione di vita, indica la parte dibottino che spetta al guerriero, ma altresì è la quota di potere che spetta agli dèi dell’Olimpo. I quali sono molto attenti alle loro prerogative».
Quanto noi siamo attenti alle stranezze del mito.
«Possiamo chiederci a esempio per quale insulsa ragione, dopo essersi inoltrato nel regno dei morti per salvare Euridice, Orfeo decide di voltarsi per guardare l’amata e perderla definitivamente, quando dovrebbe essergli ben chiaro il divieto di Proserpina».
Su quel “voltarsi” di Orfeo esistono numerose interpretazioni.
«C’è chi ha sostenuto che Orfeo si è voltato per troppo amore; chi invece immagina che mentre esce dall’Ade perda la memoria. Virgilio nelle Georgiche parla di follia e imprudenza. Una spiegazione interessante, connessa al problema della memoria, la fornisce Claude Lévi-Strauss che definisce l’oblio un difetto di comunicazione con se stessi. Orfeo, in pratica, non è in grado di gestire il flusso di informazioni che lo riguardano».
Però quando si rende conto di aver perduto l’amata Orfeo si dispera.
«Passa dalla dimenticanza alla nostalgia, cioè da un difetto di comunicazione con sé stesso a un eccesso di comunicazione con l’altro. Non fa che piangere e disperarsi. Pensa e canta solo per Euridice che ormai è definitivamente risucchiata nel mondo dei morti».
Tutto questo cosa ci insegna?
«Dentro il mito di Orfeo ed Euridice si nasconde una patologia comunicativa, situazione che la nostra contemporaneità conosce assai bene. Qualcosa cui il mito può solo alludere. Come pure può suggerire l’idea diquanto sia pericoloso il rapporto tra l’amnesia e la morte. Si tratta, in questo caso, di un legame testimoniato anche dalla tradizione romana. Cicerone riporta la credenza secondo cui leggere le iscrizioni tombali comportava la perdita della memoria. I successivi racconti del folclore confermeranno la presenza di questo tema».
In che modo un mito può arrivare fino a noi?
«Un mito è in grado di sopravvivere nelle numerose riprese artistiche, teatrali, letterarie, cinematografiche. Nel linguaggio e perfino in certe formule: “il complesso di Edipo”, l’ “associazione Antigone”. Sono molti poi anche i libri che continuano a riproporre i miti antichi per bambini e adulti.
L’essenza di questo discorso va a toccare il rapporto tra la vita e la morte. Non a caso il mito di Orfeo è il tentativo fallito di far trionfare la vita sulla morte».
Qualcosa va storto.
«Sì, ma perché?».
Per la superficialità di Orfeo.
«D’accordo, ma cosa insegna questa superficialità o meglio ancora la dimenticanza del nostro eroe? Che si può perdere la vita per un’inezia. Come nel titolo del mio saggio Per un punto Orfeo perse la cappa».
Nel proverbio era Martino.
«Orfeo è come il monaco Martino che perse la cappa di canonico perché dimenticò di mettere un punto nel testo che stava scrivendo. Il che prova che “dimenticare” come accade a Orfeo non è un fatto eccezionale. La sua disavventura ricorre frequentemente nei racconti di folclore. Molte civiltà hanno dedicato sforzi letterari e religiosi per garantirsi l’immortalità».
Senza riuscirci.
«O spostandola in un mondo altro. L’oblio di Orfeo ci dice che possiamo immaginare di sfuggire alla morte ma che il tentativo è destinato a fallire per una dimenticanza».
Per un futile motivo.
«Questo “nonnulla”, proprio perché “ridicolo” ci suggerisce che possiamo continuare a sperare. Che il mito della beffa si trasformi inaspettatamente in mito della speranza. Il che non esclude che ci siano altre letture e interpretazioni. La filologia si fonda su principi che vanno accuratamente rispettati ma è, come diceva un mio maestro, una scienza del probabile».
Un po’ come accade con l’interpretazione dei sogni.
«In qualche modo è così. Oltretutto, la vita onirica ha sempre suscitato l’interesse degli antichi. Per loro come per noi i sogni sono veicoli di messaggi importanti. La differenza è che per Freud il sogno lascia emergere in modo distorto una verità occultata nelle pieghe della coscienza. Per gli antichi quella verità enigmatica rivela il destino».
Accennavi prima ai tuoi maestri.
«Ho studiato a Pisa. Il mio maestro è stato Marino Barchiesi, un grande latinista. Mi assegnò la tesi su Plauto. Volevo laurearmi a ottobre e per discuterla loraggiunsi nell’estate del 1970 a Roncegno nella Valsugana. Viaggiai in treno e corriera. Portai con me alcuni libri di poesia per trascorrere il tempo: Heinrich Heine e John Keats. Soprattutto Keats mi sembrava congeniale per la montagna. Amavo la poesia romantica. Barchiesi si incuriosì di quelle letture così tempestose. Gli dissi che per prova mi ero ingegnato a tradurre To a Nightingale, Ode a un usignolo, restò sorpreso. Conosceva quelle liriche. Mi prese il libro dalle mani e declamò l’ode di Keats Ode su un’urna greca, un canto sulla bellezza senza tempo».
Bizzarro, si potrebbe commentare.
«Sì, davvero strano. Ero lì per discutere la tesi e accogliere le sue correzioni. Ma quel pomeriggio la conversazione prese tutt’altra direzione. Mi chiese se avevo lettoLe stelle freddedi Guido Piovene. Dissi no. Volle prestarmelo con l’intesa che glielo restituissi la mattina dopo. Nella pensioncina passai l’intera notte a leggere il romanzo.
Con la mente andai alle caserme nelle quali da bambino abitavo per via della professione militare di mio padre. Fu un pensiero rivolto a una modesta disciplina. Non ricordo più nulla di quel romanzo, salvo l’apparizione del fantasma di Dostoevskij».
Non ti era piaciuto.
«Provai un certo senso di delusione. Pensai al mondo antico, all’attenzione con cui i greci e i romani interrogavano gli astri aspettandosi qualcosa in cambio.
Per loro la fede nel cielo era non solo fonte di conoscenza ma anche di comportamento. Mentre le nostre stelle, per quanto sembrino più vicine, non ci scaldano più»