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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Intervista a Sara Petraglia

«Volevo scrivere un romanzo» dice Sara Petraglia, 36 anni, regista de L’albero, suo primo film. Prodotto dalla Bibi Film e distribuito da Fandango, L’albero, protagoniste Tecla Insolia (Bianca) e Carlotta Gamba (Angelica), esce nelle sale il 20 marzo. È un film piccolo. Piccolo ma importantissimo. La giovinezza come topos letterario: quando ultimamente sembra impossibile raccontarla, nessuno ci riesce – tranne Sally Rooney. Difatti L’albero, la scrittura di Sara Petraglia è la cosa più vicina a Sally Rooney. La regista arriva all’essenza della giovinezza con un film unico, così distante di numerosi film di trama, «incastri di trama senza vita» (citando Chiara Valerio). Qui di vita ce ne è tantissima: Bianca, 23 anni, che va a abitare con Angelica. La loro amicizia gioiosa e pericolosa, il tentativo di fermare il tempo, di mettere in pausa la crescita – drogandosi, perdendosi. Che questa storia sia anche la rielaborazione di un vissuto personale conta poco. Non è di certo il vissuto a formare lo sguardo della regista: lucido, pieno di grazia.
Nella speranza che questo piccolo film venga visto da più persone possibili, nella speranza che in molti colgano la poesia annidata anche nei dettagli, come Bianca che dice a Angelica «ora scriviamo una lettera». Sottinteso: lettera di addio; e nella scena successiva c’è Bianca svenuta sul divano, in mano una busta con su scritto: «Per mamma».
Cosa significa «Per mamma»?
«Nel film gli adulti non compaiono mai, eppure non sono assenti. Nominati, evocati, la lettera per la madre, il bonifico del padre, la residenza che è ancora casa di mamma e papà».
I vent’anni di Bianca e Angelica?
«Ragazze privilegiate, figlie di papà, non studiano, non lavorano. Il rischio era l’antipatia, che risultassero antipatiche. Mi sono posta il problema, poi me ne sono fregata».
Ritiene «L’albero» un film generazionale?
«Quando mi chiedono se è un film sui ventenni, dico no».
Perché?
«Non mi sento rappresentativa di nessuno, non voglio esserlo. Anche pensando al mio spicchio di mondo, avevo amiche molto diverse da me. Due di loro lavoravano dall’età di 16 anni».
Il momento in cui decide di scrivere il film?
«Avevo deciso di non scrivere mai un film perché lo fa mio padre (Sandro Petraglia, ndr). Volevo fare un romanzo, scrivere una sceneggiatura mi sembrava facile. Ovviamente era paura del confronto con mio padre».
Il romanzo?
«Mai scritto. Nel senso: fin da bambina scrivevo quello che vivevo. Diari, appunti, brani di conversazioni. Intere notti, giornate. Pezzi di qualcosa, non il romanzo, sul romanzo fallisco».
E...?
«Mio padre mi fa leggere I sillabari di Goffredo Parise. “Magari trovi una forma”, dice».
Trovata?
«Il contrario: rinuncio. Sentivo che non sarei mai stata capace di creare qualcosa di così bello come I sillabari».
Allora?
«Provo a raccontare in altri modi: poesie, foto. Addirittura una fanzine autoprodotta».
Titolo?
«Le straordinarie avventure di Malinkovskij. C’erano i disegni, brutti, io non so disegnare».
Destinazione della fanzine?
«La distribuivo gratis a Forte Prenestino. Un giorno una ragazza mi chiede: perché dai a tutti una cosa così intima?».
In che modo intima?
«Nella fanzine, come adesso nel film, io raccontavo la mia storia, il periodo di dipendenza dalla droga».
Dai primi tentativi di scrittura alla sceneggiatura esiste qualcosa di invariato, elementi ricorrenti?
«L’albero, la cocaina, l’amica».
L’albero?
«Me ne vado da casa dei miei, Roma centro, per trasferirmi con un’amica al Pigneto. Dalla finestra si vedeva un pino. In mezzo alle case questo pino solitario».
Oggi?
«Per girare il film mi serviva una finestra da cui si vedesse un albero. Alla fine vado lì, nella mia vecchia casa. Mi aprono due ragazze, le nuove inquiline. Due studentesse molto ordinate. A un tratto mi accorgo che non hanno cambiato niente. C’erano ancora le nostre scritte sui muri, gli adesivi sul frigorifero, il posacenere arancione».
Sensazione?
«Ho pensato: come abbiamo fatto a vivere qui? La casa mi è sembrata piccolissima, quel sentimento che in genere provi rivedendo un posto dell’infanzia. Ecco, era come se in quei pochi anni fossi cresciuta tantissimo».
Il pino?
«Non c’era più. Credo abbattuto per costruire una villetta».
Reazione?
«Ho capito che era giusto metterlo nel film. Raccontare per farlo rimanere. Ho sempre fotografato i miei amici per non perderli, e li ho persi di continuo».
Torniamo ai suoi vent’anni.
«Odiavo il concetto della realizzazione di sé. Talvolta chi si droga se ne vanta, la droga diventa una bandiera contro la realizzazione di sé».
Quindi?
«Solo adesso capisco che la realizzazione di sé può avere un’accezione positiva».
In passato?
«Ero circondata da persone che non avevano idea di cosa fare nella vita, io stessa non avevo idea, né volevo averla. L’impressione era che ci fosse ancora tanto tempo davanti».
C’era?
«Sì, e un attimo dopo no».
Nel senso?
«La nostra era paura di dover scegliere. Mi sono iscritta all’università per rimandare il momento di essere qualcosa».
Considerato il suo ambiente di provenienza, lei avrebbe potuto da subito lavorare nel cinema, avere mille possibilità.
«Mi sarei persa amici che altrimenti non avrei incontrato, non ci sarebbero stati i giorni a far niente sul prato di Lettere. Quei giorni, io li rivivrei tutti».
Dicevamo degli elementi costanti nei suoi tentativi di scrittura: l’albero, la cocaina, l’amica. La cocaina?
«Nella vita reale dai 23 ai 28 anni. Nel film un mese».
Bianca nega di avere una dipendenza.
«Anch’io negavo. In quegli anni scrivevo molto, e avevo il terrore che senza cocaina non sarei stata capace. Finché la psicoterapeuta del Sert mi dice: “Se lo sai fare con la cocaina, lo sai fare anche senza”. Questa frase mi libera».
Sempre in quegli anni.
«Facevo la fotografa di scena».
L’assistente dell’assistente dell’assistente, come si definisce Bianca?
«Sì».
La dipendenza ha condizionato la sua realizzazione?
«Ho perso lavori. Una volta dovevo incontrare un fotografo importante. Non mi sono svegliata. Ho inventato di avere la febbre».
Quante volte ha avuto la febbre in quel periodo?
«Molte».
Poi?
«Sono andata al Sert, mi sono curata».
Nel film Bianca parla della bellezza dei ragazzi di Marechiaro, senonché vengono mostrati i ragazzi e sono normali. La bellezza per Sara Petraglia?
«Tutto ciò che è giovane e inconsapevole. Le cose che ti passano davanti rapide e che provi a fermare».
Sara prima della dipendenza?
«Liceo, turbine d’amore. M’innamoravo di chiunque, in genere di persone che non sapevano neppure che io esistessi».
Per esempio?
«Con una mia amica guardavamo una ragazza che ci sembrava un ragazzo. Dicevamo: peccato che non sia maschio. Ancora non avevo capito che mi piacevano le femmine».

Quella ragazza, dunque?
«Sapevo di avere poco tempo per studiarla: lei era all’ultimo anno, e stava uscire dal mio campo visivo».
Com’era?
«Triste, distaccata. Vestita di nero, capelli blu da un lato, ciuffo davanti agli occhi. Molto alta. Io sarei diventata più alta, ma lì non lo sapevo. A scuola dicevano che si drogasse. Nei bagni c’erano le scritte: nome cognome, “impasticcata”, “tossica”».
Suo pensiero davanti alle scritte?
«Stavo male per lei, m’immaginavo quanto potesse soffrirci. Stavo male e insieme ero affascinata dall’impasticcata».
Tracce della ragazza impasticcata in seguito?
«Dieci anni dopo, quando sono io l’impasticcata, mi scambiano per lei. Capita due o tre volte, gente del liceo. Un giorno mi guardo in una vetrina di un negozio e vedo che in effetti sono simile: alta, vestita di nero. In quel preciso istante è finito il liceo, credo, tre anni dopo la fine reale».
La fine, per lei?
«In quinta elementare scrivo una lettera ai compagni: “So che non dimenticherò mai i vostri volti, o almeno ci proverò”. La maestra mi fa notare che è una cosa un po’ strana da dire, potevamo comunque rivederci. Io ho sempre patito la fine. Della scuola, dell’estate, della giornata. Odio il tramonto».
Gesto dell’infanzia rimasto nell’età adulta?
«Da bambina mi era vietato McDonald’s. Crescendo, già alle medie, ci andavo di nascosto. Tutt’oggi se mi devo premiare, ordino McDonald’s».
Di nuovo sulla ragazza impasticcata: rincontrata?
«Ultimo anno di liceo, vedo girare dei volantini: “Vendesi motorino Booster”. Era lei. Scrivo un messaggio al numero di telefono indicato. “Sono interessata al motorino”».
E...?
«Compro il motorino. Non lo sapevo guidare, alla fine non l’ho usato, è rimasto a marcire sotto casa. Di in anno in anno è stato depredato di tutto: specchietto, sellino. È rimasta una specie di reliquia».
Poi?
«Noi abbiamo cambiato casa e quartiere. Ogni tanto tornavo a rivedere il motorino, finché un giorno non c’era più».
Come l’albero?
«L’albero, la quinta elementare, le scritte nei bagni, i ragazzi di Marechiaro».