Robinson, 2 marzo 2025
Indagando sull’enigma Thomas Mann
Credeva nell’oroscopo, o fingeva di crederci, che forse è lo stesso. Di sicuro era arrivato alla conclusione, su base astrologica, di essere nato al momento giusto, in una tarda mattinata domenicale di inizio giugno di centocinquanta anni fa. «La posizione dei pianeti era favorevole». Il segno dei Gemelli sembra, tutto sommato, quello congeniale. Siamo a Lubecca, Germania settentrionale, suonano le campane del dì di festa – e tutto, compresa l’anima della città, è pronto a essere reinventato letterariamente, a diventare materia di scrittura. Il piccolo Tommy, una volta cresciuto abbastanza per la scuola, non vanterà grandi voti in tedesco, come pure ci si aspetterebbe ( la scuola, «quell’istituzione ostile» !). Va maluccio e, se pensa al futuro, si vede pasticcere o conducente di tram.
Ma l’imponente lavoro di scavo che Hermann Kurzke squaderna nelle 650 pagine del suo Thomas Mann. La vita come opera d’arte – appena riedito da Carocci per il doppio anniversario manniano (1875-1955), nella traduzione di Anna Ruchat – mira anche a illuminare l’intelligenza e lo slancio dell’autodidatta.
Legge le opere di Schiller – un regalo di Natale – e si entusiasma come un affamato «davanti a un piatto di panini imburrati». Segue tutt’al più la scia del fratello maggiore, Heinrich, iperlettore e futuro scrittore di fama anche lui. Thomas è tuttavia più sensibile alla musica e, ancora adolescente, scopre Wagner.Kurzke, germanista di lungo corso scomparso un anno fa, esplora ordinatamente, da impeccabile biografo, l’esistenza di Mann, ma quasi a ogni pagina salda il vissuto al suo riflesso nell’opera letteraria: i «dolci dolori giovanili», le infatuazioni per i compagni di scuola – uno in particolare, Armin Martens – diventano fin troppo rapidamente materia di racconto. «Quanta fretta di porre la questione sul piano letterario!»: Kurzke si lascia sfuggire l’esclamazione, un poco attonito di fronte alla disinvoltura con cui Mann, ancora travolto da quella cotta, si impegna a tradurla in «poesia imperitura». Gesti piccoli, minuzie – il prestito di una matita – si insinuano nelle pieghe dei romanzi e dei racconti; una specie di vampirismo felice che gli fa usare da cavia sé stesso, la vita che chiamiamo privata, per farne qualcos’altro. Camuffa, rimodella, distanzia. Non riuscendo tuttavia a nascondere (benché forse si illuda) il grande, lacerante terrore della sua vita, la paura di cedere. A cosa? Alla forza dell’eros, della sessualità e dell’amore, il richiamo di Dioniso. «Le sue grandi opere – scrive Kurzke – sono tutte storie di un cedimento interiore: ovunque la personalità crolla sotto l’assalto del rimosso, ovunque, dalle prime opere fino alle più tarde, si rivela con pena qualcosa che era rimasto celato».
Il biografo non esita: più che la paura della passione, poté quella dell’omosessualità. Il cui esito nevrotico, trattenuto dalla borghesissima apparenza, è la corrente che circola nelle pagine di capolavori come Morte a Venezia. «Il giovane Tadzio, nuovo Ermes psicopompo, conduce l’anima di Aschenbach nell’Ade, vince il mondo della morte, un mondo che ha perso e confuso i suoi confini, un mondo dell’indifferenza etica e del piacere della disfatta».
Manca niente alla Grande Guerra. Mann è pronto a sfogare nelle Considerazioni di un impolitico un enfatico estetizzante bellicismo e qualche scivolosa fascinazione autocratica. Abiurerà, in tempo per non restarne macchiato per sempre. L’iniziale indifferenza per la nomina di Hitler a cancelliere diventa curiosità quasi complice e, progressivamente, una angosciata avversione; infine, l’odio aperto del tedesco in esilio.
Ma a Kurzke interessano soprattutto i recessi della vita psichica del gran personaggio, il contraddittorio lavorio della sua mente, le tracce che nei segretissimi diari danno conto di turbamenti, accensioni larvatamente incestuose, preoccupazioni familiari – il marito e padre di sei figli si rivela, di tanto in tanto, meno scontroso e freddo di ciò che pretende la vulgata. Ma comunque irraggiungibile nella sua solitudine dolorosa e insieme feconda: «Non gli era possibile spiegarsi pienamente agli altri, e di certo non poteva rivelare gli abissi della sua anima. È vero, teneva a distanza la gente come se non ne avesse bisogno e ciò poteva sembrare alterigia. Ma non esiste forse anche una ritrosia che in realtà è una richiesta di avvicinamento?». Al momento di congedarsi dal mondo, nell’estate zurighese del 1955, carico di onori, un classico vivente, prova a «mettersi d’accordo» con la morte. D’altra parte è tutta una vita che pensa all’enigma dell’uscita dal tempo. Il suo sguardo fattosi blu si acquieta, come di chi si disponga ad ascoltare musica. «La morte era venuta di soppiatto, ma dolce e indolore, proprio così come un tempo le stelle compiacenti gli avevano promesso».