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 2025  marzo 02 Domenica calendario

L’overtourism è figlio del mito dell’autenticità

Qualche settimana fa mi trovavo a Firenze per la presentazione di un libro nella magnifica Biblioteca delle Oblate. L’evento si è concluso verso l’ora di cena: cercavo una trattoria in cui mangiare da solo un modesto piatto e sono finito in un piccolo locale, non più di cinque o sei tavoli, addossati a una lunga parete e con vista forno a legna. L’insegna pubblicizzava insalate e crostini toscani. Per abitudine mi tengo sempre lontano dai «piatti tipici», non sopporto l’idea che un luogo debba ridursi a un cibo identitario e infatti mi ero infastidito alla vista delle bisteccone in vetrina, tutto attorno alla zona del Duomo.
Alla fine ho optato per un’insalata nizzarda e un tagliere di formaggi. Arriva il cibo e chiedo se posso avere del pane: «No! Il pane non è compreso!», mi dice la presunta proprietaria che chiacchiera con il cuoco srilankese e dà continui ordini alla cameriera africana. Si può ovviare solo ordinando una pizza o una focaccia al rosmarino. È la prima volta che mi capita di sentirmi dire che pane o grissini non sono compresi: sappiamo tutti bene che il «coperto» non è un dono ma, tutto sommato, pane e acqua di caraffa, laddove disponibile invece delle insostenibili bottigliette di plastica da mezzo litro, ti fanno sentire quel residuo di «finzione» per cui continuiamo a chiamare quello turistico il settore «dell’ospitalità». In effetti sarebbe bene fare un po’ di pulizia linguistica, perché – con le dovute e meritevoli eccezioni – il turismo contemporaneo e soprattutto i luoghi dell’overtourism tutto sono meno che spazi di accoglienza e ospitalità.
Si parla molto di overtourism in questo periodo post-pandemico. Le foto delle folle al carnevale di Venezia hanno fatto il giro del mondo. Il fenomeno si sarà anche aggravato, ma non è nuovo. Se l’overtourism, come scrive Paolo Pane, è «il sovraccarico turistico che si verifica quando un numero eccessivo di visitatori compromette la qualità dell’esperienza turistica e provoca danni alle comunità locali e all’ambiente» (Geografie dell’overtourism, Aracne, 2024), allora la Liguria che frequentavo in estate da bambino negli anni Ottanta era già in pieno overtourism. L’urbanizzazione devastava le colline, i residenti non impegnati nel settore erano vittime di prezzi gonfiati, ricordo ore infinite di coda sulla Torino-Savona. La saturazione degli ultimi anni, certo, è stata favorita anche dalla diffusione delle piattaforme di sharing economy come Airbnb.
Perché affollare tutti e tutte gli stessi luoghi? Che cosa c’entrano in tutto ciò le piattaforme digitali? Marco D’Eramo sostiene che l’esplosione dell’overtourism è legata sia alle dinamiche del mercato sia a un bisogno del turista di esserci, di essere là dove è necessario scattare una foto. Il selfie del mondo è il titolo del libro di D’Eramo (Feltrinelli, 2022): le foto pubblicate sul profilo in luoghi «tipici», spesso gli stessi monumenti che stanno sulla copertina delle guide turistiche, soddisfano un bisogno di «presenza», come avrebbe detto Ernesto De Martino. L’antropologo Duccio Canestrini parla di turismo di performance, l’andare per dimostrare di avercela fatta. La mercificazione dei luoghi ha creato le premesse dell’overtourism, reso poi possibile dall’iper-accessibilità, garantita da voli low cost, cibi di strada a buon prezzo e appunto «ospitalità» fornita dai residenti, al di fuori dei tradizionali hotel.
Ho scritto un pezzo intitolato La famiglia Airbnb («la Lettura» #403 del 19 agosto 2019). Raccontavo dei miei incontri con alcune persone che affittavano ai turisti, attraverso le piattaforme digitali, stanze o parti della casa rimaste vuote per la partenza dei figli: per arrotondare, certo, ma anche per recuperare una socialità in parte perduta o sognare un futuro non solitario. La pratica è rapidamente degenerata. Il mercato d’altronde funziona spesso così: si estende e satura rapidamente ambiti della vita umana caratterizzati anche dal bisogno di socialità e convivialità. Basta pensare ai regali di Natale, alle feste dei nonni, delle mamme e via dicendo. Airbnb rispondeva all’esigenza di ospitare famiglie di 4 o 5 persone che oggi trovano difficilmente posto negli hotel dove tutto è sempre più organizzato per le coppie: permetteva agli ospiti di fare uso di case grandi rimaste in parte vuote, a volte riusciva persino nell’impresa di creare legami sociali. Ben presto però il mercato di massa ha fiutato la preda, affidando la gestione di interi immobili e di lunghe catene di appartamenti a persone specializzate, al punto persino da spingere via dai centri storici gli abitanti originari.
Non è sempre e tutta colpa del digitale, affatto. L’overtourism è anche il risultato di un marketing capace solo di vendere il passato e l’identità. L’Italia ne è un esempio eccellente. Totò che vende il Colosseo è una metafora molto adeguata o forse è proprio la realtà. Vendiamo, soprattutto ai turisti stranieri, l’Italia dei centri storici e dei borghi, dei grandi musei d’arte e dei siti archeologici. Appariamo come i figli degenerati di vecchie civiltà, che non sanno proporre altro che il proprio passato, la propria identità e i cibi tipici. Ci vorrebbe un ministero del turismo che sostenesse la creatività, favorisse le reti di accoglienza locale, pubblicizzasse un’Italia che si trasforma e rinnova, un Paese multiculturale «inautentico» perché pieno di nuove tradizioni da scoprire e da inventare. Ci vorrebbe un miracolo, insomma.
La proprietaria del locale mi dice che sono fortunato. Inizio febbraio è il periodo giusto per venire a Firenze. «I brasiliani rientrano a scuola, così come gli australiani e molti del Sud del mondo. Gli americani non ci sono ancora. I francesi adesso non hanno vacanze». L’overtourism può attendere, ma tornerà ben presto. L’identità è buona da vendere, sul mercato della politica come su quello del turismo.