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 2025  marzo 02 Domenica calendario

In volo con Marilyn

Philippe Halsman: il più europeo degli americani, il più americano degli europei. C’è però un primo tempo della vita di uno dei più grandi ritrattisti della storia della fotografia, che sembra non avere alcun rapporto con gli anni americani, con le centouno copertine di Life, con la storica, prima presidenza dell’American Society of Magazine Photographers. Il romanzo biografico di Corrado De Rosa, La teoria del salto (minimum fax) lo riporta nuovamente alla luce.
Fine Anni Venti. Un’escursione in montagna, in Tirolo, con il padre Morduch, dentista lettone di origine ebraica, la morte in circostanze mai completamente chiarite del genitore, ritrovato in fondo a un dirupo, e la terribile accusa di omicidio a carico del figlio, presente sul luogo dell’incidente. I primi accertamenti, l’arresto, il processo indiziario, senza prove, in cui non viene trovato uno straccio di movente, ma che è sufficiente a infliggere una condanna a Philip in un clima di montante antisemitismo. Un Dreyfus austriaco, per il quale si mobilitano uomini politici e intellettuali, giuristi, scrittori, giornalisti, senza che però un «J’accuse» come quello pronunciato da Zola in Francia riesca a ribaltare la situazione. Dopo due anni di detenzione Halsman esce dal carcere, di fatto graziato dal Presidente della Repubblica austriaco ma in realtà senza essere riuscito a ottenere la revisione della condanna e una riabilitazione pubblica.Cambia vita, raggiunge la sorella a Parigi, abbandona gli studi e sceglie la fotografia. Poi, negli anni del conflitto mondiale, grazie all’interessamento di Einstein – che conosceva già la sua clamorosa vicenda giudiziaria – riesce a fuggire dalla Francia occupata e ad approdare a New York. E lì a ricominciare daccapo. Ora, vi sono molti buoni motivi per leggere il libro. Uno è senz’altro la scrupolosa ricostruzione della vicenda processuale: l’incriminazione, i procedimenti giudiziari, le campagne di stampa, la detenzione, infine il rilascio. De Rosa ha letto tutto ciò che era possibile leggere sull’incidente lungo il sentiero di montagna: i rapporti di polizia, le indagini, le lettere dei familiari, le testimonianze e le perizie, le arringhe difensive e quelle dell’accusa, gli articoli di stampa e le prese di posizione dei più grandi intellettuali dell’epoca – Thomas Mann, Jakob Wassermann, Erich Fromm, Sigmund Freud – e riesce a descrivere egregiamente non solo lo stritolamento giudiziario ma anche l’urto tra la comunità tirolese ostile, chiusa, gravata da pregiudizi antiebraici, e la personalità complessa del giovane lettone, mentre si creano le condizioni per l’ascesa di Hitler al potere.
Un altro ottimo motivo per leggere il libro è entrare dentro i segreti dello straordinario lavoro fotografico di Halsman: dai suoi primi scatti europei al successo americano e mondiale. Introspezione psicologica, pazienza e meticolosità, profondità e leggerezza, metodo e intuizione: anima e esattezza, per dirla con Robert Musil. E un dominio tecnico del mezzo assoluto, che De Rosa sa ritrovare negli scatti più celebri del grande fotografo. Un ultima ragione è quella che dà il titolo al libro: jumpology, la teoria del salto. Ovvero l’invito spiazzante a spiccare un salto, che Halsman rivolgeva a tutte le celebri personalità portate dinanzi all’obiettivo. Salta dunque, Marilyn Monroe, saltano i duchi di Windsor, salta Nixon, saltano la Loren e la Bardot, Fred Astaire e Gene Kelly, e Salvador Dalì (soprattutto Dalì). Saltano tutti, e tutti rivelano qualcosa di sé che nessuna posa avrebbe potuto restituire. Concentrarsi sul salto significa dimenticarsi dell’obiettivo, ma soprattutto di se stessi. Le convenzioni cadono, le difese si allentano.
Ma, dopo l’ultima pagina, a libro chiuso, c’è ancora qualcosa che fa pensare. Che non so quanto fosse nelle intenzioni di De Rosa, quando si è appassionato alla storia: vedendo un manifesto, Jodie Foster ne “Il silenzio degli innocenti” con la bocca chiusa da una falena, sul cui dorso sette corpi nudi di donna formano un minuscolo teschio. È l’opera di Dalì, In voluptas mors, ripresa dal sodale Halsman.
Il libro ha sullo sfondo gli anni bui del primo Novecento, e, in seguito, l’epidemia americana dell’immaginario occidentale che esplode dopo la fine della Seconda guerra mondiale; racconta indirettamente il declino del Vecchio continente, l’orlo del precipizio non solo del vecchio Halsman nello Zillertal austriaco ma dell’Europa intera, e poi l’american way of life, e le sue icone consacrate dagli scatti di Halsman. Ma a far pensare, da ultimo è il chiasma che prende forma grazie alla biografia del fotografo: essere europei, essere americani: come si compongono queste due metà? Come si compongono oggi? Nel libro non compare la parola Occidente, usata per tutto il secolo scorso per tenerle insieme. Oggi viene il dubbio che quella parola non funzioni più. Halsman ha usato discrezione, ironia e un paio di pensosi occhiali per attraversare la follia europea e mantenere sufficiente distacco negli anni del grande successo d’oltreoceano. Ma quali doti occorrono oggi per tenere ancora insieme una storia europea in America, americana in Europa?