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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Jamaica Kincaid "Vivere è cercare semi"

Tutto è politica per Jamaica Kincaid, nata ad Antigua nel 1949, statunitense del Vermont, autrice di una decina di libri in cui la componente autobiografica è l’ossatura di una scrittura dallo stile affilato come un rasoio e tuttavia poetica. Lo è anche in questo Passeggiata sull’Himalaya, uscito in inglese nel 2005, nato dalla passione per piante e fiori: assecondandola, la scrittrice si è incamminata in un trekking di tre settimane in Nepal assieme a tre botanici, alla ricerca di semi da piantare nel suo giardino. Adelphi lo ha appena mandato in libreria con la bella traduzione di Franca Cavagnoli. «È anche merito suo se il volume piace ai lettori italiani», precisa subito Kincaid, collegata via Zoom dalla sua casa.
Forse bisogna partire da che cosa le piace del giardinaggio...«In realtà la domanda è: che cosa non mi piace? Beh, non mi piace che i cervi mangino le mie piante. Quando è successo mi sono precipitata fuori con un vecchio fucile. Sparo in aria. E loro scappano. A parte questo, non riesco ancora a pensare a qualcosa che non mi piaccia. Alla base credo ci sia il mio bisogno di sapere, di capire. Sono appena stata ad Antigua e mi sono imbattuta in un sacco di fiori. Non sono riuscita a identificarli e l’applicazione sul telefono mi ha dato informazioni sbagliate».
Nell’introduzione a «Passeggiata sull’Himalaya» fa risalire questa passione a quand’era bambina...«Amavo molto la storia e la geografia. Erano le mie materie preferite e trovano la loro sintesi nel giardino. Forse la cosa che mi dà più soddisfazione è capire quanto la Terra sia indifferente a noi. La Terra e il mondo sono due cose diverse. La Terra è il pianeta e il mondo è il modo in cui lo addomestichiamo, lo ingombriamo di cose, strade, case e così via».
Nel libro scrive che sua madre le ha dato e insegnato la «Parola».«Lei stessa era una grande lettrice, cosa molto insolita per una donna del suo status. Mio padre ci aveva abbandonato o lei aveva abbandonato mio padre; in ogni caso, io e lei vivevamo da sole. Mi portava con sé ovunque e uno dei posti era la biblioteca. Io ero una bambina che chiedeva molta attenzione, così cominciò a insegnarmi a leggere, con la biografia dello scienziato Louis Pasteur che stava leggendo lei stessa. Era molto interessata alla salute, al cibo, alla medicina. Mi ha insegnato tutte le parole e io le ho imparate subito, non so come, dal momento che non sapevo esistesse un alfabeto. A tre anni e mezzo riuscivo a leggere qualsiasi cosa e lei per tenermi impegnata decise di mandarmi a scuola. Ma bisognava aver compiuto 5 anni. Mi raccomandò: se te lo chiedono, rispondi che hai 5 anni. È stato il mio primo atto di dissimulazione, di menzogna. O di finzione».
Di lei ha scritto molto, non solo in «Autobiografia di mia madre».«Penso molto a lei, nel bene e nel male. Si è rivelata molto malevola in alcuni momenti ma in un certo senso, fin dall’inizio, mi ha dato la forza per sopravvivere alla sua crudeltà. Infatti, con l’età, mi riferisco sempre a lei come a Crono, il dio della mitologia che divora i suoi figli».
Sua madre ha letto i suoi libri?«Lo ha sempre negato, senza sapere che questo mi avrebbe dato soltanto una maggiore libertà. In realtà credo che li abbia letti, non so se sia mai stata orgogliosa di me o altro, ma non sono mai stata dipendente da lei, quindi ho continuato a scrivere».
Scrive che il luogo da cui proviene è sempre l’Eden. Che cos’è allora l’America dove è arrivata da adolescente e dove tuttora vive?«È strano: quando sono in Vermont, penso ad Antigua come casa; quando sono ad Antigua, il contrario. Ma si dà il caso che il Vermont sia un’oasi in America. È stato una Repubblica indipendente: la sua costituzione fu la prima del Nord America ad abolire la schiavitù e a istituire il suffragio universale maschile, anche se questo non l’ha reso immune dal razzismo. Per prima ha riconosciuto il diritto di due persone dello stesso sesso ad avere una relazione civile legale. L’America di oggi è molto diversa da quella di quando sono arrivata, oltre 50 anni fa».
In che cosa?«Sono contenta di essere venuta qui, ci sono molti americani meravigliosi, ma è un Paese che non riconosco più. Il presidente è come il Padrino, un villain. Io non lo chiamo mai presidente, ma Satana. A volte mi sembra di essere come in Alice attraverso lo specchio: tutto negli Stati Uniti, ora, si vede al contrario, in un’altra dimensione. Mi sento americana quando penso a Martin Luther King o a Kendrick Lamar (l’artista hip hop anti- Trump che si è esibito al SuperBowl, ndr). Il problema è che Trump non è solo un cattivo presidente. George W. Bush era un cattivo presidente, Donald J. Trump è un cattivo uomo, malvagio e corrotto. È un criminale condannato. Non ci sono precedenti. È come chiedere al capo della mafia di diventare presidente in Italia, senza offesa per gli italiani...».
Si è fatta un’idea del perché i Democratici non siano riusciti a contrastarlo? Perché Kamala Harris non ha convinto gli americani?«Personalmente pensavo che fosse un’ottima candidata, ne ero molto orgogliosa. Ho mandato i pochi soldi che ho per la sua campagna. Sulla mia parete ho ancora i cartelli che la sostengono e non li rimuoverò mai. Avrebbe potuto essere la presidente, ma gli americani bianchi preferirebbero essere poveri piuttosto che uguali. Uno degli aspetti più inquietanti è quanti immigrati provenienti da parti del mondo che non sono l’Africa rapidamente si siano uniti alla narrazione razzista. Io li chiamo “bianchi adiacenti”. E poi Kamala è una donna. E io continuo a dimenticare quanto la gente odi le donne. In una certa parte dei conservatori c’è un bisogno di infliggere dolore, per esempio rimandando indietro gli immigrati in un posto dove potrebbero essere uccisi, senza preoccuparsene. In America, abbiamo introdotto il sadismo come corrente di pensiero politico: Donald Trump vi appartiene».
Tornando alla «Passeggiata»...«O mio Dio, certo. È difficile per me non parlare di politica perché penso che tutto sia politico. Pensiamo alla Genesi : il Giardino dell’Eden, Dio, Adamo ed Eva. Mangiare il frutto proibito è un atto rivoluzionario. È libertà, è poter vedere. E naturalmente, dalla visione discendono responsabilità e limiti, cosa in cui non siamo molto bravi. La curiosità, andare sull’Himalaya, è una delle cose che speravo di rappresentare in questo libro. Sono sempre curiosa. Forse perché sono cresciuta vedendo ogni giorno il Mar dei Caraibi, l’oceano sconfinato. Mi sono sempre chiesta: che cosa c’è oltre l’orizzonte? Sono sicura che non avrei resistito a salire sulle navi di Cristoforo Colombo».
Non era la prima volta che andava lontano a raccogliere semi.«L’avevo già fatto in Cina. È stata una grande esperienza, ma devo dire che, pur venendo dal terzo mondo, non riuscivo a superare le condizioni igienico-sanitarie. In Nepal eravamo all’aperto, in cammino per tutto il tempo. La cosa affascinante è che non c’è nulla di orizzontale, tutto è verticale. Per andare da qui a lì dovevi prima salire e poi scendere».
È stato un viaggio pericoloso. Vi siete accampati nei pressi dell’aeroporto a Kathmandu e pochi giorni dopo un attacco di maoisti ha ucciso alcune persone. E poi c’erano le sanguisughe...«C’è una foto della mia schiena coperta di sangue. L’ha scattata il mio amico Dan mentre camminavo serenamente perché la sanguisuga mentre ti morde ti inietta un anestetico e pure un anticoagulante».
E i maoisti?«Con il senno di poi facevano abbastanza ridere. Certo se non ti uccidevano... Non si erano resi conto che Mao Zedong era morto, tanto per cominciare. O forse per loro era una specie di totem. Ma erano abbastanza motivati e, se una persona vuole ucciderti, non importa se ha una bomba nucleare o un coltello: ti ucciderà. Le loro bombe erano fatte con pentole a pressione, che a Kathmandu erano vietate. Quando ci hanno trattenuto per ore in un piccolo villaggio non sembravano così simpatici, anche perché parlavano sempre molto velocemente e in una lingua che non potevamo capire. Io ho paura di tutto, ma faccio tutto comunque, non mi faccio fermare».
Per questo non ha scritto con il suo vero nome, Elaine Cynthia Potter Richardson?«Non volevo che mia madre sapesse che scrivevo e, sì, avevo paura di fallire. Non volevo nemmeno che sapesse che avevo provato e fallito perché avrebbe riso di me. La cosa meravigliosa è che nel momento in cui mi sono presentata come Jamaica Kincaid tutti i miei amici hanno detto: oh sì, certo. E nessuno mi ha più chiamato in modo diverso. Quando ho preso la cittadinanza americana è diventato il mio nome legale».
I suoi libri sono basati sulla sua vita, sulle sue esperienze. Ha scritto della sua famiglia, del suo divorzio. Li definirebbe autofiction?«Non posso farlo perché non provengo da una cultura letteraria che distingue tra saggistica e narrativa. C’è solo scrivere prosa o scrivere poesia. Sapevo che non avrei mai scritto poesia perché non ho la disciplina. Se guardo a ciò che viene chiamato romanzo, i miei libri mi sembrano una forma di romanzo. Ma ho anche la mia storia e il mio approccio al mondo. Tutto quello che scrivo è vero, ma nei miei romanzi gioco con le cose e uso un certo stile. I miei libri non sono affatto pensati per intrattenere, sono il contrario di una distrazione. Non ho mai scritto un libro che si possa portare in spiaggia e, anche quando leggo, non voglio rilassarmi o divertirmi, voglio pensare».
È questo l’impegno di uno scrittore?«Io non ho mai separato la politica dal resto. Tutto è politica, anche alzarsi dal letto: prima di tutto bisogna avere un letto. Non ho alcun problema a parlare, a espormi. Scherzando, ma ora vedo che potrebbe essere una possibilità reale, ho sempre detto che sarei disposta a mettere in gioco la mia vita. Non riesco a scrivere comodamente, quello di cui parlo è sempre il risultato di eventi politici. Nella società di Jane Austen la grande casa, i mobili di mogano, sono fatti dai miei antenati. È fastidioso leggere quei romanzi preziosi senza capire che le fondamenta non sono Disneyland, ma la realtà».