Robinson, 2 marzo 2025
“Un altro rap è possibile”
A REGGIO EMILIA Alessio Mariani, in arte Murubutu ha appena fatto un disco che si intitola “La vita segreta delle città.” Cominciamo dal cuore e dall’anima della sua di città, strettamente connessa al suo lavoro artistico: ci fermiamo davanti al Monumento della resistenza reggiana dedicato ai partigiani. Si trova in piazza Martiri del 7 luglio, una strage avvenuta dopo la liberazione, nel 1960, che ha ispirato il brano di Fausto Amodei, Morti di Reggio Emilia. Poi Alessio mi indica la “Libreria del teatro” in via Crispi 6 di Italo Nasi detto Nino, frequentata da Corrado Costa, Achille Maramotti, Antonio Ligabue, Luciano Anceschi e in tempi più recenti da Feltrinelli, Nabokov, dai CCCP – Fedeli alla linea e soprattutto da Pier Vittorio Tondelli a cui Nasi corresse le bozze di Altri libertinie gli fu vicino quando il libro subì il sequestro per oscenità. Oggi, nonostante si trovi in gravi difficoltà economiche, resta un punto di riferimento tra volantini e pubblicazioni di ogni tipo, come quello che annuncia una mostra con reperti rarissimi dedicata a Giacomo Matteotti nella Sala ex Aci, via Sechi 9. Infine visitiamo la biblioteca Panizzi: «Qui ho passato moltissimi pomeriggi da studente», spiega Murubutu.
Da dove viene questo nome?
«Da “marabutto” che nell’Africa sub-sahariana identifica una figura in grado di guarire i mali fisici e sociali attraverso talismani ma soprattutto con le parole. Rimanda quindi al valore terapeutico che le parole possono avere: come il rap».
Come mai hai scelto di studiare filosofia e intraprendere la carriera di insegnante?
«La filosofia a scuola non l’ho mai studiata davvero. Avevo un professore che non era proprio unfilosofo, ma ci assegnava letture e poi ci interrogava senza troppo coinvolgimento. Poi però mi sono appassionato alla storia, in particolare degli anni ’70, e mi è venuta voglia di approfondirli anche dal punto di vista filosofico. Quando poi ho deciso di insegnare, non è stato facile: ho dovuto fare una lunga gavetta, anni di specializzazione e corsi di perfezionamento. Per molto tempo ho fatto l’insegnante di sostegno, vivendo la precarietà del sistema scolastico: sono arrivato alla cattedra nel 2011, dopo aver iniziato a insegnare nel 2001. Ho avuto un figlio nel 2006, quindi dovevo anche provvedere alla mia famiglia. Però amo insegnare e mi consente anche di dedicare del tempo alla musica».
Come ti trovi con gli studenti e quale è il tuo rapporto con loro?
«Mi trovo molto bene. Insegno filosofia e storia in un liceo delle scienze umane, e ho anche insegnato a delle ballerine, visto che il liceo ha anche una sezione coreutica. È una scuola che ha un indirizzo umanistico molto forte, e gli studenti sono spesso motivati, il che facilita il lavoro. Anche se comunque non è facile: mi trovo di fronte a ragazzi molto influenzati dalle nuove tecnologie, dai social, dall’intelligenza artificiale. Il cambiamento è evidente rispetto al passato: le generazioni di oggi sono più isolate, tendono a interagire meno e spesso cercano risposte immediate, che le tecnologie danno, ma che non sempre sono corrette o profonde. Il mio compito, secondo me, è quello di stimolare la curiosità e l’interesse, aiutando gli studenti a capire che la conoscenza richiede un percorso e non può essere ottenuta solo con un clic».
Da dove viene invece la tua formazione politica?
«Reggio è una città con una forte memoria resistenziale, anche se oggi, purtroppo, sta svanendo. Negli anni ’90, però, era ancora molto viva. In quel clima, per un ragazzo che cerca modelli da seguire, che ha l’esuberanza dell’adolescenza, era facile identificarsi con l’area politica che si oppone all’ingiustizia».
Perché hai deciso di dedicare il nuovo album alla vita nelle città?
«Perché è un tema che offre infinite possibilità narrative. La città è un luogo dove le storie si intrecciano, e ogni angolo può nascondere una vita o un’emozione da raccontare. E, come sempre, il mio obiettivo è raccontare con la musica e le parole per creare qualcosa che risuoni in chi mi ascolta. Anche con una volontà didattica: per questo cerco di usare un lessico più ampio di quello che si trova di solito nel rap».
Il disco si apre con la città degli angeli, Los Angeles.
«Racconta di un angelo che scende sulla terra per portare via una donna, ma poi rimane con lei. C’è un parallelismo con Il cielo sopra Berlinodi Wenders e il remake City of Angelscon Nicolas Cage».
E poi c’è “Minuscola”, una storia vera commovente e terribile.
«Parla di Yaguine Koita e Fodé Tounkara: due ragazzi che avevano 14 e 15 anni quando si nascosero il 29 luglio del 1999 in un carrello di un aereo, partito da Conakry in Guinea e diretto a Bruxelles, portando con sé una lettera per l’Europa. È un modo per parlare di immigrazione umanizzando i protagonisti che non sono invasori ma spesso persone che sognano di vivere in un mondo migliore. Inizierò i miei nuovi concerti con questo brano».
“La grande città” invece parla del rapporto tra radici e futuro.
«È la storia di una coppia che vive in un piccolo paese e si divide tra l’amore per le radici e la voglia di cercare un futuro in una città che inquesto caso è Milano. Alla fine, però, non partono mai davvero, rimangono intrappolati per sempre nella loro fantasia».
“Nora e James” è ispirata a Joyce, e alla sua Dublino.
«L’ho presa da un racconto di Federico Pace. Parla di due persone che si incontrano casualmente, lei, Nora Barnacles, è una cameriera a Dublino, lui, James Joyce la vede e se ne innamora. È una riflessione su come le città possano giocare con i destini delle persone, intrecciandoli e poi separandoli, come quando non riescono più a ritrovarsi a un appuntamento e poi invece, sempre per caso, si incontrano di nuovo e stanno insieme per sempre».
In “Megalopoli” invece viri sul reggae con Alborosie.
«Non a caso si parla dimegacity, la Babilonia dei rasta con i suoi ghetti ma anche con la sua vita. I suoni qui vanno dal blues al ragamuffin che si presta molto bene al suo cantato».
“Il deserto a New York” invece è una visione distopica.
«È ispirato da un racconto di Rick Moody, Albertine: racconta di un’America rimasta segnata dagli attentati, in cui la gente si rifugia in una nuova droga che gli permette di viaggiare nel passato per ricordare com’era la New York di prima. Gli zombi sono un riferimento alla crisi di oppiodi».
Molti tuoi testi hanno una forte componente letteraria e filosofica, come il concetto di “flâneur” del brano omonimo.
«Il flâneurè una figura che si muove senza una meta precisa, un osservatore della città che non cerca nulla di specifico, ma che attraversoil suo vagabondare riesce a cogliere le sfumature nascoste della vita urbana. È una figura che ci invita a vivere la città con uno sguardo diverso, lontano dalla frenesia della vita quotidiana. Questo concetto è stato molto esplorato da Walter Benjamin, ed è una visione che mi affascina, perché in un certo senso è un atto di resistenza al capitalismo».
Nel disco hai analizzato il rapporto tra musica e città: come pensi si evolverà in futuro?
«Penso che il futuro della musica sia legato alla capacità di rimanere autentici e di comunicare qualcosa di significativo. Le città, intanto, continueranno a cambiare, ma credo che ci sia una bellezza nelle trasformazioni, anche quando diventano disumanizzanti. La sfida è riuscire a trovare un equilibrio, a fare delle scelte consapevoli, sia nella musica che nella vita e la musica può aiutare a rendere più umana la vita nelle città».